sabato 27 aprile 2013
lunedì 1 aprile 2013
Hiking Langtang valley - pt.2
Quel che vedo quando mi sveglio, intontito dal mal di testa,
non e’ pero’ grigio bensi’ un cielo immensamente blu, a cui si attaccano
montagne imbiancate da una neve immensamente candida, montagne immensamente
alte. Apro le tende per vedere meglio, e rimango senza fiato. E’ la prima volta
che mi si para davanti agli occhi uno spettacolo del genere. E non posso far
altro che alzarmi, anche se decisamente in preda al mal di testa, e vagare
nella piana a ridosso del paese per fare qualche foto. Quantomeno – questa e’
la buona notizia – la spalla non mi fa piu’ male. Indugio solitario sul pianoro
antistante, mentre il sole piano piano spunta dalla fine della valle ed
illumina le vette, le ombre si dissolvono, la neve splende di luce. Scatto foto
e contemplo la scena nel silenzio che c’e’ alle 7 del mattino a 3850 metri
d’altezza. La sola cosa che mi fa rientrare sono le mie mani, congelate
nonostante i guanti. Incontro uno dei ragazzi con cui mi ero intrattenuto a
cena le sera scorsa, che mi offre una pastiglia per il mal di testa che accetto
di buon grado. Chissa’. Non che programmi nulla di diverso dal riposare per la
giornata, ma viverla senza un martello in testa mi farebbe piu’ piacere. Ecco
poi che mi reco presso una locale bakery: sembra impossibile, ma si, ci sono
pasticcerie anche qui. Con le pinze, ovviamente: la vetrina esibisce 5 torte e
qualche rotolo alla cannella, e un paio di pani, tutto qui. Ma una volta seduto
inizio ad assaporare la torta di mele piu’ buona che abbia mai mangiato,
guarnita con miele (praticamente miele-colla vista la temperatura, non riesco a
staccarlo dal cucchiaio neanche leccandolo). E’ poi il turno di una cospicua
fetta di torta al cioccolato con sciroppo annesso. Deliziosa. Nasce un feeling
che mi portera’ a tornare qui diverse volte. Il proprietario poi, un simpatico,
corpulento locale, e’ una sagoma. Parla un inglese discreto, cosa notevole
visto quanto solitamente (e comprensibilmente) patetico e’ il livello medio
d’inglese delle popolazioni locali, ed e’ molto simpatico. Parliamo un po’ di
tutto, mi prospetta anche l’opzione di frodare la mia assicurazione e farmi
tornare indietro in elicottero facendomi passare come vittima dell’altitude
sickness, cosa intrigante ma a cui rinuncio prontamente onde evitare mesi di
rogne e carte da compilare. So gia’ come andrebbe a finire col culo che ho: un
costoso viaggetto in elicottero da pagare di tasca mia, ecco. Attorno alle 9
pero’, ecco che la pastiglia contro il mal di testa fa il suo effetto. Forse
anche per merito della deliziosa colazione, mi sento quasi in forma, pronto per
far qualcosa e non per starmene a poltrire tutto il giorno. E di nuovo, mi balzano
in testa strane idee. Anziche’ pensare a riposarmi, guarire in vista del giorno
successivo, domando alla mia guida cosa potremmo scalare in giornata. Qualcosa
di semplice sia chiaro, ma pur sempre qualcosa. Mi viene indicata, fuori dalla
finestra, una “montagnola” che sovrasta direttamente il paese, altitudine 4300
metri circa, quindi un 500 di dislivello. Si parla di cosa da un’oretta andata,
quindi intraprendibile. Fatta, mi allaccio le scarpe, caco e preparo lo zaino.
Partiamo con un solo zaino per ridurre il fardello, con dentro appena una
windbreaker, un acqua ciascuno, e la mia reflex. Per la parte in salita, lo
zaino lo prendo io. Salgo bene inizialmente, motivato dal fatto che la cosa
sara’ comunque breve e discretamente scenica. Non mi sento malaccio. Quel che
mi taglia le gambe e’ invece, ad un certo punto risalendo il vallone in cui ci
siamo incanalati (mossa che aveva suscitato discreti miei sospetti), la notizia
che mi da la guida. A mia domanda su quale fosse la cima che stavamo perseguendo,
mi viene indicata non la “montagnola”, quanto una cima innevata ben piu’ alta e
ben piu’ lontana della precedente. Alla montagnola teoricamente, piu’ o meno ci
saremmo gia’ arrivati. Manco a dirlo, parte una sfilza di imprecazioni che si
irradia verso le divinita’ di molteplici religioni eccetto la mia. Mi sono
imbarcato in quella che pensavo essere una semplice camminata, e mi ritrovo a
perseguire una cima che, udite udite, sfiora i 5000! 1200 fottuti metri di
dislivello anche oggi. Il pensiero mi fa venire il latte alle ginocchia. Mi
guardo indietro – una catena infinita di montagne innevate, spettacolo sublime
– e il panorama mi fa pregustare quello che potrei ricevere lassu’ in cima.
La battaglia fra fatica e ricompensa, una volta ancora la vince la possibile ed auspicabile ricompensa. In piu’, c’e’ la motivazione personale. E’ un mio obiettivo da parecchio raggiungere quota 5000 metri. E’ affascinante. Salire a base camp a 5300 sarebbe piu’ facile tutto sommato, ma forse non lo sentirei cosi’ importante, gratificante. Ora sono sulla via per raggiungere il traguardo su una montagna vera e propria. Vada, vada per la cima lontana. Ormai sono in barca, e continuo a remare. Inveisco pero’ contro me stesso, ancora, la mia competitivita’ e sete di traguardi, anche oggi mi porta ad affaticare un fisico che avrebbe anzi bisogno di riposo. Sono un grullo. Un grullo che tutto sommato continua a camminare, ad ansimare su per questa salita. Tra me e me, penso che non e’ da tutti e non e’ per tutti. Penso ai miei amici, che sinceramente (se leggono, mi perdonino!) non reputo in forma idilliaca, e credo nelle mie condizioni farebbero una fatica atroce. Ma far confronti non serve, quel che serve e pensare di farcela, voler farcela, e macinare passo su passo fino alla vetta. E questo e’ il mio spirito. Ad ogni passo mi ripeto “Arrivo a 5000, arrivo a 5000”, e cosi’ fino alla cima. Ogni passo, piu’ in alto che salgo, si fa pesante. Non credo per l’ossigeno o cosa, quello per me non e’ un problema, almeno finora. Credo sia piu’ per la fatica accumulata nei due giorni precedenti. Per le scarpe nuove – sono anche piu’ pesanti delle precedenti, credevo la differenza non si sentisse, ma effettivamente paghi ogni etto che metti ai piedi, quassu’. Per la stanchezza mentale – programmare 10 km e finire col farne il doppio, e saperlo mentre sei a meta’, e’ una cosa che ti taglia le gambe piu’ della fatica stessa. Sono un mix di emozioni e di sensazioni, perlopiu’ negative. Ma quel che mi porta lassu’ e’ un insaziabile desiderio di conquista, per quanto insignificante, lo stesso desiderio che ora capisco provano gli alpinisti che si recano sull’Everest, giusto a un centinaio di chilometri da qui. Oggi, adesso, e’ il mio Everest. Non mollo, mollo solo lo zaino (come d’accordo) alla guida, per spartirci qualche fatica, anche se tutto sommato non beneficio molto della cosa. A questo punto 4-5 kg di zaino non mi cambiano quasi nulla. Arranco, sempre piu’ su. Non c’e’ sentiero, nulla, solo scaloni di nuda terra friabile che rendono ogni passo instabile e calcolato. Salgo a zigzag per minimizzare il carico sui miei muscoli ormai allo sbando. Non guardo in alto, cammino con la testa chinata e la bocca aperta, sfinito. Barcollante, infine, sento la mia guida, pochi passi piu’ avanti, che esclama “Siamo arrivati!”. Alzo lo sguardo, che subito viene abbagliato da un’immensa distesa di bianco e blu, mi inginocchio a terra spontaneamente, ansimo per qualche secondo con la testa sul terreno. Mi faccio un istintivo segno della croce. Mi alzo con il sorriso di un bambino, abbraccio la mia guida, lancio un urlo “di conquista” alla Bear Grylls. Ho fatto anche questo. Posso finalmente contemplare il panorama: davanti a me i Langtang Himal, montagne dai 6500 ai 7250 metri, torreggianti, paurose nella loro maestosita’. Un ghiacciaio scende verso valle come una lingua di impressionante lunghezza. I 5000 dove mi trovo ora imbiancano a confronto di cio’ che sto guardando. Eppure e’ bianco anche tutt’attorno. La parte opposta della valle, i Kangja La Himal, “montagnole” di 5500-6000 metri. Un mondo dove e’ il bianco il colore che regna. Candido silenzio, non fosse per gli scatti della mia reflex e le mie osservazioni. Ci sono dei paletti con le usuali bandierine sacre buddhiste, dove mi fermo per qualche istante a depositare una mia intenzione. Leggevo un libro sulla scalata all’Everest in questi giorni, dove ad un certo punto si diceva che la spedizione rimane per pochi istanti, qualche minuto al massimo in vetta, a godersi lo spettacolo, non c’e’ tempo ulteriore. E cosi’, anche se con le dovute proporzioni, anch’io faccio lo stesso. Il vento a 5000 metri non e’ la stessa cosa che in pianura, e sferza la pelle, gela le mani, taglia le labbra. Indosso la mia windbreaker e dopo qualche scatto celebrativo mi avvio, guida al seguito, verso fondovalle.
Ripensandoci, in 3 giorni, con scarpe nuove, zaino da 15-16 kg in spalla, nessuna esperienza di trekking ne’ tantomeno di montagna oltre i 3000, ho scalato 3600 metri di dislivello e camminato per circa 50 km. Perlopiu’ con tempi di cui anche la mia guida si e’ detta stupita. Quella di giornata ad esempio, dovendo essere una salita da 2h 30’-3h sola andata, e’ stata compiuta in circa 1h 40’. Saro’ un rottame, un piagnucolone lungo la pista, ma so ancora il fatto mio, dopotutto.
A volte desidererei poter non udire a comando. Stamattina,
una di quelle volte. Quando mi sveglio incontro, in sala, un cretino spagnolo
che da quanto capra e’, per non dover parlare in inglese sta insegnando
spagnolo alla sua guida. Parlando in spagnolo ovviamente. Mi viene quasi da
prenderlo a pugni, sul serio. Ho una stima per il popolo spagnolo che sta sotto
le suole dei miei scarponi, pigri e nullafacenti, e questo tizio ne e’ un buon esempio.
Trattengo a stento la mia ira. Come cio’ non bastasse pero’, durante la
colazione, ci si mette la mia guida. Porca puttana, mangia con la bocca aperta.
Lo sento masticare da 5 metri di distanza, con un suono che sembra quello di un
paio di scarpe che calpestano delle pozzanghere. E’ irritante a dir poco.
Strangolerei anche lui, ma cerco di non sentire, e mi concentro sul mio cibo. A
proposito, ho ordinato una “medium pot” di caffe’latte, un lusso che mi son
concesso oggi (tanto il cibo e’ incluso nel trek, fanculo). Ho pensato che
medium stia per un quantitativo attorno alle 3 tazze di liquido, ma mi
sbagliavo. Quando vedo arrivare sul mio tavolo un thermos formato missile
atomico intercontinentale, capisco il mio errore. Li dentro di tazze ce ne saranno
una quindicina se tutto va bene. Inizio a “lavorare la mia via” (letterale
traduzione del “work my way” inglese) attraverso la cosa, il che non e’ facile.
Anche se passo quasi un’ora al tavolo della colazione, compilando i miei
appunti di viaggio, riesco a malapena a bere 3 tazze, vista la temperatura da fusione del nocciolo
della bevanda. Mi viene pero’ un’idea sublime: travaso il tutto in una
bottiglia da un litro – riuscendo comunque ad avanzarne ancora nel thermos –
aggiungo una cospicua dose di zucchero, e sono pronto per bere caffe’latte
durante tutta la giornata! Ho fatto un affare, penso fra me e me. Ed eccomi di
nuovo, per l’ultima volta, calzare le scarpe e prepararmi al massacro
quotidiano. Per la giornata di oggi ho in mente una nuova tecnica. Essendo la
meta non troppo distante – si dice 5 ore di cammino – penso a camminare senza
alcuno stop, veloce, di modo da accorciare le sofferenze. E via. Indosso le
cuffie del mio Ipod per la prima volta in marcia, e non le tolgo fino alla
fine. Mi concentro sul ritmo, sul passo, sul terreno. Dopo un po’, anche se il
passo e’ gagliardo, capisco che non sara’ proprio una passeggiata. I continui
saliscendi affaticano le gambe, e dopo un po’ il sole appare in tutta la sua
forza a stremare ulteriormente l’arrancante escursionista. Dopo un paio d’ore a
ritmo forsennato, in cui anche la mia guida (per dover di cronaca lo riporto)
fatica a starmi dietro, mi sento stanco, cotto. Sudo come uno yak in vacanza al
mare in agosto. Le piante dei piedi urlano dolore: spesso e volentieri il
sentiero e’ zeppo di pietre acuminate di medie dimensioni, su cui bisogna
camminare facendo attenzione a non scivolare, correndo il rischio di pericolose
ricadute sulle caviglie. Ma camminare con le piante su pietre appuntite dopo un
po’ fa un male cane, ed io lo sento eccome. Al posto dei piedi ormai ho due
tavolette di legno doloranti. Continuo pero’, sentendo ormai la vicinanza del
traguardo. Supero compagni di nottata che erano partiti un’ora prima di me. E
dopo un tempo record di 3 ore, arrivo ormai stremato a Syaphru Besi, la
partenza del trek appena 5 giorni prima. Gli ultimi passi sono un tormento.
Fare i dieci scalini che mi portano alla camera d’albergo sembra scalare
l’Everest partendo da campo 4. Mi getto sul letto formato king e rimango, privo
di forze, a respirare profondo per un buon quarto d’ora. Poi, ancora, mi tolgo
le scarpe. Le mie medicazioni “da campo” con carta igienica e nastro-cerotto
hanno tenuto, ma a quale prezzo! Levandomi i calzini perdo carta igienica spezzettata
ovunque, sembra che abbia sparato ad un’anatra. Faccio uno sporco da lode, ma
non m’interessa. Mi faccio prestare gli infradito dalla mia guida e mi butto in
doccia, finalmente. Non vedevo l’acqua da 4 giorni, ed e’ un piacere sentirla
fluire sul mio corpo. Mi lavo come non mi ero mai lavato in vita mia credo.
Tratto con cura i miei piedi distrutti. Quando esco mi sento ringiovanito di 10
anni. Ma l’unica cosa che mi riesce di fare e’ sedermi a tavola e mangiare dei
noodles caldi, recuperando qualche caloria, e sorseggiare del caffe’latte.
Ormai e’ diventando quasi temperatura ambiente.
![]() |
Alle mie spalle, Pangen Dopku troneggia a 5930 metri |
La battaglia fra fatica e ricompensa, una volta ancora la vince la possibile ed auspicabile ricompensa. In piu’, c’e’ la motivazione personale. E’ un mio obiettivo da parecchio raggiungere quota 5000 metri. E’ affascinante. Salire a base camp a 5300 sarebbe piu’ facile tutto sommato, ma forse non lo sentirei cosi’ importante, gratificante. Ora sono sulla via per raggiungere il traguardo su una montagna vera e propria. Vada, vada per la cima lontana. Ormai sono in barca, e continuo a remare. Inveisco pero’ contro me stesso, ancora, la mia competitivita’ e sete di traguardi, anche oggi mi porta ad affaticare un fisico che avrebbe anzi bisogno di riposo. Sono un grullo. Un grullo che tutto sommato continua a camminare, ad ansimare su per questa salita. Tra me e me, penso che non e’ da tutti e non e’ per tutti. Penso ai miei amici, che sinceramente (se leggono, mi perdonino!) non reputo in forma idilliaca, e credo nelle mie condizioni farebbero una fatica atroce. Ma far confronti non serve, quel che serve e pensare di farcela, voler farcela, e macinare passo su passo fino alla vetta. E questo e’ il mio spirito. Ad ogni passo mi ripeto “Arrivo a 5000, arrivo a 5000”, e cosi’ fino alla cima. Ogni passo, piu’ in alto che salgo, si fa pesante. Non credo per l’ossigeno o cosa, quello per me non e’ un problema, almeno finora. Credo sia piu’ per la fatica accumulata nei due giorni precedenti. Per le scarpe nuove – sono anche piu’ pesanti delle precedenti, credevo la differenza non si sentisse, ma effettivamente paghi ogni etto che metti ai piedi, quassu’. Per la stanchezza mentale – programmare 10 km e finire col farne il doppio, e saperlo mentre sei a meta’, e’ una cosa che ti taglia le gambe piu’ della fatica stessa. Sono un mix di emozioni e di sensazioni, perlopiu’ negative. Ma quel che mi porta lassu’ e’ un insaziabile desiderio di conquista, per quanto insignificante, lo stesso desiderio che ora capisco provano gli alpinisti che si recano sull’Everest, giusto a un centinaio di chilometri da qui. Oggi, adesso, e’ il mio Everest. Non mollo, mollo solo lo zaino (come d’accordo) alla guida, per spartirci qualche fatica, anche se tutto sommato non beneficio molto della cosa. A questo punto 4-5 kg di zaino non mi cambiano quasi nulla. Arranco, sempre piu’ su. Non c’e’ sentiero, nulla, solo scaloni di nuda terra friabile che rendono ogni passo instabile e calcolato. Salgo a zigzag per minimizzare il carico sui miei muscoli ormai allo sbando. Non guardo in alto, cammino con la testa chinata e la bocca aperta, sfinito. Barcollante, infine, sento la mia guida, pochi passi piu’ avanti, che esclama “Siamo arrivati!”. Alzo lo sguardo, che subito viene abbagliato da un’immensa distesa di bianco e blu, mi inginocchio a terra spontaneamente, ansimo per qualche secondo con la testa sul terreno. Mi faccio un istintivo segno della croce. Mi alzo con il sorriso di un bambino, abbraccio la mia guida, lancio un urlo “di conquista” alla Bear Grylls. Ho fatto anche questo. Posso finalmente contemplare il panorama: davanti a me i Langtang Himal, montagne dai 6500 ai 7250 metri, torreggianti, paurose nella loro maestosita’. Un ghiacciaio scende verso valle come una lingua di impressionante lunghezza. I 5000 dove mi trovo ora imbiancano a confronto di cio’ che sto guardando. Eppure e’ bianco anche tutt’attorno. La parte opposta della valle, i Kangja La Himal, “montagnole” di 5500-6000 metri. Un mondo dove e’ il bianco il colore che regna. Candido silenzio, non fosse per gli scatti della mia reflex e le mie osservazioni. Ci sono dei paletti con le usuali bandierine sacre buddhiste, dove mi fermo per qualche istante a depositare una mia intenzione. Leggevo un libro sulla scalata all’Everest in questi giorni, dove ad un certo punto si diceva che la spedizione rimane per pochi istanti, qualche minuto al massimo in vetta, a godersi lo spettacolo, non c’e’ tempo ulteriore. E cosi’, anche se con le dovute proporzioni, anch’io faccio lo stesso. Il vento a 5000 metri non e’ la stessa cosa che in pianura, e sferza la pelle, gela le mani, taglia le labbra. Indosso la mia windbreaker e dopo qualche scatto celebrativo mi avvio, guida al seguito, verso fondovalle.
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Vista su Kimshung (6745), Langtang Lirung (7725) e Langtang II (6561) |
Ripensandoci, in 3 giorni, con scarpe nuove, zaino da 15-16 kg in spalla, nessuna esperienza di trekking ne’ tantomeno di montagna oltre i 3000, ho scalato 3600 metri di dislivello e camminato per circa 50 km. Perlopiu’ con tempi di cui anche la mia guida si e’ detta stupita. Quella di giornata ad esempio, dovendo essere una salita da 2h 30’-3h sola andata, e’ stata compiuta in circa 1h 40’. Saro’ un rottame, un piagnucolone lungo la pista, ma so ancora il fatto mio, dopotutto.
Una volta tornato agilmente in paese, il morale e’ alto.
C’e’ ancora mezza giornata davanti, il sole splende e sto bene fisicamente.
Pare non ci sia nulla di storto. La ciliegina sulla torta arriva quando, girato
l’angolo che mi porta di fronte alla mia guest house, incontro ancora una volta
la famosa, bellissima ragazza dell’aeroporto, che avevo gia’ reincontrato e
perso di vista un giorno fa. Sono immensamente – ovviamente – contento. Mi
fermo a parlare con lei, con la sua famiglia al completo, a parlare della mia
“impresa” di giornata e a mostrare qualche foto. E’ una conversazione
piacevole, da cui pero’ devo staccarmi a causa della padrona della guest house.
Irrompe con faccia scura (beh era gia’ scura di carnagione, poi l’espressione
ha solo peggiorato la cosa!) e quasi strillando cose poco rassicuranti in
nepalese contro di me. Io le gesticolo un “Che cazzo vuoi” che anche il piu’
inetto nepalese capirebbe, e la mia guida interviene per quantomeno capire cosa
la bisbetica signora volesse da me. Ebbene, devo aver fatto uno sgarro, il
mattino. Essendo andato a far colazione in pasticceria e non da lei – affronto
gravisssimo per il locale business del cibo – mi sono pesantemente attirato le
ire della padrona. Sebbene, devo dire a mia discolpa, avessi messo in
preventivo con il marito (che mi aveva accompagnato alla guest house) che il
mattino successivo mi sarei recato li. La scura signora pero’ pare non sentire
ragioni, e nonostante i miei ripetuti “Hey, pipe down!” che stento a credere
abbia capito, non cala il tono. Stanco della baruffa, chiedo alla guida cosa
dovrei fare per farla smettere. Mi arriva un’inaspettato “Mi sa che ci conviene
cambiare posto per stanotte”. Rimango allibito. Vengo a sapere, peraltro, che
la ragazza con cui sto parlando stara’ a dormire qui, ed io devo allontanarmi
per quest’anatra stordita. Mafiosa. Riluttante, saluto la compagnia (anche se
non vinto) e elaboro un piano B. Che si rivela essere semplicemente una
capatina alla locale produzione di formaggio di yak, dove ne acquisto 400 gr
che inauguro di li a poco nella nuova guest house trovata. Vengo anche
piacevolmente sorpreso da questo formaggio: lo pensavo acerbo e secco, magari
con qualche pelo di yak nel mezzo o qualche unghia lasciata da un mugnaio poco
attento, ma in realta’ il prodotto e’ decisamente piacevole. Sono soddisfatto.
In preda alla soddisfazione, poco tempo dopo faccio due passi. Il tempo e’
difficile da trascorrere, quando non hai passatempi: nessun libro (a parte la
Bibbia dell’800), nessun pc, telefono, tv, no carte da gioco, no palloni,
nulla. Non ho la minima idea di cosa fare. E’ una sensazione che a me lascia
praticamente morto. L’unica cosa che posso fare e’ cercare compagnia e parlare,
e so dove andare. Torno indietro alla lodge della scraniata. E reincontro chi
volevo incontrare. Passiamo un’oretta a dialogare tranquillamente, dopodiche’
la saluto e la invito a cena a Kathmandu, dove spero vivamente di rivederla.
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Kyanjin Gompa al mattino, sotto una coltre di neve fresca |
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Appena fuori dal paese, poco dopo la nevicata |
Il giorno dopo mi sveglio sotto una coltre di neve. Che in
realta’ cosi’ coltre di neve non e’, ma l’espressione era piacevole e fluida.
La notte ha pero’ portato neve fresca, e a me alcun sonno. Mentre cercavo
invano di riposare, ho sentito tuoni pesanti rimbombare da lontano, ed ho
pensato che forse, qualche sventurato stara’ tentando di scalare qualche
montagna piu’ alta, la fuori, con questo tempaccio. Mi son venuti i brividi.
Curioso e’ stato il fatto che, per la prima volta, non ho dormito (quasi)
affatto. A tratti mi giravo a pancia in su per respirare, respirare con la
bocca, come mi mancasse l’ossigeno. Che fosse l’altitudine? Mi riesce difficile
da credere, dopo un giorno e una notte alle spalle a questo stesso livello.
Comunque, ora e’ mattina, e la preoccupazione principale e’ la colazione.
Stavolta d’accordo realmente con la padrona, vado di nuovo in pasticceria per
le mie 2 fette di torta mattutine, ed un buon caffe’latte. Una volta uscito, a
pancia piena.. il nulla. Non programmo marce verso valle a causa della neve,
che renderebbe la discesa dei primi quantomeno 3-400 metri una scommessa sulle
mie doti d’equilibrista. Con diversi tratti a scaloni e nude pietre, non me la
sento di scendere un sentiero coperto di infida neve con uno zaino modello
mastodon come il mio. Sono costretto a prendere un giorno di riposo. Ancora una
volta, involontario. La mattina e il pomeriggio scorrono come avessi guardato
una clessidra per tutto il tempo. Sembra non finire mai. Agogno la sera e una
cena calda. Agogno il letto, del sonno, l’assenza di pensiero e di concetto di
tempo. Trascorro la giornata a vagare di lodge in lodge, cercando persone amiche
o semplici sconosciuti con cui attaccare bottone. Fortunatamente trovo la mia
amica slovacca – che ha passato la notte in paese – e con lei mi intrattengo in
compagnia di un ragazzo australiano – che sorprendentemente parla un discreto
italiano. La compagnia e’ buona, ma il tempo e’ tiranno, e per godermela un po’
sono costretto a tornare in pasticceria per altre 2 fette di torta. E’ un
record: non avevo mai mangiato 4 fette di torta in un giorno, specie di queste
generose dimensioni! Saldo il conto, e me ne torno a ciarlare fino ad ora di
cena, quando mi vengono serviti dei buoni mo.mo (dumplings) al tonno – tonno
che verosimilmente sara’ scaduto piu’ o meno quando JFK veniva assassinato. Una
ragazza addirittura mi chiede “Are they really edible?”, ovvero, sono
commestibili? E io.. “Certo, cazzo vuoi che ordini roba velenosa?”. In realta’
la liquido con un sorriso e scuotendo la testa a mimare un SI, e finisco il mio
pasto.
La serata finisce in un’altra lodge, sotto una leggera,
ulteriore nevicata e un discreto freddo, con un match di albanese tra un
italiano, una slovacca ed un australiano. Fantastico. Il bello e’ che scopro
che albanese e’ diffuso world-wide, anche se con un nome diverso. In inglese e’
chiamato “Bullshit”, cazzata, e quando io spiego il significato del nome
italiano, i miei due compari si piegano dal ridere. Il match finisce alla
slovacca, dopo quasi 40 minuti di estenuante partita, anche se i miei bari
fanno leggenda.
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Un'ultima occhiata alla valle, prima di discenderla |
L’aria del mattino qui e’ qualcosa di grande. Lascia
trasparire la magnificenza, la grandezza, la maestosita’ delle montagne insieme
alla pace raramente provabile altrove perfino ad un cieco, soltanto respirando
dell’aria. Aria frizzante, tersa, limpida. Aria che di notte ti ghiaccia i peli
del naso, il naso, la trachea, ma che di giorno, prima che il sole abbatta la
sua potenza sul sentiero, e’ aria di freschezza, quell’aria che vorresti sempre
respirare, invece di fumi di scarico e odore di fritto per strada. Mi sa che un
giorno si dovra’ pagare solo per questo. Io sono qui, e mi godo il momento.
Anche perche’ e’ ormai tempo di rimettersi in marcia verso valle, perche’
sebbene il trek preveda su carta ancora un paio di giorni quassu’ – stando al
programma originario – io ho camminato talmente veloce da accorciare il trek stesso
di 3 giorni, saltando un giorno di acclimatamento e camminando due giorni piu’
velocemente del previsto. Preparo lo zaino e mi reco, ancora,
incorreggibilmente verso la pasticceria per le mie ultime 2 fette di torta.
Stamattina il proprietario, mio ormai grande amico, per salutarmi in modo
onorevole mi regala una fetta di torta da portare lungo il cammino, per pranzo.
“Sei stato un buon cliente”, mi dice. Stenterei a credere al contrario, se
tutti i turisti fossero come me, lui sarebbe milionario! Ci salutiamo con un
caldo abbraccio, impacchetto la mia preziosa fetta di torta, e sono pronto a
scendere la valle. Con me sono anche l’amica slovacca e il ragazzo australiano,
con cui scendo per poche decine di metri per poi perderli, mentre io mi fermo a
scattare qualche foto. E’ una scena idilliaca: c’e’ un silenzio innaturale, la
neve cristallizza rumori, emozioni, sentimenti. A guardare le vette alte,
innevate, con le continue spirali di neve fresca soffiata via da venti forza
tempesta lassu’ sulle cime, c’e’ da restare immobili per ore. Credo nulla
ispiri ammirazione, rispetto e paura allo stesso tempo come le montagne. C’e’
solo da rimanere in silenzio ad ammirare, essere riconoscenti per tutto questo,
far tesoro del momento, imprimere nel cuore e nella mente. Ed andare poi, di
nuovo sul sentiero, felici, pieni, come una macchina a cui e’ stato appena
fatto il pieno. E’ emozionante. Cosi’, anche se con un po’ di tristezza, lascio
la Langtang valley. Mi incammino verso valle con il mio solito passo deciso,
puntellato da un po’ di apprensione per possibili ruzzoloni imprevisti.
Riprendo il mio duo di amici in poco tempo, giusto per scattare una foto
commemorativa della spedizione e darci l’arrivederci ad un giorno futuro,
perche’ nella vita, ci si vede sempre due volte. E cosi’, sono di nuovo tra me
e me.
Cammino spedito per diverse ore, fino a quando lo stomaco mi
impone di fermarmi per pranzo e per svuotare la vescica, cosa a cui do la
priorita’. Nell’insediamento di 5 case in cui ci fermiamo c’e’ un discreto
assembramento di esseri umani, perlopiu’ turisti. Tutti affamati ed in cerca di
ristoro. Dopo aver disposto il mio ordine, faccio due passi senza zaino, e
scorrendo la fila di turisti in fase chill-out, alle mie orecchie giungono
parole italiane. Guarda un po’. Scovo i connazionali – una tipica famiglia
composta da padre e madre sulla cinquantina alta con figlio bamboccione al
seguito (stimato sui 30) – e domando d’istinto al padre “Di dove siete?”. Egli,
che sta al momento cibandosi di una “pennola” di formaggio, esclama sorridendo
“Dalla terra dove si produce questo formaggio”. Non avendo la piu’ pallida idea
di che minchia di formaggio esso potesse essere, chiedo semplicemente che
diavolo di formaggio fosse. Alla risposta “Grana Padano”, mi sorgono due
considerazioni. Primo, “Dev’essere un leghista”. Secondo, “Devo avere un pezzo
di formaggio costi quel che costi!”. Manco mi passa per l’anticamera del
cervello il fatto che stessi ancora divagando sulla provenienza di quegli
sventurati. Ma ecco che il bamboccione, cavallerescamente, intima al padre di
offrirmi del grana, cosa che avviene prontamente e che io accetto quasi con le
lacrime agli occhi. L’assaporare quella nota familiarita’ casearia mi manda in
un trip che mi esula per diversi secondi dalla realta’: in un attimo mi trovo
in un profondo home-sickness status, in cui penso a mio padre quando la sera
portava a casa il formaggio fresco e mi offriva come di consueto la prima
pennola. O a mia madre, che la domenica preparava gli gnocchi freschi, al pomodoro
ovviamente, che io usavo cospargere con un tornado di formaggio grattuggiato. Mi
sento un moderno Hansel che anziche’ trovare una casa di marzapane ne trova una
fatta di formaggio. Mi immagino in compagnia di Tom mentre insieme eludiamo il
famelico Jerry e veniamo ricompensati con cascate di formaggio grana fresco. Il
trip pero’ finisce bruscamente quando i connazionali continuano dicendomi che
son da Padova. Ah, ma guarda un po’, ancora. Piccolo il mondo eh?! Di li nasce
una conversazione che sa di allegra rimpatriata, raccontando del mio passato,
di come son finito qua, dei miei programmi futuri. Sembrano molto colpiti.
Difatti, se raccontassi cosa sto facendo e cos’ho fatto finora e cos’ho in
programma, diversi connazionali credo quantomeno proverebbero stupore. Mentre
parlo, il bamboccione dice al padre di offrirmi dell’altro grana. Io rifiuto
educatamente, non volendo approfittare della gentilezza. Ma lui prosegue
“Tranquillo papa’, fai pure che vedi che se glielo offri lo accetta si!”. Beh,
come negare l’evidenza haha! Passo momenti felici con quel prodotto caseario
fra le fauci. E mentre lo assaporo, ecco che il padre – originario di
Reschigliano, in pratica un vicino di casa – estrae da una borsa di nylon altre
prelibatezze nostrane: una confezione di cacciatorini sottovuoto, altro grana,
sfilacci di cavallo, e chissa’ cos’altro c’e’ nella borsa. Io sono allibito.
Declino con altrettanta educazione un assaggio di cotali prodotti, e penso
invece “Quanto poveri siamo noi Italiani”. Voglio dire, riconosco la bonta’ del
nostro cibo, e solo stando via per svariato tempo son giunto a questa
conclusione. Anche se io sono uno che viene ucciso dalla routine – e questo
vale per il lavoro, come per gli amici e come per il cibo! – il cibo italiano
e’ gran cosa. Ma arrivare a portarsi via cibo da casa per 2 settimane in Nepal,
questo mi sembra ridicolo. Pietoso. Neanche Fantozzi lo farebbe, dai! Il posto
fisso, il cibo di casa, la mamma.. ma che cazzo, siamo un popolo di poveracci.
Abbiamo le risorse e le caratteristiche giuste, ma le usiamo in modo penoso.
Non riusciro’ mai forse ad apprezzare il mio popolo, soprattutto quando poi mi
ritrovo fra le mani esempi del genere. Dannazione. Colgo l’occasione per
salutarli quando un locale porta loro del cibo locale – che immagino verra’
cosparso di sfilacci e pezzi di grana, a questo punto. Torno alle mie cose.
Mando giu’ un boccone e sono di nuovo in marcia.
Dopo 5 ore di cammino, arrivo finalmente alla meta di
giornata, Rimche, un villaggio di un paio di case credo. Anche se sinceramente
vedo solo la mia guest house dalla mia posizione. Simpatico dev’essere, vivere
qui. Una volta assegnatami una camera, posso finalmente liberarmi dello zaino
oppressore e fare la conta dei danni. Ancora, ho una spalla maciullata. Devo
avere serie questioni con lo zaino: non capisco se sia il mio stile di
camminata (dubito assai), lo zaino di per se’ (spero di no, visto la grana
pagata) o la distribuzione dei pesi (unica spiegazione plausibile che so
darmi). Di sicuro so che per il prossimo trek non mettero’ in zaino il fottuto
cavalletto da fotografia che mi pesa un paio di chili. Tolgo le scarpe poi, e
denoto che i miei piedi sono praticamente assassinati. Sul destro non conto i
tagli e le escoriazioni. Sul sinistro il problema e’ la vescica sopra il
tallone. Avevo applicato un compeed un paio di giorni fa, lasciato li per 2
giorni di modo che potesse compiere il suo lavoro. Eppure, oggi le cose hanno
preso una brutta piega: cercando di togliere il calzino noto che la cosa si e’
fatta una ed una sola, e mi risulta poco fluida l’operazione di asportazione
del calzino. Il compeed, la pelle ed il calzino stesso si sono fusi in un’unico
strato. Come potrete prevedere, inizia una serie coraggiosa di maledizioni che
mi precluderanno il paradiso in diverse religioni, dovessi cambiare la mia nel
corso della vita. Devo chiamare in soccorso il mio coltellino svizzero per
recidere pelle e compeed, cosa non cosi’ leggera vista la dimensione della
vescica. Taglio un po’ a casaccio, fermandomi solo quando mi sento urlare cose
brutte. Finisco l’opera avendo una vescica mezza aperta e mezza chiusa, con una
parte di tallone imbrunito da un mix di polvere, pelle morta e tracce di
calzino. Sembra un quadro di Picasso. Ma puzza da morte. Il mio calzino – essendo
praticamente invernale – puzza da formaggio lasciato sotto il sole per una
settimana. Per rimediare i collaterali effetti di questa cosa sulle mie scarpe,
che puzzano praticamente quanto i calzini, devo ricorrere a meschinita’ quali
spruzzare generose dosi di deodorante in esse. La mia salute e’ a rischio,
dovendo tenere i calzini in camera durante la notte, quindi e’ meglio non
lesinare con il profumo. Mi vedo comunque costretto a risparmiarmi una doccia
(per il terzo giorno di fila) per le condizioni ancora pietose del “bagno”.
Poco dopo mi raggiunge il mio amico australiano, che avevo distanziato lungo la
via (a testimonianza del mio ancora buon passo). Passiamo il pomeriggio a
crogiolarci nel sole calante, a raccontarci storie e a parlare di tutto, dalla
religione alla politica, da Berlusconi ai massaggi thailandesi (cosa che in
Thailandia a quanto pare, dovro’ provare). La sera va via liscia, con
dell’ottimo cibo e una buona chiacchierata. Apprezzo per l’ultima volta il
clima che si respira quassu’: le famiglie nepalesi davanti al fuoco, sempre
acceso a procurare calore, specialmente quando scende l’oscurita’. Mentre i
turisti stanno in una sala a programmare per il giorno dopo e a condividere
emozioni e fatiche del giorno appena trascorso, i nepalesi cucinano e bevono
te’ dello sherpa, attorno al fuoco. Per loro, per ogni nepalese che entra come
guida in una casa di una famiglia nepalese, il cibo e’ gratis. Anche se qualche
volta lo si fa come pura ospitalita’, il piu’ delle volte il messaggio e’ “Se
mi porti altri clienti continuo a darti cibo gratis”. La cornice che appare
pero’, e’ bella, romantica, sa da vecchi tempi. E vado a letto con il calore
generato da una buona, lauta cena, da qualche storia attorno al fuoco, e posso
finalmente coricarmi senza il rischio di congelarmi le narici. A 2400 metri non
fa freddo.
![]() |
Tramonto da Rimche, su monti lontani |
Ho scoperto solo in seguito che la montagna scalata in
giorno 3 non era di 5000 metri, ma di “appena” 4750 e rotti. La scoperta, non
nego, mi ha lasciato con un intenso amaro in bocca. Tutti gli sforzi profusi
erano stati orientato a guadagnare quota 5000 per la prima volta. Eppure, per
un banale errore della mia guida (piuttosto incompetente nella fattispecie) mi
son trovato ad aver in bacheca un banale 4700. Mi son sentito come crollando da
un palco che mi ero costruito con la fatica delle mie stesse gambe, dei miei
stessi polmoni. Un po’ fa male.
Ma non posso cancellare comunque le emozioni provate lassu’,
le cose viste con i miei occhi. E’ stato magnifico, lo stesso. E una statistica
non cancellera’ di certo tutto questo. Per le statistiche c’e’ sempre tempo, le
montagne non si muovono.
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