Dopo un po’ ad ogni modo, passa il mio istinto da lettore e tra un giochetto qua ed uno spuntino la, arriva l’ora dell’imbarco. Finalmente, voliamo su Roma. Spinta a mille del motore, schiene spianate all’indietro, e via su nel cielo. A terra il tempo uggioso, ventoso, pessimo. Li, in alto, sopra le nuvole, avviene sempre il solito miracolo: c’e’ il sole. Non mi stanchero’ mai di ripeterlo, finiro’ per risultare mieloso e beceramente poetico, ma credo sia questo uno dei miracoli piu’ belli del volo, al di la del trasportare persone velocemente da un luogo all’altro: far riscoprire ogni volta alla gente che, piu’ su delle nuvole, comunque vada, il sole splende sempre. Ed e’ uno spettacolo che rallegra lo spirito. Il corpo invece lo scaldo con un te’ caldo al limone cortesemente offerto dallo staff, mentre ammiro un altro spettacolo, durante la nostra discesa. Spettacolo un po’, mah, sconcertante a dire il vero. L’Italia e’ tutta imbiancata. Dall’Emilia alle Marche fin giu’ a Roma, un unico tappeto bianco di neve copre la penisola. Solo qualche cupa foresta e macchia coltivata spezza la monotonia ed il grigiore di questo ambiente. Arrivo mestamente a terra convinto che non decollero’ mai per Belgrado, visti anche gli accumuli di neve a bordo pista. Eccoci a Roma, caput mundi. In realta’, che la Caput Mundi abbia dei piccioni che svolazzano comodamente dentro i gate dell’aeroporto mi lascia un po’ perplesso. Ce ne sono giusto un paio che si aggirano pericolosamente sui tubi posti sopra dove sono attualmente seduto. E la cosa mi desta DELLE preoccupazioni, capirete il perche’. Verra’ si il giorno in cui i piccioni conquisteranno il mondo. Lo diceva anche un link in Facebook, ricordo. Li ho visti girare nei supermercati anche, sti pennuti malnati. Chissa’ che piano diabolico hanno in mente! Spostandomi cautamente, evito la pennutaglia e mi dedico a qualche passatempo: riordinare la 24 ore, scrivere qualche appunto, fare uno spuntino. Mi sembra di avere un’eternita’ da passare prima del volo verso Belgrado – anch’esso regolarmente programmato, grazie a Dio! – quando mi accorgo invece di essere in ritardo: hanno gia’ aperto il boarding da 10 minuti e quando arrivo io sono gia’ tutti dentro il velivolo. Dannazione. E dannazione anche alla cinese con la lebbra che mi ritrovo affianco. Con 50 gradi di temperatura, avvolta nel suo piumino, imberrettata a tossire. Ma porca.. scampo la malattia a casa ed essa mi insegue con due occhi a mandorla ed un piumino blu. Pazzesco. Riesco comunque a trovare uno spunto interessante in questo volo quando sono prossimo all’arrivo, previsto per le 17.35. Ormai e’ l’ora del tramonto, delle luci che sfumano, del sole che arrossa e scende sotto l’orizzonte. Forse una sola volta nei miei viaggi avevo avuto la fortuna di vedere questo momento del giorno da migliaia di metri d’altezza, e non ne ricordavo la bellezza. Dimenticate quel che si vede da terra. Lassu’, le emozioni si amplificano come la magnificenza in se’ dello spettacolo a cui si assiste. Tra me e me penso che vedere il tramonto dalla cima del monte Everest dev’essere qualcosa di impagabile. Sul serio. Da soli magari, sul tetto del mondo, magari con la fortuna di un giorno sereno, senza troppe nubi. Vedere il sole che sfuma rossi, arancioni, gialli e violacei sulle cime innevate che protendono verso il cielo. Si, dev’essere qualcosa come sentirsi in Paradiso. Qualcosa che lascia l’uomo pensare “Da ora posso dire di aver vissuto la mia vita”. Io che forse non saliro’ mai lassu’, anche se mi piacerebbe provarci, per ora mi accontento di un tramonto visto dal finestrino di un aereo Alitalia diretto a Belgrado. Dove arrivo appunto alle 17.35. Fuori, un macello. Nevica, e nevica sopra almeno 40 cm di neve ovunque sul terreno. Persino sulla pista d’atterraggio c’e’ neve, sporca e melmosa ma c’e’. Si atterra comunque senza problemi, e per raggiungere l’attracco per la discesa passeggeri ci si fa trainare da un trattore, vista la neve che impedisce la locomozione dell’aereo. Questa non l’avevo mai vista. Io mi preparo. Con occhio iperterrito fisso il glaciale spettacolo esterno. Le luci fioche dei lampioni illuminano la neve e le poche costruzioni limitrofe alla pista d’atterraggio. Affiorano alla mente le immagini di un film. Mi calo nel ruolo. Indosso il giubotto, il berretto, la sciarpa. Le cuffie dell’ipod suonano la colonna sonora di Rocky IV. (Nota dell’autore: la narrazione seguira’ brevemente un frammento del film) Metto il muso fuori dall’aeromobile e vengo investito da una raffica di vento e neve. Sventolano bandiere sovietiche, le guardie del regime mi guardano bieche e con fare altezzoso, fucili a tracolla. La musica mi da coraggio, il mio impeto non si frena. Paulie invece scende dall’aereo dicendomi “Chi me l’ha fatto fare”, e lamentandosi delle condizioni meteo. La guardia assegnata alla nostra persona dice che “il tempo cambia continuamente, ci si abitua” (mai predizione fu piu’ perniciosa). Paulie lo schernisce dicendomi che “sembra il cugino cattivo di Dracula”. “Dai Paulie!”, gli dico per farlo smettere. E ci avviamo in macchina verso il nostro domicilio, “Burning Heart” sempre risonante nelle nostre orecchie e nel nostro cuore.
In realta’, atterro in Serbia, non ci sono guardie con fucili a tracolla, e non ho nessuna guardia assegnata alla mia persona. Al posto di Paulie ho una cinese piu’ morta che viva di cui non vedo l’ora di liberarmi. Entro in aeroporto e rimedio i bagagli, dei dinari serbi (tasso di cambio: 1 euro = 100 dinari) e un passaggio in taxi fino all’aeroporto. Ebbene, da film come “Mamma ho perso l’aereo – Mi sono smarrito a NY” e dalle mie scarne conoscenze in materia, sapevo di non dovermi aspettare la regina Elisabetta con una limousine a darmi uno strappo, ma nemmeno il personaggio che mi son trovato. Un vecchio serbo anch’egli piu’ nella fossa che sul livello del mare, che non parla mezza parola d’inglese e che si rivolge a me in una mezza lingua che sembra tedesco-ungarico ma su cui POTREI anche sbagliarmi. Mentre mi porta a destinazione, con sottofondo folk serbo che avrei piacevolmente rimandato a data imprecisata, continua a tossire profondamente, con delle specie di spasmi che mi fanno pensare che in realta’ saro’ io a dovergli dare un passaggio. All’ospedale di Belgrado. Fervida immaginazione, qui son duri come il cemento. Arrivo all’hotel mentre il tassista mi spiega “Good damen Beograd”. Ora, il senso giunge chiaro, ma di che minchia di lingua si e’ servito? Good e’ inglese, Beograd serbo, e damen? Tedesco-ungarico? Mah. Pago e lo saluto frettolosamente. Mi faccio largo tra qualche yard ti neve per passare dalla strada al marciapiede, impacciato come un cimice che non riesce a girarsi dopo una caduta a pancia insu’. Entro nell’hotel, la cui entrata sembra preludere piu’ ad un condominio di una zona PEP piuttosto che ad un 4 stelle in centro a Belgrado. Ma, mai ingannato dalle apparenze, sbatto le scarpe innevate ed entro. Mi si apre, dopo il portone, l’albergo carino e intonato che avevo scelto da internet. Albergo su cui non mi dilungo molto, sappiate solo che la camera e’ spaziosa, confortevole, apprezzabile. Ho anche delle patatine, degli arachidi e dei confetti di cioccolato al latte per accoglienza! Mi ci acclimato un po’, abbasso il riscaldamento perche’ ci saranno 38 gradi ed i faretti potrebbero farmi da lampade abbronzanti, poi mi preparo il planning della serata. Dovrei uscire per mangiare qualcosa – qualcosa di TIPICO – per poi magari andare all’avventura in qualche club, pub o posto dove ci sia della vita notturna. Eh. Intanto, saziamo la fame. Mi consigliano un posto la cui traduzione italiana e’ “Tre cappelli”. Mi ci reco avventurandomi tra la neve che ammanta le strade, ricopre ingloriosamente le macchine facendo sembrare anche la piu’ bassa delle berline un van da 10 posti, e insozza i marciapiedi. Piu’ che le scarpe del vestito, realizzo mestamente, dovevo portare i Moon Boot. Arrivo fra queste considerazioni al “Tre Cappelli”, posticino rustico, folcloristico, accogliente. Mi accoglie un anch’esso accogliente cameriere, che mi chiede qualcosa nella sua lingua e al quale io replico “Just for one, please”. Lui mi domanda subito “Da dove vieni, straniero?” (no, straniero l’ho aggiunto io). Io replico Italia ovviamente, al che lui, con un colpo di scena, replica “E perche’ non parli italiano allora?”, sorridendo. Io, sorpreso dall’esibizione dell’interlocutore, rispondo sorridendo a mia volta che solitamente la gente dei paesi in cui vado non parla italiano, quindi penso bene di introdurmi parlando inglese, per avere maggiori chance di esser compreso. Ad ogni modo, mi fa accomodare in un tavolino con candela come su tutti gli altri tavoli. Il locale e’ piccolo, piuttosto affollato, e vi suona una band folk locale con chitarrini, bassi, fisarmoniche e quant’altro. Suonano attorno al tavolo di 3 avvenenti signorine e 2 uomini. Mentre ordino le mie pietanze, vedo una di loro alzarsi ed improvvisare una danza tra il suo tavolo e il gomito di un anziano signore che mangia a poca distanza. Lui credo abbia rischiato l’infarto alla vista, io il solito sguardo da pesce lesso di uno che ammira qualcosa di ammaliante. Insomma, ho capito da subito che mi trovavo veramente nella terra di cui – qualcosa del genere – avevo gia’ avuto modo di leggere. Nel senso: lo spirito della gente del posto. Festaiolo, diciamo. Me lo conferma anche il cameriere, al cui domando a proposito della normalita’ o meno dello spettacolo a cui andavo assistendo. Poco piu’ tardi, ecco le mie pietanze: una sfoglia al formaggio in quantita’ abbondante, che apprezzo molto, ed un piatto ricco di carne sfilacciata, qualche erbetta ed un sughetto delizioso, con al centro un timballo di riso con scaglie di carote. Ottimo, veramente, e abbondante al punto che il mio stomaco ormai disabituato non riesce a finirlo. Sono lontani i tempi del fritto, del grasso, del dolce americano. Ora tonno, bresaola, frutta e carne. Non mi riconosco piu’. So solo che ucciderei per uno Vanilla Shake da Coldstone o un bell’hamburger da Denny’s. Ma tornero’ presto, America, puoi scommetterci!
Uscito dal ristorante, non so perche’ – anzi lo so eccome – non mi sfiora nemmeno l’idea del club. Poco prima, episodio curioso, domando ad un cameriere (non quello che parlava italiano) se sapeva darmi indicazioni su qualche club nei dintorni. All’inizio non capisce, poi sentendo ripetere la parola CLUB, mi fa un cenno d’intesa, un sorriso, e mi invita ad attenderlo un secondo. Torna, in effetti, dopo un secondo con un biglietto violaceo in mano. Senza nemmeno aprirlo, lo ringrazio e guadagno l’uscita. Faccio due passi due, tanto per entrare nella zona pedonale, ed apro il biglietto. Vi ci campeggia una tipa mezza nuda distesa orizzontalmente sopra una scritta, “STRIPTEASE CLUB”. Ma vaffanculo. Con un’espressione tra il divertito ed il seccato, straccio la proposta e ritorno verso l’albergo. Mi dico, vedo difficile che sciami di persone siano dirette in discoteca con un metro di neve per strada. Gia’ me li vedo i coraggiosi, con scarponi da sci e calzamaglia, le donne con pattini e lame di ferro al posto dei tacchi, calze di lana e un body termico della Kipsta. Meglio lasciar stare, mi do delle possibilita’ di tornare con condizioni climatiche migliori e allora si, godersi la famosa movida di Belgrado. Molti, la riconoscono la citta’ europea piu’ in, piu’ all’avanguardia per il divertimento notturno. Club, in particolare. Non manchero’. Ma non stasera. Per me, dopo il rientro in albergo, un rapido cambio per stare solamente in mutande, solo un film e una ritirata a letto. Domani si preannuncia una bella giornata, o almeno e’ cio’ che spero.
E’ domenica, giorno del signore 12 febbraio 2012, ed io mi sveglio con comodo alle 9.15 dopo una notte in cui ho avuto piu’ di un’occasione per maledire n.1, chi fa i cuscini alti piu’ di 7 centimetri, n.2, chi li compra per metterli nelle stanze del proprio albergo. Bisognerebbe arrestarli tutti. Come ho avuto modo di pensare, sembra di dormire sopra un’incudine. La maggior morbidezza non regala molto di piu’. Ed i risultati al mattino sono parecchi minuti persi a riacquistare la mobilita’ perduta del proprio collo. Ah, fanculo. Dopo una lavata, mi vesto all’americana (maglietta corta South Dakota e braghezze oltre il ginocchio blu adidas) e mi reco a far della colazione. Frugale, direi, nel senso che mangio un’omelette che mi prepara la signora in cucina, e un po’ di salumi, del pane, qualche biscotto. Niente di che. L’omelette invece faceva un po’ pieta’. Rientrato, pianifico la giornata. Devo essere in un paese a mezzora da Belgrado sulle 16, possibilmente evitando il taxi. Sono le 10. Ho 6 ore da investire. Beh, siccome fuori nevica, decido di rimanere in casa. Non c’e’ molto da raccontare, sono e saranno giornate perlopiu’ piatte, passate a passare il tempo. Ad ammazzarlo anzi, come si dice. Si guarda un film, si chatta con l’amico, si scrive qualcosa. Esco solo per procacciarmi il pranzo. Il ragazzo alla reception mi consiglia una pizzeria dietro l’angolo che dice essere rivoluzionaria perche’ ha inventato la pizza con diversi tipi di SALAD sopra. Dice che e’ fantastica, che costa poco e che nutre un sacco. Devo provarla, insomma. Ora, io per salad capisco insalata, e per poco – come dice lui – capisco che costa 1 euro a pizza. Beh, se bilancio le due cose comunque la cosa sembra piu’ un’affare che una fregatura, quindi decido per la pizza. Esco, eschimo-style, e mi avvio al luogo descrittomi. Non avevo pensato a questa possibilita’, da ignaro, e quando mi ritrovo di fronte un chioschetto 2 metri per 2 senza ovviamente posti a sedere, rimango spiazzato. Poco male, vorra’ dire che tornero’ con la pizza in mano all’hotel per divorarla con qualcosa di interessante da guardare al pc. Il fatto e’ che, quando capisco meglio – e vedo – cosa intendeva dire il ragazzo dell’hotel, realizzo a cosa sto andando incontro. In realta’ SALAD non sono altro che salse di diversi tipi (carne, pollo, insalata, etc) all’aspetto grassissime, piu’ grasse di un Double Cheeseburger di Mc Donald, da spalmare sopra la pizza. Non mi convince piu’ la cosa, ma tra un ristorante di classe la domenica a pranzo – ricordo di pranzi di comunione, cresima o grandi occasioni del genere – e un chioschetto del cazzo, vada per il chioschetto. Mi faccio fare una pizza intera (tanto anche se l’avanzo avro’ speso solo un euro no?!) e scelgo la salsa carnosa. In 5 minuti ho la pizza in mano, dentro il cartone, e dentro una scatoletta credo una trentina di salviette. Che cazzo pensava me ne facessi di trenta salviette a dire il vero non lo so. Forse pensava avessi finito la carta igienica in cesso. Riguadagno la via di casa, facendo attenzione a non combinarmi per le feste con una rovinosa caduta sulla neve, e alla fine, comodamente seduto e denudato di tutto ma non delle mie mutande, apro la scatola. Porca puttana, credo di aver visto raramente uno spettacolo cosi’ (quasi) disgustoso. Una pizza all’apparenza anche buona (formaggio e prosciutto – il formaggio col senno di poi molto saporito) con sopra un quintale e con questo intendo dire UN SACCO DI ROBA in termini di salsa. Ho fatto due pensieri, cosi’ a caldo. Il primo, e’ che sto per andare a mangiare una quantita’ potenzialmente mortale di grassi, saturi, insaturi, un po’ saturi e un po’ velenosi. Il secondo, e’ che EPICMEALTIME mi fa una sega. Capito?! Lancio una sfida, se mai lo leggeranno: loro, i loro panini le loro pizze onte mi fanno una sega! Baattagliero al punto giusto, mordo il mostro. E’ come mordere un brufolo di dieci centimetri pieno di pus, o una larva altrettanto grande con la pelle tesa e pronta a far esplodere le budella all’interno. Insomma, salsa ovunque. Assaporo il gusto – che devo dire, non e’ tanto malaccio anzi, risulta gradevole – e poi metto giu’ il trancio, un sesto della pizza. Devo studiare una tattica diversa. Quindi, fa all’uopo il bordo della pizza, che stacco per farne un raschietto con cui raschiar via appunto qualche quintale di salsa dalla pizza. Accumulo una quantita’ di salsa a lato del cartone che sarebbe sufficiente per fare una decina di maschere di bellezza a qualche ignara signora, o un vaso da cinquanta litri in simil terracotta – perche’ il colore della salsa e’ proprio quello. Poi, mi dedico al resto della pizza. Mangio, mordo, addento, mastico, finche’ mi trovo quasi pieno ma con ben 3,5/6 di pizza ancora a guardarmi dal cartone. Infamante. Io che una volta mangiavo quasi un’intera meat lovers con stuffed crust ora son ridotto alla sbarra da quest’ammasso di grassi putridi e salsosi. Ma alzo bandiera bianca volentieri, forse salvando cosi’ la pellaccia, e chiudo scatola e discorso (lasciando poi gli avanzi in camera per 2 giorni esatti. Infamante allo stesso modo. E pensare che mi era anche balenata l’idea di seppellirla sotto la neve.. Tanto chi mai l’avrebbe trovata? Al massimo qualche gabbiano avrebbe segnalato la presenza di qualcosa, sotto la neve, ma se ne sarebbero accorti solo col disgelo in primavera haha!).
martedì 21 febbraio 2012
giovedì 16 febbraio 2012
Mai visto cosi' tanta neve in vita mia
Nella vita ci troviamo ogni tanto a dire qualcosa come “Non mangero’ mai cervello di scimmia”, oppure “Mai e poi mai provero’ simpatia verso un Genovese” o addirittura “Non mi chiamo piu’ Comediavolomichiamo se mai provero’ anche solo a pensare di spendere piu’ di Xmila euro per la mia macchina”. Ecco, una cosa che io avrei detto era invece: “Credo proprio non mettero’ mai piede a Belgrado in vita mia”.
Ebbene, come molte delle frasi perentorie, imperative che ci troviamo a pronunciare nella nostra esistenza vengono puntualmente smentite, eccomi qui all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma, in data solare 11 febbraio 2012 (nel bel mezzo di un’ondata di freddo che l’Italia ricordera’ per un bel pezzo) ad aspettare un volo per.. Belgrado! (un paese dove, se possibile, fa ancora piu’ freddo e trovero’ ancora piu’ neve).
Questa strana, insolita, strampalata meta (per quanto mi riguarda, io che ho sempre preso voli diretti ad Ovest o al piu’ a Nord) non e’ saltata fuori col classico “bendati gli occhi e punta il dito a caso sull’atlante”, bensi’ per motivi strategici che affondano le proprie radici addirittura alla notte di capodanno. Le prime ore del 2012. Un incontro cosi’, un po’ forzato, anche se casuale, due parole blaterate in inglese, una nuova, fugace amicizia. Il giorno dopo, qualche sms, il numero ricevente e’ serbo ma la comunicazione c’e’ comunque, un secondo, piu’ lungo incontro. Se il giorno prima si era nell’affollatissima piazza S.Marco a Venezia, ora ci si trovava a camminare per le deserte vie di Jesolo lido. Un ragazzo, una ragazza. Una serata fredda ma piacevole, scaldata da qualcosa che – ovviamente – va piu’ in la di due semplici chiacchiere. All’arrivederci, che forse piu’ sensatamente avrebbe dovuto essere quasi un addio (il mondo e’ grande ed il nostro tempo su di esso e’ gran poco, tutto sommato), l’idea. E se ci rivedessimo? Il si e’ di entrambi. Un saluto tenero, dolce, la fine di un bellissimo primo giorno dell’anno. No, stavolta nessuna dormita fino alle 14, nessun pranzo a base di avanzi del cenone, nessun pomeriggio in stato comatoso passato tra libri, orribili programmi tv di un pomeriggio festivo e auguri ai parenti. Solo, solo, un lento planning di una serata da passare con un quasi sconosciuta che dalla Serbia si trova in vacanza a Venezia. E la differenza tra le due alternative si sente eccome.
Non sapevo nulla della Serbia all’epoca, 1 gennaio 2012, e non sapevo nemmeno se avrei veramente tenuto fede alle mie parole. Voglio dire, dai, andro’ veramente a Belgrado – con i costi connessi - per rivedere una sconosciuta con cui tutto sommato ho solo passato una romantica serata?! Ma dai! Eh invece, pare che sia proprio vero quel detto “Le vie del Signore sono infinite” – anche se a volte un po’ fredde e ricoperte di neve. Ad ogni modo, non che ora sappia di piu’ sulla Serbia, la sua gente, i suoi posti – anzi non so un cazzo proprio, e’ quello il tragico! – so solo che voglio rivedere questa ragazza e per questo ho speso dei soldi, preso delle ferie, e sto scrivendo queste 4 righe scapestrate a narrare queste mie vicissitudini. Non sapevo allora a cosa andavo incontro: non sapevo nemmeno se la Serbia fosse uno stato o una regione di un qualche altro stato piu’ grosso (sapete, guerra di qua guerra di la, ad essere onesto non so nemmeno se siano finite le guerre da quelle parti!), non sapevo quanti abitanti avesse Belgrado.. ero scettico sulla cosa. E invece.. invece, un amicizia accettata in Facebook, qualche dialogo qua e la, sotto le coperte, prima di andare a letto, ed eccoci al punto. Si va a Belgrado. Per quanto mi riguarda, il motivo c’e’. Ok, non andro’ a visitare monumenti, non andro’ a parchi nazionali, ma trovero’ comunque il modo di passare il tempo. E’ uno di quei casi in cui preferisco la compagnia umana a quella di un fiume, di un sentiero, di un orso (in lontananza s’intende). Prenoto il volo pochi giorni dopo, ferie accordate per lunedi’ e martedi’. 4 giorni nella capitale serba. Sinceramente, non sono mai stato cosi’ felice di recarmi in un posto per me (non me ne vogliano i serbi, dico solo A NASO) cosi’ maledettamente insignificante! Non e’ quella felicita’ che provo quando so di essere di ritorno nei miei beloved United States of America, e’ una cosa diversa. Ma e’ appagante, soddisfacente, motivante in egual maniera. Partiamo, l’11 febbraio, un sabato mattina, e torniamo martedi’ 14, la notte. Una cosa imprescindibile ormai per i miei viaggi e’ quella di tornare a lavoro il giorno dopo senza un maledetto secondo di pausa, senza un riposo tonificante, senza un giorno vuoto nel mezzo. A dire il vero, non riesco a prescindere da un rientro notturno, assonnato, terrorizzato dalla bomba che mi attendera’ sul posto di lavoro il giorno dopo. Bah, fuck ‘em all. Per ora sono in vacanza, poi si vedra’.
Il fatto e’ un’altro, pero’. Chissa’ come mai – anche se io una spiegazione me la son fatta, daje e ridaje come dicono in quel di Roma – pochi giorni prima della mia presunta partenza sull’Italia e sul resto dell’Europa si e’ scatenata un’ondata di freddo polare che non si registrava da decenni. Neve ovunque, ghiaccio, strade bloccate, aeroporti in tilt, addirittura, in molti paesi (soprattutto dell’est europa) gente morta per il freddo. MA VA’! Ci avrei quasi scommesso qualcosa, su qualche disastro naturale. Se non e’ l’eruzione di un cazzo di vulcano, uno sciopero o una qualche tempesta tropicale, doveva pur essere un’ondata anomala di freddo a mettere a rischio la mia dipartita, giusto?! Neanche il finale di un film di Rocky poteva essere piu’ scontato. Le avversita’ climatiche sembrano essere un’altro sgradito compagno dei miei viaggi, a quanto pare. Ricordo benissimo i tempi del Dakota del Sud, quando in 2 mesi venni spazzato da ben 3 blizzard – quelli seri, non le nevicate e do raffiche de vento che QUI chiamano blizzard. Ma fosse solo questo, che in realta’ gia’ sarebbe abbastanza. La domenica della settimana precedente la partenza, il Super Bowl. Il giorno dopo, una stanchezza assurda. Il martedi’, alla stanchezza si aggiunge debolezza, fronte calda. Il TERRORE. Sano come un pesce per tutto l’inverno ed ora, al piu’ bello, condannato a muoversi con un clima ostile e per giunta malato. Un disastro, si profila una Caporetto dei giorni moderni. Una ritirata frettolosa dai Balcani in cerca di una maledetta aspirina, di una tachipirina e del mio letto. Avrei preso a pugni anche un sacco di cemento, dal nervoso. Mi sentivo un po’ Fantozzi, un po’ Paperino, un po’ tutti quei personaggi a cui quando si mette, non ne va dritta una neanche a pregare tutti i santi del calendario. Sembrava una maledizione. Provo a pensare a quale tra gli amici poteva avermi maledetto cosi’ tanto da causare tutto cio’, maledetta invidia che riesce a scatenare tutto questo. Ma non trovando – in apparenza – alcun rilevante colpevole grazie a Dio, torno a pensare alla soluzione. Con un cargo di vitamine e del riposo importante riesco a riportare la condizione fisica a livelli accettabili per una trasferta in Siberia. Anche se so che moriro’ congelato per strada. Ma citando Fabio, come sempre, ha creato una frase degna di nota, “E’ un rischio che sono disposto a correre”. Risolvo cosi’ il problema salute, sono pronto ad affrontare la sfida climatica. Riusciro’ a decollare da Roma? E’ quello l’ostacolo. Venezia non pare un problema, ed una volta in volo per Belgrado da qualche parte dovro’ pur atterrare (anche se i Balcani sono estesi e nonn vorrei trovarmi a Skopje o a Timisoara), dunque il problema maggiore per quanto mi concerne e’ Roma. La Roma che per 2 cm di neve chiude uffici, scuole e qualsiasi altra cosa che si possa aprire o chiudere – porte comprese. Staremo a vedere.
E’ l’11 febbraio 2012, mattina, le 7.20 quando mi sveglio. Scrivo subito all’amico Auri, sperando mi possa aiutare a conoscere lo stato del mio volo. Non risponde. Va bene, e’ uno statale e come tale stara’ probabilmente mangiando croissant alla marmellata con caffelatte facendo briciole sopra il pannello di controllo della torre.. pero’ cavolo, aiutare un amico!! Almeno quello, guadagnati lo stipendio onestamente cazzo! (So che auri non leggera’ MAI queste righe!) Dunque, mi informo presso altri siti vari ed eventuali e, tra una fetta biscottata al miele ed una alla marmellata d’albicocca, riesco a capire che il volo su Roma esiste ed e’ regolare, ma quello da Roma e’ tutta un’incognita. Incognita aggravata dal fatto che il volo precedente da Roma su Belgrado (8.00) e’ stato annullato. Sono nella merda fino ai 4 peli che crescono tra petto e collo, penso. Il che vuol dire, abbastanza. Chiamo il call-center Alitalia ma, OVVIAMENTE, la voce registrata che ti fa sentire un’idiota chiedendoti di scandire bene destinazione, orario, etc (dandoti quella sensazione tipo “Sei idiota, con chi cazzo stai parlando? Non hai mica la regina d’Inghilterra dall’altra parte della cornetta!”) non fornisce alcuna indicazione utile. Grazie per la spesa, sapevo di piu’ prima. Decido di sbattermene allegramente di tutto, e di tentare la sorte. Mi igienizzo e mi vesto alla velocita’ della luce, tiro su i miei fagotti e prendo la macchina. E’ strano, per la prima volta, partire veramente da solo. Nel senso: di solito ci sono i tuoi che ti accompagnano, di aiutano con i bagagli, ti salutano. Stavolta sei solo tu, i tuoi pensieri, ti gestisci da solo. Strana sensazione. Sembra brutto: il freddo, il ventaccio che tira fuori. Mentre carico la valigia nella mia Bravo macchiata dai residui della neve chimica, penso.. “Perche’ fai tutto cio’? Perche’ non ti sei tenuto quei soldi in conto e te ne sei stato a letto a dormire stamattina? Perche’ ti muovi quando nemmeno un lupo affamato lo farebbe, oggi?”. Ebbene.. questo sono io! Nel senso, dai ragazzi, la vita non e’ fatta per esser passata a casa, a Cadoneghe, con le stesse persone di sempre, con le stesse sicurezze di sempre, con i nostri soldi che accumuliamo lavorando, con mamma e papa’, con la ragazza sempre di fianco a noi.. no, NO CAVOLO! Soprattutto finche’ non abbiamo famiglia, non abbiamo delle rogne veramente grandi, adesso.. credo che cosi’ debba vivere, almeno io. Senza porsi limiti, senza domandarsi troppo “Ma faccio bene? Ma rischio qualcosa?”, senza preoccuparsi oltremodo. Sono comunque convinto di non far nulla di speciale, anche se qualcuno mi dice che si, non tutti farebbero quel che sto facendo, non avrebbero il coraggio, la voglia, il tempo, la pazienza e molte altre cose. Il fatto e’, ancora una volta, che io la vedo cosi’: se lavoro e ho qualche soldo, perche’ non mettersi in gioco e conoscere, girare, esplorare. Stavolta non esplorero’ parchi nazionali, fiumi, laghi, montagne, sentieri. Stavolta conoscero’ gente. Stavolta voglio passare del tempo con una persona, in un paese che non e’ il mio, in un contesto per me insolito, senza sapere assolutamente nulla di dove finiro’, di dove staro’, di come staro’. Ma a me tutto cio’ piace lo stesso. Credo sia insito in me ormai, il gusto di scoprire. Un po’ come quando sei bambino e ti appresti a scartare il tuo regalo di Natale.
La Bravo, nonostante il clima rigidoo, parte che e’ una meraviglia e mi porta in breve al casello autostradale per Venezia. Fuori il tempo e’ veramente orso. Lo mitigo un po’ mettendo su del buon country che mi rallegra, mi fa canticchiare qualcosina. E’ importante, il morale, lo dice sempre anche il mio guru Bear Grylls. E spesso – anche se a molti non sembra – non dice stupidate, anzi. Tante cose si applicano non solo ad un uomo che cerca di tirarsi fuori dalla giungla amazzonica o dalle Rockies canadesi, ma anche ad una persona che parte per un viaggio. Absolutely. Con l’ausilio del navigatore sul cellulare (Dio benedica quel giorno che l’acquistai, mi ha tolto parecchie grane direzionali!) giungo a destinazione in breve tempo e son pronto a parcheggiare la macchina e dirigermi in navetta verso l’aeroporto. Bello no, stile Mamma ho Perso l’Aereo: non mi vengono a prendere a casa, pero’ mi parcheggiano la macchina, mi fanno salire nel furgoncino e mi portano a destinazione. Il bello e’ che cosi’ non scomodo nessuno, non devo sottostare a baci abbracci e puttanate varie dei saluti pre-viaggio (avessi, che so, Gisele Bundchen che mi viene a salutare all’aeoporto, ancora ancora..) e mi sento incredibilmente autonomo. Come ai famosi tempi della riserva, quando portavo in casa sotto un vento sferzante 4 o 5 buste della spesa piene per non dover fare un altro giro in macchina. Ero forte! Rinchiuso nei miei pensieri, tutto sommato allegro, con il piglio giusto, a dispetto delle condizioni meteorologiche avverse, arrivo al Marco Polo dove in velocita’ domando se il mio volo e’ regolare – e di cio’ mi danno conferma, con mia piena soddisfazione! – per poi fiondarmi a cannone al bagno, per la solita, irrununciabile pisciata fiume pre- check-in. E’ piu’ forte di me, gli aeroporti mi stimolano. Esco dal locale adibito a svuotare le vesciche con un sorriso a 34 denti (dente piu’ dente meno) che vuol dire qualcosa del tipo “Ragazzi che pisciata oh!”. Mi accomodo alla fila per il check salutando i tifosi giunti da mezza Italia per salutare la mia partenza. Qualcuno mi lancia della frutta per donarmi vitamine preziose per il viaggio (iperbole dell’autore). Ad un certo punto arriva Adriana, che mi scongiura di non partire. “E’ una cosa che deve essere fatta Adrian”, le dico, e mi volgo con sguardo pensieroso alle barriere d’ingresso. Ormai e’ fatta. (Anche questa, un’iperbole dell’autore rievocante un celebre film che sara’ menzionato piu’ volte) Giunto al gate prescelto, estraggo il mio libro da viaggio – non proprio un tascabile o un oscar da 200 pagine, quanto una mattonella di 540 pagine pure piuttosto ingombrante. Un libro da viaggio intorno al mondo direi. Non posso leggere in pace per 5 minuti, che sono bruscamente interrotto dall’arrivo di due coppie di petulanti signori sessantenni, veneti, impellicciati, saccenti. Tra un commento sul ritardo dei voli (circa un’ora), e un commento su Roma, sulla neve, e sulla figlia anch’essa onniscente a quanto pare, sono fortemente tentato di dar fuoco ai loro preziosissimi mantelli pelosi. Ma non volendo trascorrere i 2 giorni di ferie in gattabuia, freno a stento questo palese istinto. Istinto che si ripresenta gagliardo 10 minuti dopo, quando la mia lettura viene interrotta stavolta da un assolo musicale. Spero per voi non vi capiti mai di vivere una scena del genere, perche’ potreste non sopravvivere alla recrudescenza canora in scena. Una delle due signore sessantenni, a quanto pare colta da insolita (e ignominiosa, vista l’eta’) giovinezza, si improvvisa Rihanna e canticchia le note di “Umbrella”. Vi giuro, credo che la sensazione provata sia qualcosa come entrare in un cesso chimico e trovarlo traboccante di assorbenti usati, chili di merda ed un gabbiano che scava tra i rifiuti. Indescrivibilmente da brividi. E mentre rabbrividisco senza controllo, tengo presente la scena al mondo grazie alla tecnologia dei telefoni, che tramite internet riescono a connettere persone ovunque allo stesso istante. Gran cosa la tecnologia, talvolta. Bisogna solo scovarne il lato utile e sgrassarlo dalle tante applicazioni futili. Prima di chiudere il libro, ne traggo ispirazione per una targa. Si, la targa della mia prossima automobile. Negli USA il cittadino puo’ “comprare” una particolare targa semplicemente presentandosi all’ufficio preposto e presentando il nome che intende usare per la propria. Molto semplice. Io usero’ questo: IDGAF. Non sembra voler dire un cazzo in effetti. Vi do uno spunto: la mia interpretazione inizierebbe per “I don’t give”. Il resto completatelo voi.
Ebbene, come molte delle frasi perentorie, imperative che ci troviamo a pronunciare nella nostra esistenza vengono puntualmente smentite, eccomi qui all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma, in data solare 11 febbraio 2012 (nel bel mezzo di un’ondata di freddo che l’Italia ricordera’ per un bel pezzo) ad aspettare un volo per.. Belgrado! (un paese dove, se possibile, fa ancora piu’ freddo e trovero’ ancora piu’ neve).
Questa strana, insolita, strampalata meta (per quanto mi riguarda, io che ho sempre preso voli diretti ad Ovest o al piu’ a Nord) non e’ saltata fuori col classico “bendati gli occhi e punta il dito a caso sull’atlante”, bensi’ per motivi strategici che affondano le proprie radici addirittura alla notte di capodanno. Le prime ore del 2012. Un incontro cosi’, un po’ forzato, anche se casuale, due parole blaterate in inglese, una nuova, fugace amicizia. Il giorno dopo, qualche sms, il numero ricevente e’ serbo ma la comunicazione c’e’ comunque, un secondo, piu’ lungo incontro. Se il giorno prima si era nell’affollatissima piazza S.Marco a Venezia, ora ci si trovava a camminare per le deserte vie di Jesolo lido. Un ragazzo, una ragazza. Una serata fredda ma piacevole, scaldata da qualcosa che – ovviamente – va piu’ in la di due semplici chiacchiere. All’arrivederci, che forse piu’ sensatamente avrebbe dovuto essere quasi un addio (il mondo e’ grande ed il nostro tempo su di esso e’ gran poco, tutto sommato), l’idea. E se ci rivedessimo? Il si e’ di entrambi. Un saluto tenero, dolce, la fine di un bellissimo primo giorno dell’anno. No, stavolta nessuna dormita fino alle 14, nessun pranzo a base di avanzi del cenone, nessun pomeriggio in stato comatoso passato tra libri, orribili programmi tv di un pomeriggio festivo e auguri ai parenti. Solo, solo, un lento planning di una serata da passare con un quasi sconosciuta che dalla Serbia si trova in vacanza a Venezia. E la differenza tra le due alternative si sente eccome.
Non sapevo nulla della Serbia all’epoca, 1 gennaio 2012, e non sapevo nemmeno se avrei veramente tenuto fede alle mie parole. Voglio dire, dai, andro’ veramente a Belgrado – con i costi connessi - per rivedere una sconosciuta con cui tutto sommato ho solo passato una romantica serata?! Ma dai! Eh invece, pare che sia proprio vero quel detto “Le vie del Signore sono infinite” – anche se a volte un po’ fredde e ricoperte di neve. Ad ogni modo, non che ora sappia di piu’ sulla Serbia, la sua gente, i suoi posti – anzi non so un cazzo proprio, e’ quello il tragico! – so solo che voglio rivedere questa ragazza e per questo ho speso dei soldi, preso delle ferie, e sto scrivendo queste 4 righe scapestrate a narrare queste mie vicissitudini. Non sapevo allora a cosa andavo incontro: non sapevo nemmeno se la Serbia fosse uno stato o una regione di un qualche altro stato piu’ grosso (sapete, guerra di qua guerra di la, ad essere onesto non so nemmeno se siano finite le guerre da quelle parti!), non sapevo quanti abitanti avesse Belgrado.. ero scettico sulla cosa. E invece.. invece, un amicizia accettata in Facebook, qualche dialogo qua e la, sotto le coperte, prima di andare a letto, ed eccoci al punto. Si va a Belgrado. Per quanto mi riguarda, il motivo c’e’. Ok, non andro’ a visitare monumenti, non andro’ a parchi nazionali, ma trovero’ comunque il modo di passare il tempo. E’ uno di quei casi in cui preferisco la compagnia umana a quella di un fiume, di un sentiero, di un orso (in lontananza s’intende). Prenoto il volo pochi giorni dopo, ferie accordate per lunedi’ e martedi’. 4 giorni nella capitale serba. Sinceramente, non sono mai stato cosi’ felice di recarmi in un posto per me (non me ne vogliano i serbi, dico solo A NASO) cosi’ maledettamente insignificante! Non e’ quella felicita’ che provo quando so di essere di ritorno nei miei beloved United States of America, e’ una cosa diversa. Ma e’ appagante, soddisfacente, motivante in egual maniera. Partiamo, l’11 febbraio, un sabato mattina, e torniamo martedi’ 14, la notte. Una cosa imprescindibile ormai per i miei viaggi e’ quella di tornare a lavoro il giorno dopo senza un maledetto secondo di pausa, senza un riposo tonificante, senza un giorno vuoto nel mezzo. A dire il vero, non riesco a prescindere da un rientro notturno, assonnato, terrorizzato dalla bomba che mi attendera’ sul posto di lavoro il giorno dopo. Bah, fuck ‘em all. Per ora sono in vacanza, poi si vedra’.
Il fatto e’ un’altro, pero’. Chissa’ come mai – anche se io una spiegazione me la son fatta, daje e ridaje come dicono in quel di Roma – pochi giorni prima della mia presunta partenza sull’Italia e sul resto dell’Europa si e’ scatenata un’ondata di freddo polare che non si registrava da decenni. Neve ovunque, ghiaccio, strade bloccate, aeroporti in tilt, addirittura, in molti paesi (soprattutto dell’est europa) gente morta per il freddo. MA VA’! Ci avrei quasi scommesso qualcosa, su qualche disastro naturale. Se non e’ l’eruzione di un cazzo di vulcano, uno sciopero o una qualche tempesta tropicale, doveva pur essere un’ondata anomala di freddo a mettere a rischio la mia dipartita, giusto?! Neanche il finale di un film di Rocky poteva essere piu’ scontato. Le avversita’ climatiche sembrano essere un’altro sgradito compagno dei miei viaggi, a quanto pare. Ricordo benissimo i tempi del Dakota del Sud, quando in 2 mesi venni spazzato da ben 3 blizzard – quelli seri, non le nevicate e do raffiche de vento che QUI chiamano blizzard. Ma fosse solo questo, che in realta’ gia’ sarebbe abbastanza. La domenica della settimana precedente la partenza, il Super Bowl. Il giorno dopo, una stanchezza assurda. Il martedi’, alla stanchezza si aggiunge debolezza, fronte calda. Il TERRORE. Sano come un pesce per tutto l’inverno ed ora, al piu’ bello, condannato a muoversi con un clima ostile e per giunta malato. Un disastro, si profila una Caporetto dei giorni moderni. Una ritirata frettolosa dai Balcani in cerca di una maledetta aspirina, di una tachipirina e del mio letto. Avrei preso a pugni anche un sacco di cemento, dal nervoso. Mi sentivo un po’ Fantozzi, un po’ Paperino, un po’ tutti quei personaggi a cui quando si mette, non ne va dritta una neanche a pregare tutti i santi del calendario. Sembrava una maledizione. Provo a pensare a quale tra gli amici poteva avermi maledetto cosi’ tanto da causare tutto cio’, maledetta invidia che riesce a scatenare tutto questo. Ma non trovando – in apparenza – alcun rilevante colpevole grazie a Dio, torno a pensare alla soluzione. Con un cargo di vitamine e del riposo importante riesco a riportare la condizione fisica a livelli accettabili per una trasferta in Siberia. Anche se so che moriro’ congelato per strada. Ma citando Fabio, come sempre, ha creato una frase degna di nota, “E’ un rischio che sono disposto a correre”. Risolvo cosi’ il problema salute, sono pronto ad affrontare la sfida climatica. Riusciro’ a decollare da Roma? E’ quello l’ostacolo. Venezia non pare un problema, ed una volta in volo per Belgrado da qualche parte dovro’ pur atterrare (anche se i Balcani sono estesi e nonn vorrei trovarmi a Skopje o a Timisoara), dunque il problema maggiore per quanto mi concerne e’ Roma. La Roma che per 2 cm di neve chiude uffici, scuole e qualsiasi altra cosa che si possa aprire o chiudere – porte comprese. Staremo a vedere.
E’ l’11 febbraio 2012, mattina, le 7.20 quando mi sveglio. Scrivo subito all’amico Auri, sperando mi possa aiutare a conoscere lo stato del mio volo. Non risponde. Va bene, e’ uno statale e come tale stara’ probabilmente mangiando croissant alla marmellata con caffelatte facendo briciole sopra il pannello di controllo della torre.. pero’ cavolo, aiutare un amico!! Almeno quello, guadagnati lo stipendio onestamente cazzo! (So che auri non leggera’ MAI queste righe!) Dunque, mi informo presso altri siti vari ed eventuali e, tra una fetta biscottata al miele ed una alla marmellata d’albicocca, riesco a capire che il volo su Roma esiste ed e’ regolare, ma quello da Roma e’ tutta un’incognita. Incognita aggravata dal fatto che il volo precedente da Roma su Belgrado (8.00) e’ stato annullato. Sono nella merda fino ai 4 peli che crescono tra petto e collo, penso. Il che vuol dire, abbastanza. Chiamo il call-center Alitalia ma, OVVIAMENTE, la voce registrata che ti fa sentire un’idiota chiedendoti di scandire bene destinazione, orario, etc (dandoti quella sensazione tipo “Sei idiota, con chi cazzo stai parlando? Non hai mica la regina d’Inghilterra dall’altra parte della cornetta!”) non fornisce alcuna indicazione utile. Grazie per la spesa, sapevo di piu’ prima. Decido di sbattermene allegramente di tutto, e di tentare la sorte. Mi igienizzo e mi vesto alla velocita’ della luce, tiro su i miei fagotti e prendo la macchina. E’ strano, per la prima volta, partire veramente da solo. Nel senso: di solito ci sono i tuoi che ti accompagnano, di aiutano con i bagagli, ti salutano. Stavolta sei solo tu, i tuoi pensieri, ti gestisci da solo. Strana sensazione. Sembra brutto: il freddo, il ventaccio che tira fuori. Mentre carico la valigia nella mia Bravo macchiata dai residui della neve chimica, penso.. “Perche’ fai tutto cio’? Perche’ non ti sei tenuto quei soldi in conto e te ne sei stato a letto a dormire stamattina? Perche’ ti muovi quando nemmeno un lupo affamato lo farebbe, oggi?”. Ebbene.. questo sono io! Nel senso, dai ragazzi, la vita non e’ fatta per esser passata a casa, a Cadoneghe, con le stesse persone di sempre, con le stesse sicurezze di sempre, con i nostri soldi che accumuliamo lavorando, con mamma e papa’, con la ragazza sempre di fianco a noi.. no, NO CAVOLO! Soprattutto finche’ non abbiamo famiglia, non abbiamo delle rogne veramente grandi, adesso.. credo che cosi’ debba vivere, almeno io. Senza porsi limiti, senza domandarsi troppo “Ma faccio bene? Ma rischio qualcosa?”, senza preoccuparsi oltremodo. Sono comunque convinto di non far nulla di speciale, anche se qualcuno mi dice che si, non tutti farebbero quel che sto facendo, non avrebbero il coraggio, la voglia, il tempo, la pazienza e molte altre cose. Il fatto e’, ancora una volta, che io la vedo cosi’: se lavoro e ho qualche soldo, perche’ non mettersi in gioco e conoscere, girare, esplorare. Stavolta non esplorero’ parchi nazionali, fiumi, laghi, montagne, sentieri. Stavolta conoscero’ gente. Stavolta voglio passare del tempo con una persona, in un paese che non e’ il mio, in un contesto per me insolito, senza sapere assolutamente nulla di dove finiro’, di dove staro’, di come staro’. Ma a me tutto cio’ piace lo stesso. Credo sia insito in me ormai, il gusto di scoprire. Un po’ come quando sei bambino e ti appresti a scartare il tuo regalo di Natale.
La Bravo, nonostante il clima rigidoo, parte che e’ una meraviglia e mi porta in breve al casello autostradale per Venezia. Fuori il tempo e’ veramente orso. Lo mitigo un po’ mettendo su del buon country che mi rallegra, mi fa canticchiare qualcosina. E’ importante, il morale, lo dice sempre anche il mio guru Bear Grylls. E spesso – anche se a molti non sembra – non dice stupidate, anzi. Tante cose si applicano non solo ad un uomo che cerca di tirarsi fuori dalla giungla amazzonica o dalle Rockies canadesi, ma anche ad una persona che parte per un viaggio. Absolutely. Con l’ausilio del navigatore sul cellulare (Dio benedica quel giorno che l’acquistai, mi ha tolto parecchie grane direzionali!) giungo a destinazione in breve tempo e son pronto a parcheggiare la macchina e dirigermi in navetta verso l’aeroporto. Bello no, stile Mamma ho Perso l’Aereo: non mi vengono a prendere a casa, pero’ mi parcheggiano la macchina, mi fanno salire nel furgoncino e mi portano a destinazione. Il bello e’ che cosi’ non scomodo nessuno, non devo sottostare a baci abbracci e puttanate varie dei saluti pre-viaggio (avessi, che so, Gisele Bundchen che mi viene a salutare all’aeoporto, ancora ancora..) e mi sento incredibilmente autonomo. Come ai famosi tempi della riserva, quando portavo in casa sotto un vento sferzante 4 o 5 buste della spesa piene per non dover fare un altro giro in macchina. Ero forte! Rinchiuso nei miei pensieri, tutto sommato allegro, con il piglio giusto, a dispetto delle condizioni meteorologiche avverse, arrivo al Marco Polo dove in velocita’ domando se il mio volo e’ regolare – e di cio’ mi danno conferma, con mia piena soddisfazione! – per poi fiondarmi a cannone al bagno, per la solita, irrununciabile pisciata fiume pre- check-in. E’ piu’ forte di me, gli aeroporti mi stimolano. Esco dal locale adibito a svuotare le vesciche con un sorriso a 34 denti (dente piu’ dente meno) che vuol dire qualcosa del tipo “Ragazzi che pisciata oh!”. Mi accomodo alla fila per il check salutando i tifosi giunti da mezza Italia per salutare la mia partenza. Qualcuno mi lancia della frutta per donarmi vitamine preziose per il viaggio (iperbole dell’autore). Ad un certo punto arriva Adriana, che mi scongiura di non partire. “E’ una cosa che deve essere fatta Adrian”, le dico, e mi volgo con sguardo pensieroso alle barriere d’ingresso. Ormai e’ fatta. (Anche questa, un’iperbole dell’autore rievocante un celebre film che sara’ menzionato piu’ volte) Giunto al gate prescelto, estraggo il mio libro da viaggio – non proprio un tascabile o un oscar da 200 pagine, quanto una mattonella di 540 pagine pure piuttosto ingombrante. Un libro da viaggio intorno al mondo direi. Non posso leggere in pace per 5 minuti, che sono bruscamente interrotto dall’arrivo di due coppie di petulanti signori sessantenni, veneti, impellicciati, saccenti. Tra un commento sul ritardo dei voli (circa un’ora), e un commento su Roma, sulla neve, e sulla figlia anch’essa onniscente a quanto pare, sono fortemente tentato di dar fuoco ai loro preziosissimi mantelli pelosi. Ma non volendo trascorrere i 2 giorni di ferie in gattabuia, freno a stento questo palese istinto. Istinto che si ripresenta gagliardo 10 minuti dopo, quando la mia lettura viene interrotta stavolta da un assolo musicale. Spero per voi non vi capiti mai di vivere una scena del genere, perche’ potreste non sopravvivere alla recrudescenza canora in scena. Una delle due signore sessantenni, a quanto pare colta da insolita (e ignominiosa, vista l’eta’) giovinezza, si improvvisa Rihanna e canticchia le note di “Umbrella”. Vi giuro, credo che la sensazione provata sia qualcosa come entrare in un cesso chimico e trovarlo traboccante di assorbenti usati, chili di merda ed un gabbiano che scava tra i rifiuti. Indescrivibilmente da brividi. E mentre rabbrividisco senza controllo, tengo presente la scena al mondo grazie alla tecnologia dei telefoni, che tramite internet riescono a connettere persone ovunque allo stesso istante. Gran cosa la tecnologia, talvolta. Bisogna solo scovarne il lato utile e sgrassarlo dalle tante applicazioni futili. Prima di chiudere il libro, ne traggo ispirazione per una targa. Si, la targa della mia prossima automobile. Negli USA il cittadino puo’ “comprare” una particolare targa semplicemente presentandosi all’ufficio preposto e presentando il nome che intende usare per la propria. Molto semplice. Io usero’ questo: IDGAF. Non sembra voler dire un cazzo in effetti. Vi do uno spunto: la mia interpretazione inizierebbe per “I don’t give”. Il resto completatelo voi.
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