Dopo un po’ ad ogni modo, passa il mio istinto da lettore e tra un giochetto qua ed uno spuntino la, arriva l’ora dell’imbarco. Finalmente, voliamo su Roma. Spinta a mille del motore, schiene spianate all’indietro, e via su nel cielo. A terra il tempo uggioso, ventoso, pessimo. Li, in alto, sopra le nuvole, avviene sempre il solito miracolo: c’e’ il sole. Non mi stanchero’ mai di ripeterlo, finiro’ per risultare mieloso e beceramente poetico, ma credo sia questo uno dei miracoli piu’ belli del volo, al di la del trasportare persone velocemente da un luogo all’altro: far riscoprire ogni volta alla gente che, piu’ su delle nuvole, comunque vada, il sole splende sempre. Ed e’ uno spettacolo che rallegra lo spirito. Il corpo invece lo scaldo con un te’ caldo al limone cortesemente offerto dallo staff, mentre ammiro un altro spettacolo, durante la nostra discesa. Spettacolo un po’, mah, sconcertante a dire il vero. L’Italia e’ tutta imbiancata. Dall’Emilia alle Marche fin giu’ a Roma, un unico tappeto bianco di neve copre la penisola. Solo qualche cupa foresta e macchia coltivata spezza la monotonia ed il grigiore di questo ambiente. Arrivo mestamente a terra convinto che non decollero’ mai per Belgrado, visti anche gli accumuli di neve a bordo pista. Eccoci a Roma, caput mundi. In realta’, che la Caput Mundi abbia dei piccioni che svolazzano comodamente dentro i gate dell’aeroporto mi lascia un po’ perplesso. Ce ne sono giusto un paio che si aggirano pericolosamente sui tubi posti sopra dove sono attualmente seduto. E la cosa mi desta DELLE preoccupazioni, capirete il perche’. Verra’ si il giorno in cui i piccioni conquisteranno il mondo. Lo diceva anche un link in Facebook, ricordo. Li ho visti girare nei supermercati anche, sti pennuti malnati. Chissa’ che piano diabolico hanno in mente! Spostandomi cautamente, evito la pennutaglia e mi dedico a qualche passatempo: riordinare la 24 ore, scrivere qualche appunto, fare uno spuntino. Mi sembra di avere un’eternita’ da passare prima del volo verso Belgrado – anch’esso regolarmente programmato, grazie a Dio! – quando mi accorgo invece di essere in ritardo: hanno gia’ aperto il boarding da 10 minuti e quando arrivo io sono gia’ tutti dentro il velivolo. Dannazione. E dannazione anche alla cinese con la lebbra che mi ritrovo affianco. Con 50 gradi di temperatura, avvolta nel suo piumino, imberrettata a tossire. Ma porca.. scampo la malattia a casa ed essa mi insegue con due occhi a mandorla ed un piumino blu. Pazzesco. Riesco comunque a trovare uno spunto interessante in questo volo quando sono prossimo all’arrivo, previsto per le 17.35. Ormai e’ l’ora del tramonto, delle luci che sfumano, del sole che arrossa e scende sotto l’orizzonte. Forse una sola volta nei miei viaggi avevo avuto la fortuna di vedere questo momento del giorno da migliaia di metri d’altezza, e non ne ricordavo la bellezza. Dimenticate quel che si vede da terra. Lassu’, le emozioni si amplificano come la magnificenza in se’ dello spettacolo a cui si assiste. Tra me e me penso che vedere il tramonto dalla cima del monte Everest dev’essere qualcosa di impagabile. Sul serio. Da soli magari, sul tetto del mondo, magari con la fortuna di un giorno sereno, senza troppe nubi. Vedere il sole che sfuma rossi, arancioni, gialli e violacei sulle cime innevate che protendono verso il cielo. Si, dev’essere qualcosa come sentirsi in Paradiso. Qualcosa che lascia l’uomo pensare “Da ora posso dire di aver vissuto la mia vita”. Io che forse non saliro’ mai lassu’, anche se mi piacerebbe provarci, per ora mi accontento di un tramonto visto dal finestrino di un aereo Alitalia diretto a Belgrado. Dove arrivo appunto alle 17.35. Fuori, un macello. Nevica, e nevica sopra almeno 40 cm di neve ovunque sul terreno. Persino sulla pista d’atterraggio c’e’ neve, sporca e melmosa ma c’e’. Si atterra comunque senza problemi, e per raggiungere l’attracco per la discesa passeggeri ci si fa trainare da un trattore, vista la neve che impedisce la locomozione dell’aereo. Questa non l’avevo mai vista. Io mi preparo. Con occhio iperterrito fisso il glaciale spettacolo esterno. Le luci fioche dei lampioni illuminano la neve e le poche costruzioni limitrofe alla pista d’atterraggio. Affiorano alla mente le immagini di un film. Mi calo nel ruolo. Indosso il giubotto, il berretto, la sciarpa. Le cuffie dell’ipod suonano la colonna sonora di Rocky IV. (Nota dell’autore: la narrazione seguira’ brevemente un frammento del film) Metto il muso fuori dall’aeromobile e vengo investito da una raffica di vento e neve. Sventolano bandiere sovietiche, le guardie del regime mi guardano bieche e con fare altezzoso, fucili a tracolla. La musica mi da coraggio, il mio impeto non si frena. Paulie invece scende dall’aereo dicendomi “Chi me l’ha fatto fare”, e lamentandosi delle condizioni meteo. La guardia assegnata alla nostra persona dice che “il tempo cambia continuamente, ci si abitua” (mai predizione fu piu’ perniciosa). Paulie lo schernisce dicendomi che “sembra il cugino cattivo di Dracula”. “Dai Paulie!”, gli dico per farlo smettere. E ci avviamo in macchina verso il nostro domicilio, “Burning Heart” sempre risonante nelle nostre orecchie e nel nostro cuore.
In realta’, atterro in Serbia, non ci sono guardie con fucili a tracolla, e non ho nessuna guardia assegnata alla mia persona. Al posto di Paulie ho una cinese piu’ morta che viva di cui non vedo l’ora di liberarmi. Entro in aeroporto e rimedio i bagagli, dei dinari serbi (tasso di cambio: 1 euro = 100 dinari) e un passaggio in taxi fino all’aeroporto. Ebbene, da film come “Mamma ho perso l’aereo – Mi sono smarrito a NY” e dalle mie scarne conoscenze in materia, sapevo di non dovermi aspettare la regina Elisabetta con una limousine a darmi uno strappo, ma nemmeno il personaggio che mi son trovato. Un vecchio serbo anch’egli piu’ nella fossa che sul livello del mare, che non parla mezza parola d’inglese e che si rivolge a me in una mezza lingua che sembra tedesco-ungarico ma su cui POTREI anche sbagliarmi. Mentre mi porta a destinazione, con sottofondo folk serbo che avrei piacevolmente rimandato a data imprecisata, continua a tossire profondamente, con delle specie di spasmi che mi fanno pensare che in realta’ saro’ io a dovergli dare un passaggio. All’ospedale di Belgrado. Fervida immaginazione, qui son duri come il cemento. Arrivo all’hotel mentre il tassista mi spiega “Good damen Beograd”. Ora, il senso giunge chiaro, ma di che minchia di lingua si e’ servito? Good e’ inglese, Beograd serbo, e damen? Tedesco-ungarico? Mah. Pago e lo saluto frettolosamente. Mi faccio largo tra qualche yard ti neve per passare dalla strada al marciapiede, impacciato come un cimice che non riesce a girarsi dopo una caduta a pancia insu’. Entro nell’hotel, la cui entrata sembra preludere piu’ ad un condominio di una zona PEP piuttosto che ad un 4 stelle in centro a Belgrado. Ma, mai ingannato dalle apparenze, sbatto le scarpe innevate ed entro. Mi si apre, dopo il portone, l’albergo carino e intonato che avevo scelto da internet. Albergo su cui non mi dilungo molto, sappiate solo che la camera e’ spaziosa, confortevole, apprezzabile. Ho anche delle patatine, degli arachidi e dei confetti di cioccolato al latte per accoglienza! Mi ci acclimato un po’, abbasso il riscaldamento perche’ ci saranno 38 gradi ed i faretti potrebbero farmi da lampade abbronzanti, poi mi preparo il planning della serata. Dovrei uscire per mangiare qualcosa – qualcosa di TIPICO – per poi magari andare all’avventura in qualche club, pub o posto dove ci sia della vita notturna. Eh. Intanto, saziamo la fame. Mi consigliano un posto la cui traduzione italiana e’ “Tre cappelli”. Mi ci reco avventurandomi tra la neve che ammanta le strade, ricopre ingloriosamente le macchine facendo sembrare anche la piu’ bassa delle berline un van da 10 posti, e insozza i marciapiedi. Piu’ che le scarpe del vestito, realizzo mestamente, dovevo portare i Moon Boot. Arrivo fra queste considerazioni al “Tre Cappelli”, posticino rustico, folcloristico, accogliente. Mi accoglie un anch’esso accogliente cameriere, che mi chiede qualcosa nella sua lingua e al quale io replico “Just for one, please”. Lui mi domanda subito “Da dove vieni, straniero?” (no, straniero l’ho aggiunto io). Io replico Italia ovviamente, al che lui, con un colpo di scena, replica “E perche’ non parli italiano allora?”, sorridendo. Io, sorpreso dall’esibizione dell’interlocutore, rispondo sorridendo a mia volta che solitamente la gente dei paesi in cui vado non parla italiano, quindi penso bene di introdurmi parlando inglese, per avere maggiori chance di esser compreso. Ad ogni modo, mi fa accomodare in un tavolino con candela come su tutti gli altri tavoli. Il locale e’ piccolo, piuttosto affollato, e vi suona una band folk locale con chitarrini, bassi, fisarmoniche e quant’altro. Suonano attorno al tavolo di 3 avvenenti signorine e 2 uomini. Mentre ordino le mie pietanze, vedo una di loro alzarsi ed improvvisare una danza tra il suo tavolo e il gomito di un anziano signore che mangia a poca distanza. Lui credo abbia rischiato l’infarto alla vista, io il solito sguardo da pesce lesso di uno che ammira qualcosa di ammaliante. Insomma, ho capito da subito che mi trovavo veramente nella terra di cui – qualcosa del genere – avevo gia’ avuto modo di leggere. Nel senso: lo spirito della gente del posto. Festaiolo, diciamo. Me lo conferma anche il cameriere, al cui domando a proposito della normalita’ o meno dello spettacolo a cui andavo assistendo. Poco piu’ tardi, ecco le mie pietanze: una sfoglia al formaggio in quantita’ abbondante, che apprezzo molto, ed un piatto ricco di carne sfilacciata, qualche erbetta ed un sughetto delizioso, con al centro un timballo di riso con scaglie di carote. Ottimo, veramente, e abbondante al punto che il mio stomaco ormai disabituato non riesce a finirlo. Sono lontani i tempi del fritto, del grasso, del dolce americano. Ora tonno, bresaola, frutta e carne. Non mi riconosco piu’. So solo che ucciderei per uno Vanilla Shake da Coldstone o un bell’hamburger da Denny’s. Ma tornero’ presto, America, puoi scommetterci!
Uscito dal ristorante, non so perche’ – anzi lo so eccome – non mi sfiora nemmeno l’idea del club. Poco prima, episodio curioso, domando ad un cameriere (non quello che parlava italiano) se sapeva darmi indicazioni su qualche club nei dintorni. All’inizio non capisce, poi sentendo ripetere la parola CLUB, mi fa un cenno d’intesa, un sorriso, e mi invita ad attenderlo un secondo. Torna, in effetti, dopo un secondo con un biglietto violaceo in mano. Senza nemmeno aprirlo, lo ringrazio e guadagno l’uscita. Faccio due passi due, tanto per entrare nella zona pedonale, ed apro il biglietto. Vi ci campeggia una tipa mezza nuda distesa orizzontalmente sopra una scritta, “STRIPTEASE CLUB”. Ma vaffanculo. Con un’espressione tra il divertito ed il seccato, straccio la proposta e ritorno verso l’albergo. Mi dico, vedo difficile che sciami di persone siano dirette in discoteca con un metro di neve per strada. Gia’ me li vedo i coraggiosi, con scarponi da sci e calzamaglia, le donne con pattini e lame di ferro al posto dei tacchi, calze di lana e un body termico della Kipsta. Meglio lasciar stare, mi do delle possibilita’ di tornare con condizioni climatiche migliori e allora si, godersi la famosa movida di Belgrado. Molti, la riconoscono la citta’ europea piu’ in, piu’ all’avanguardia per il divertimento notturno. Club, in particolare. Non manchero’. Ma non stasera. Per me, dopo il rientro in albergo, un rapido cambio per stare solamente in mutande, solo un film e una ritirata a letto. Domani si preannuncia una bella giornata, o almeno e’ cio’ che spero.
E’ domenica, giorno del signore 12 febbraio 2012, ed io mi sveglio con comodo alle 9.15 dopo una notte in cui ho avuto piu’ di un’occasione per maledire n.1, chi fa i cuscini alti piu’ di 7 centimetri, n.2, chi li compra per metterli nelle stanze del proprio albergo. Bisognerebbe arrestarli tutti. Come ho avuto modo di pensare, sembra di dormire sopra un’incudine. La maggior morbidezza non regala molto di piu’. Ed i risultati al mattino sono parecchi minuti persi a riacquistare la mobilita’ perduta del proprio collo. Ah, fanculo. Dopo una lavata, mi vesto all’americana (maglietta corta South Dakota e braghezze oltre il ginocchio blu adidas) e mi reco a far della colazione. Frugale, direi, nel senso che mangio un’omelette che mi prepara la signora in cucina, e un po’ di salumi, del pane, qualche biscotto. Niente di che. L’omelette invece faceva un po’ pieta’. Rientrato, pianifico la giornata. Devo essere in un paese a mezzora da Belgrado sulle 16, possibilmente evitando il taxi. Sono le 10. Ho 6 ore da investire. Beh, siccome fuori nevica, decido di rimanere in casa. Non c’e’ molto da raccontare, sono e saranno giornate perlopiu’ piatte, passate a passare il tempo. Ad ammazzarlo anzi, come si dice. Si guarda un film, si chatta con l’amico, si scrive qualcosa. Esco solo per procacciarmi il pranzo. Il ragazzo alla reception mi consiglia una pizzeria dietro l’angolo che dice essere rivoluzionaria perche’ ha inventato la pizza con diversi tipi di SALAD sopra. Dice che e’ fantastica, che costa poco e che nutre un sacco. Devo provarla, insomma. Ora, io per salad capisco insalata, e per poco – come dice lui – capisco che costa 1 euro a pizza. Beh, se bilancio le due cose comunque la cosa sembra piu’ un’affare che una fregatura, quindi decido per la pizza. Esco, eschimo-style, e mi avvio al luogo descrittomi. Non avevo pensato a questa possibilita’, da ignaro, e quando mi ritrovo di fronte un chioschetto 2 metri per 2 senza ovviamente posti a sedere, rimango spiazzato. Poco male, vorra’ dire che tornero’ con la pizza in mano all’hotel per divorarla con qualcosa di interessante da guardare al pc. Il fatto e’ che, quando capisco meglio – e vedo – cosa intendeva dire il ragazzo dell’hotel, realizzo a cosa sto andando incontro. In realta’ SALAD non sono altro che salse di diversi tipi (carne, pollo, insalata, etc) all’aspetto grassissime, piu’ grasse di un Double Cheeseburger di Mc Donald, da spalmare sopra la pizza. Non mi convince piu’ la cosa, ma tra un ristorante di classe la domenica a pranzo – ricordo di pranzi di comunione, cresima o grandi occasioni del genere – e un chioschetto del cazzo, vada per il chioschetto. Mi faccio fare una pizza intera (tanto anche se l’avanzo avro’ speso solo un euro no?!) e scelgo la salsa carnosa. In 5 minuti ho la pizza in mano, dentro il cartone, e dentro una scatoletta credo una trentina di salviette. Che cazzo pensava me ne facessi di trenta salviette a dire il vero non lo so. Forse pensava avessi finito la carta igienica in cesso. Riguadagno la via di casa, facendo attenzione a non combinarmi per le feste con una rovinosa caduta sulla neve, e alla fine, comodamente seduto e denudato di tutto ma non delle mie mutande, apro la scatola. Porca puttana, credo di aver visto raramente uno spettacolo cosi’ (quasi) disgustoso. Una pizza all’apparenza anche buona (formaggio e prosciutto – il formaggio col senno di poi molto saporito) con sopra un quintale e con questo intendo dire UN SACCO DI ROBA in termini di salsa. Ho fatto due pensieri, cosi’ a caldo. Il primo, e’ che sto per andare a mangiare una quantita’ potenzialmente mortale di grassi, saturi, insaturi, un po’ saturi e un po’ velenosi. Il secondo, e’ che EPICMEALTIME mi fa una sega. Capito?! Lancio una sfida, se mai lo leggeranno: loro, i loro panini le loro pizze onte mi fanno una sega! Baattagliero al punto giusto, mordo il mostro. E’ come mordere un brufolo di dieci centimetri pieno di pus, o una larva altrettanto grande con la pelle tesa e pronta a far esplodere le budella all’interno. Insomma, salsa ovunque. Assaporo il gusto – che devo dire, non e’ tanto malaccio anzi, risulta gradevole – e poi metto giu’ il trancio, un sesto della pizza. Devo studiare una tattica diversa. Quindi, fa all’uopo il bordo della pizza, che stacco per farne un raschietto con cui raschiar via appunto qualche quintale di salsa dalla pizza. Accumulo una quantita’ di salsa a lato del cartone che sarebbe sufficiente per fare una decina di maschere di bellezza a qualche ignara signora, o un vaso da cinquanta litri in simil terracotta – perche’ il colore della salsa e’ proprio quello. Poi, mi dedico al resto della pizza. Mangio, mordo, addento, mastico, finche’ mi trovo quasi pieno ma con ben 3,5/6 di pizza ancora a guardarmi dal cartone. Infamante. Io che una volta mangiavo quasi un’intera meat lovers con stuffed crust ora son ridotto alla sbarra da quest’ammasso di grassi putridi e salsosi. Ma alzo bandiera bianca volentieri, forse salvando cosi’ la pellaccia, e chiudo scatola e discorso (lasciando poi gli avanzi in camera per 2 giorni esatti. Infamante allo stesso modo. E pensare che mi era anche balenata l’idea di seppellirla sotto la neve.. Tanto chi mai l’avrebbe trovata? Al massimo qualche gabbiano avrebbe segnalato la presenza di qualcosa, sotto la neve, ma se ne sarebbero accorti solo col disgelo in primavera haha!).
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