E’ obiettivamente difficile condurre un’avventura del
genere, on the road, ovvero vivere in un’auto adibita a casa-mobile, fare le
escursioni che si vogliono fare, prendersi cura dei propri averi (biancheria e
piatti inclusi), di se’ stessi (docce & alimentazione), e infine trovare
anche il tempo di mantenere un blog. Posso dire una cosa? A me riesce
impossibile. Per quanto, tanto, vorrei trovare ogni giorno il tempo di
raccontare a familiari, parenti, amici che mi seguono da lontano tutto cio’ che
mi accade e tutto cio’ che faccio, purtroppo le priorita’ sono altre: il
viaggio di per se’. Non e’ come farsi 2 settimane in vacanza: li non devi
prenderti cura di lavanderia, procacciamento e approntamento del cibo, di
rifarsi il letto e sistemarsi l’auto. Devi solo svegliarti al mattino, andare
dove vuoi andare, e pagare il tutto. Avendo risorse economiche limitate,
ovviamente, devo rinunciare a diversi di questi comfort per prolungare la mia
esperienza americana, almeno del quanto che voglio. E cosi’, eccomi qui, dopo
quasi un mese dal mio arrivo a San Francisco, dopo oltre 2 settimane passate
fermo a West Sacramento per diverse peripezie legate al mezzo di trasporto
(tutt’ora parzialmente irrisolte: sono ancora proprietario di un camper pagato
bei soldi, tra costo e riparazioni, e che nessuno vuole comprare al prezzo per
cui lo posso mettere in vendita. Al momento, inutile dirlo, tra quei soldi e il
rimborso della sua assicurazione, mi manca della grana in tasca.) e dopo un
decoroso inizio di viaggio nel sud-ovest, fra Death Valley e Grand Canyon,
eccomi qui da Flagstaff, Arizona a raccontare invece della piu’ bella delle
giornate, del piu’ bello dei posti, visti finora.
Havasupai.
Per raggiungere la riserva indiana di Hualapai bisogna
uscire dalla Interstate 40 all’altezza di Selingman, luogo dove e’ stata
concepita la storica “Route 66” e dunque immancabilmente adornato di gadgets ed
icone relative alla strada. Ovviamente, ogni motel, ristorante, pub o negozio
di chiodi si chiama “Route 66”. La fantasia regna sovrana. Dopo Selingman, la
strada piega per la solita, semi-desertica distesa di erba gialla macchiata qua
e la da qualche arbusto verdognolo, regno di sparute mucche annoiate dal caldo
e dalla desolazione del paesaggio, e passaggio dell’immancabile ferrovia e dei
suoi lunghissimi treni merci. Mentre guido questa strada sono accaldato, stanco
e incazzato. Si perche’ la macchina, al solito, ha il suo problema temporaneo e
saltuario del “finestrino che non funziona”. Stavolta non mi si vuole chiudere.
Devo viaggiare col finestrino aperto, e fare le 70 miglia orarie col finestrino
giu’ non e’ proprio il massimo. E’ come avere una vela sopra il tettuccio.
Nulla rompe la monotonia del paesaggio. Rotoli d’erba secca – quelli che si
vedono nei film western – rollano sulla strada, dando ancor piu’ l’idea che la
terra e’ arida, desolata, perfida. Non c’e’ quasi nessuno in giro. Dopo una
deviazione non voluta fino a Peach Springs, dove compro una colazione “da
campo” a base di mini-ciambelle e cinnamon roll in un supermarket indiano,
volto a sinistra sulla BIA 18 (Bureau of Indian Affairs road), verso Hualapai
Hilltop. Quel che so e’ che dovrei arrivare ad un villaggio dove ottenere il
mio permesso per scendere nel canyon, parcheggiare la macchina poco oltre e passare
la notte li in parcheggio. Mi sbagliavo. Arrivo dopo un’ora abbondante –
sebbene semi-deserta la strada vanta un misero limite di 50 mph – e mi ritrovo
di fronte ad un semplice parcheggio. Affollato. Ma nessun villaggio. Domando ad
un ozioso indiano a quanto pare “custode” del posto, che mi dice che in realta’
il villaggio e’ a 8 miglia giu’ NEL canyon, e che qui si trova solo il
parcheggio dove lasciare la macchina ed iniziare il trek. Fantastico. Sono le
16.30, e non ho nulla da fare eccetto preparare lo zaino ed un po’ di cibo. Non
sono un maestro nell’ammazzare il tempo a dire il vero. Mi metto ad assemblare
lo zaino per il trek – 8 miglia fino a Supai, il villaggio, 10 fino a Havasu
falls, le cascate piu’ rinomate, 12 fino a Beaver falls, le ultime della lista
– e preparo della pasta, facendola raffreddare e mischiandola a del chili in
scatola. Cucino col mio fornelletto da campo in mezzo alle macchine del
parcheggio, posando lo scolapasta per terra e usando il cofano della macchina
come piano cottura. Condizioni igieniche da Sud Africa credo. Mi appronto anche
la cena – un delizioso manicaretto a base di surplus di pasta appena cotta ma
scondita (addirittura senza sale), e avanzi di pizza della mattina riscaldata
IN PENTOLA. Si, avete letto bene, in pentola. Non avendo un forno devo fare di
necessita’ virtu’, dunque la pentola e’ l’unico espediente che ho escogitato.
Funziona malissimo, perche’ la base si scotta da morire e arreca ustioni di
primo grado alle tue dita quando la agguanti, mentre la superficie con
formaggio e aggiunte varie, rimane pressoche’ fredda uguale. Non voglio
commentare lo stato del formaggio, che dovrebbe essere caldo e filante ma che
sembrava in realta’ un pezzo di plastica oleoso. Mi gusto la cena seduto sul
tailgate, ammirando il canyon calare nell’oscurita’ della sera e le colline
circostanti tingersi di arancione, e annotando sul mio bloc-notes “la meglio
cena”. Tutto sommato non perdo mai il senso dell’umorismo, me ne do atto e ne
sono orgoglioso.
Il mattino dopo alle 4.20 suona la sveglia, in macchina mia.
Iniziano i preparativi: sempre DENTRO la macchina, mi muovo qua e la in uno
stile che ricorda quello di un contorsionista e mi preparo un caffe’ (acqua
temp.ambiente, polvere Nescaffe’ solubile – che non e’ malvagia – 1 bustina di
dolcificante e creamer alla vaniglia, che da un tocco delizioso alla bevanda),
e faccio colazione con un barattolo di pesche in sciroppo e avanzi di tortillas
aperte da una settimana con burro d’arachidi. Credo la peggior colazione mai
fatta, per quanto mi riguarda. Almeno il burro d’arachidi resta sempre il burro
d’arachidi, lo amo. Con le poche calorie messe in pancia, esco dalla vettura
con la felpa addosso, mi lavo i denti in mezzo alla natura, faccio altrettanto
con i miei bisognini mattutini, e finisco di caricare lo zaino. Viaggio con
circa 15 chili di peso – fortunatamente stavolta ricordo in tempo di togliere
il fottuto teleobiettivo dalla borsa della reflex. Sono le 5.35 del mattino ed
il sole non e’ ancora sorto, quando mi metto in marcia. Camminare prima
dell’alba e’ un’esperienza che consiglio a tutti: si assapora vera calma, pace,
quiete. Non fa caldo, non si sentono rumori e schiamazzi eccetto uccellini che
cinguettano qua e la. La luna illumina la via. Poi i primi colori del giorno
tingono il paesaggio, che in una terra di canyon e’ surreale a dir poco. Mentre
cammino, le pareti da scure diventano chiare, e assumono i rossi, gli arancioni
e i gialli che si vedono durante il giorno. Il cielo e’ rosato. Mentre cammino
nella gola del canyon mi sembra di essere morto, di camminare verso il paradiso
– o il purgatorio, o l’inferno, che si voglia da lassu’. E’ irreale. Dopo poche
miglia son gia’ convinto che questa camminata sia una delle piu’ belle che
abbia mai fatto. E quando arrivo in un punto dove, fra le due pareti rosso
fuoco distanti una ventina di metri l’una dall’altra, cresce un solitario,
verdissimo albero, non posso far altro che togliermi lo zaino e scattare una
foto. Sembra finto. Sembra tutto cosi’ finto.
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Havasupai Canyon & Tree, early morning. Copyright Emanuele Canton |
Continuo la mia marcia – dico marcia perche’ credo di tenere
un ritmo invidiabile, ho superato diversi gruppi e pare che piu’ o meno stia
facendo i 6 km/h – fino a quando non raggiungo, dolorante ai talloni, il
villaggio di Supai. Ed ora la mia meraviglia cresce a dismisura. Non credevo
che nulla del genere fosse possibile: esiste una comunita’ di 600 persone,
nativi americani, che vive sulle spalle del torrente nelle profondita’ del
canyon, coltivando frutta e verdura, gestendo il crescente business turistico
che ruota attorno alle cascate, e operando una scuola, diversi posti dove i
turisti possono mangiare, un ufficio postale, una chiesa e addirittura una
stazione di polizia. Tutto questo in fondo ad un canyon dove l’unico modo per
arrivare e’ a cavallo, in elicottero o piu’ frequentemente, A PIEDI. Per me
tutto cio’ e’ incredibile. E’ come prendere Glenorchy, il paese dove ho
lavorato per 3 mesi in Nuova Zelanda, e metterlo in fondo ad un canyon.
Pazzesco. Cammino per le vie del villaggio con la bocca aperta, estasiato dalla
capacita’ e dalla tenacia che i locali dimostrano nel continuare a vivere qui
ogni giorno, conservando e prendendosi
cura del tesoro che si trova poco piu’ a valle sul torrente. Entro nell’ufficio
turistico ed ottengo il mio permesso. Pagato profumatamente (62$, in confronto
il pass annuo per tutti i parchi nazionali USA costa 80$), ma credo ci stia.
Assaporo gia’ cio’ che viene piu’ avanti. Cammino con crescente dolore a causa
dei talloni: ho comprato delle scarpe da trekking in NZ che anche in Nepal mi
hanno dato parecchie noie, specialmente dietro. Mi causano non so perche’
frizione ai talloni, rimuovendo la pelle e facendoli sanguinare. Camminare
cosi’ fa un male del demonio ad ogni dannato passo. Poi pero’ arrivo alle prime
cascate e mando a fanculo tutto quanto. Lascio lo zaino a terra, con
portafogli, cellulare e via dicendo, e corro qua e la a scattare foto. Corro
come una gazzella su e giu’ dalle rocce per ottenere gli angoli migliori. Sono
a Navajo falls, e lo spettacolo e’ appena cominciato. Due cascate – upper &
lower – si susseguono ad un centinaio di metri l’una dall’altra. In mezzo, una
serie di pozze con acqua cristallina e un fondo verde dovuto alla vegetazione
che cresce spontanea. Non un verde scuro, melmoso, da Brenta, ma un verde quasi
evidenziatore, brillante, puro. Fa venire voglia di berla, quell’acqua. E le
cascate, sono magnifiche. Viste da un viewpoint poco oltre sul sentiero, le
upper, le lower e tutte le piscine in mezzo, sono qualcosa da quadro, con le
pareti del canyon che fanno da cornice. Io sono gia’ estasiato. La macchinetta
scatta di continuo (a fine giornata, avro’ circa 85 foto. In NZ ne avevo
scattate 550 in 5 mesi.) Proseguo solo perche’ intendo accaparrarmi una
posizione astuta in campeggio: vorre evitare siti vicino alle toilets, o
completamente al sole, o vicino al solito cavallo di passaggio. Cosi’, cammino
spedito fino a che pero’ non raggiungo Havasu falls, e non posso non fermarmi.
Queste sono le cascate copertina del posto, quelle piu’ sceniche, che sgorgano
per una trentina di metri dalle rosse pareti del canyon e si tuffano in una
pozza di acqua color acqua (o come lo chiamo io, blu detersivo). Un dipinto in
movimento. Approfitto per qualche scatto finche’ le cascate non sono preda
della solita folla di balneanti – anche se c’e’ un divieto di balneare nella
pozza, anche a causa delle correnti di risucchio – che sicuramente piu’ tardi
si manifestera’. Sono appena le 8.15 del mattino tutto sommato. Vorrei restare
qui per sempre invece. Ci sono alberi qui sotto, una piccola radura poco oltre
la cascata. Il torrente scivola giu’ nella consueta serie di pozze e piscine,
dagli azzuri ai gialli di quelle meno profonde, melmose con quella sabbia in
cui e’ piacevole scivolare dentro. Ci sono alcuni tavoli da picnic sparsi qua e
la, alcuni con le gambe immerse nell’acqua. Quanto darei per avere
dell’insalata di riso di mia madre, porzione extralarge, della limonata fresca,
magari un po’ di tiramisu’ (sempre di mia madre, sempre porzione extralarge) e
sedermi li, piedi in ammollo, a gustarmi all’ombra tutto quel ben di Dio, ai
piedi di una delle cascate piu’ fotografate al mondo?! Non lo so nemmeno io
quanto darei. Di sicuro 62$.
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Havasu falls (sorry, no tripod!). Copyright Emanuele Canton |
Giunto al campeggio, pochi passi piu’ avanti, vedo con
stupore che c’e’ ancora molta gente, e che e’ piu’ grande di quanto mi
aspettassi. Pare vi siano 200 siti, ovvero una capacita’ che, ponendo anche 5
persone a sito, ammonterebbe tranquillamente a 1000 persone. Per quanto mi
riguarda, sono un’enormita’. In un posto come questo non dovrebbero starci piu’
di 100 persone al giorno. Mi secca gia’ il dover condividere il campeggio – il
piu’ bello in cui sia mai stato, chiuso nel canyon e all’ombra della
vegetazione lussureggiante, costeggiato dal torrente – con tante, troppe altre
persone, inclusa melmaglia giovane che gioca a freesby o cavalca lettini
gonfiabili schiamazzando qua e la. Gli sparerei. Prima al lettino, e poi a
loro. Scelgo il mio sito, pianto la tenda – anzi, la ancoro a 4 pietre – e me
ne vado con la sola borsa della reflex e qualche effetto personale, diretto a
Beaver falls. Arrivo alla cascata successiva, Mooney falls, la piu’ alta. La si
vede con lo stesso effetto con cui si vede il Big Ben uscendo dalla fermata
della metro a Londra: mentre fai degli scalini e ti si prospetta un buco nella
parete, subito riempito dalla sagoma e dalla massiccia forma della cascata in
se’. Ammaliante. Non devo pero’ farmi ammaliare troppo perche’ per scendere,
mentre cerco invano il sentiero, bisogna invece calarsi giu’ per una
cinquantina di metri circa per una parete esposta, aggrappandosi al solito
catenaccio e scendendo un paio di scale anche. Cosa che faccio piu’ che
volentieri, con la borsa a penzoloni, ma con stile ineccepibile. Americani
stupiti e punteggio sullo 0 a 1 per me. Una volta alla base della cascata
faccio qualche altra foto, guardo con ammirazione la tenda che qualche idiota
ha sistemato perfettamente alla bocca della cascata (che fosse una piazzola ad
ogni effetto? Bah!), e mi rimetto sulle tracce del sentiero. Qualcuno mi dice
che e’ infido, ha un sacco di deviazioni e perdi tempo a cercare la via
corretta. Puo’ sembrare una sfida che non dovrei esser pronto ad accettare,
alle 10, col sole perfettamente in testa, e con i talloni presi in quel modo.
Il tutto pero’ mi suona come avventuroso, dunque mi metto in marcia deciso a
vedere anche le ultime cascate, Beaver falls. Intuisco subito perche’ il
sentiero sia infido: ogni 50 metri c’e’ un bivio o un trivio (esiste questa
parola?) di strade che per quanto mi riguarda portano tutte allo stesso posto
ma che ovviamente, una volta imboccata la prima, portano sempre nel posto
sbagliato. Perdo un po’ di tempo a rintracciare i miei passi, scendo al
torrente troppe volte senza volerlo, fino a quado arrivo ad un guado che non
posso affrontare con gli scarponi addosso. Male, molto male. Togliermi gli
scarponi e’ una cosa di per se’ complicata, figuriamoci ora con le ferite ai
piedi. Li tengo legati molto stretti – del tipo che a volte mi bloccano la
circolazione saguigna – nel tentativo di bloccare anche i movimenti del piede
all’interno della scarpa, quindi slacciarli e toglierli senza arrecarmi un
dolore poco incline alla bestemmia mi riesce assai difficile. Ecco quindi la
grande idea: realizzo mentre scruto il terreno la bellezza della pozza d’acqua che
ho di fronte. Per meta’ all’ombra e meta’ al sole, con una cascatella al centro
e due rivoli d’acqua piu’ lenta ai lati, offre acqua veloce e profonda o piu’
lenta e bassa. L’ideale per sguazzarci un po’. E non importa se rimembro con
imprecazione annessa che ho lasciato il costume nello zaino: balneero’ in
mutande. In pochi secondi sono bello che in boxer bianchi, un autoscatto di
rito ed eccomi a tuffarmi in acqua come un cagnetto alla caccia del solito
bastoncino. La sensazione e’ celestiale. La temperatura dell’acqua e’ manco a
dirlo fresca, ma non tanto da far male. Almeno, dopo un po’. Mi godo una breve
nuotata nella corrente, poi mi trasferisco a far “sabbiature” nell’acqua lenta,
per infine sdraiarmi sul letto del torrente, la parte poco profonda, e
sonnecchiare sulla corrente per un po’, contemplando la canyon-visione di cui
posso godere. Magnifico, superlativo. E’ la pace dei sensi. Faccio anche, per
dirla con Kevin McAllister in “Mamma ho riperso l’aereo”, un tuffo acrobatico.
Quello ci sta sempre.
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L'autore prima di una sguazzata. Copyright Emanuele Canton |
Dopo un buon tre quarti d’ora in ammollo, faccio su armi e
bagagli e li porto dall’altra parte del torrente, dove mi stendo al sole per un
po’, asciugandomi, e riprendo poi la marcia. Ad un certo punto distolgo lo
sguardo dal sentiero – cammino guardando in basso, non posso permettermi di
alzare lo sguardo un secondo altrimenti rischierei come minimo di finire a
ortiche – e realizzo che sono completamente immerso nel canyon. Sono in un
punto leggermente rialzato del sentiero, da dove posso dominare il paesaggio
circostante, e davanti a me si vede solo una lunga distesa di verde e le rosse
mura. Sembra un paesaggio d’altri tempi, sembra di essere tornati indietro alla
preistoria. Non avevo mai visto nulla di simile. Scatto una foto commemorativa.
.jpg) |
Havasupai Canyon towards Beaver falls. Copyright Emanuele Canton |
Continuando a scendere incontro dei signori che mi demoralizzano: pare che
anche col mio passo prima di un ora non arrivi alle cascate. Cio’ mi lascia
quantomai deluso, contavo di essere attorno ai ¾ della strada totale ormai. La
soluzione alternativa mi viene offerta poco dopo dal caso: butto l’occhio al
torrente poco piu’ in basso e scorgo un anfratto, difficile da raggiungere, di
rara bellezza. Scalo qualche grossa roccia e guadagno la riva: in questo
piccolo angolo di paradiso dove ovviamente non c’e’ traccia d’essere umano,
posso godere di una mini spiaggia personale, roccia formato lettino, multiple
cascatelle, piscine private. Evidentemente era destino che la giornata si
passasse prevalentemente a balneare. E cosi’, di nuovo, via i pantaloni e via
la maglietta, sono ancora in acqua. Ho un sorriso che illumina le rocce. Sono
cosi’ contento che, mentre poso il sedere su morbida sabbia melmosa (la
sensazione e’ piacevole, sia chiaro!) penso che ora come ora non vorrei
sostituire la mia esistenza con quella di nessun altro. Sono contento cosi’,
come sto ora, per quello che sto facendo ora. Mi sento felice, sento che sto
vivendo attimi che raramente capitano nella vita, quegli attimi spensierati,
dove non ci sono soldi, lavoro, relazioni personali, ansie. No, c’e’ solo il
godersi la propria esistenza. In questo caso, fatta di acqua fresca e panorami
indimenticabili. Come del resto so gia’ sara’ questa intera giornata.
Tornato sui miei passi, rientro al campeggio. Sulla strada
mi ero intrattenuto con un simpatico vecchietto da Phoenix, AZ, il quale dopo
aver sentito che stavo morendo di fame (bugia) mi aveva offerto un intero
sacchetto di “trail mix”, quei mix energetici di nuts varie, uvette e M&M’s
di cui io vado ghiotto. Dopo essermene cibato lungo il sentiero, una volta in
campeggio addento anche un po’ di pasta. Non so se sia decoroso chiamarla
pasta: come detto, e’ stata condita con chili, il quale pero’ ha la tendenza ad
“essiccarsi” dopo aperto, specialmente quelli in barattolo. La mia pasta e’
quindi un ammasso informe con qualche macchia rossa (ex-sugo del chili) e
diversi fagioli, punto. E’ semifredda, e il chili freddo fa abbastanza schifo.
Purtroppo, questo passa in convento – questo avevo in frighetto ieri sera piu’
che altro! – e questo mangio. Chiedo in prestito una forchetta, anch’essa
giustamente dimenticata in macchina, e sono pronto a pranzare.
Sono ormai quasi le 15, ed ho fatto praticamente tutto. La
mia tenda sta volando via perche’ il vento che spira e’ sufficiente a
disancorarla dalle rocce di supporto che avevo posizionato. Io non sono uno che
fa dell’ammazzare il tempo il suo business, come qualcuno avra’ intuito, quindi
decido di impacchettare tutto e dirigermi verso la macchina. Conto di tornare
su in 3 orette abbondanti. Ora: i talloni si, mi fanno male. Le gambe
potrebbero essere discretamente stanche dopo 23 chilometri gia’ percorsi. Le
spalle, idem. Cio’ non conta, conta solo che ormai ho deciso che non voglio
piu’ perder tempo qui. Non c’e’ piu’ spazio per la balneazione, il cibo e’ quel
che e’, non ho trovato gentaglia con cui passare del tempo piu’ lungo di 15
minuti, quindi non ho motivi per star giu’. E sia. In poco tempo smonto la
tenda e rifaccio lo zaino, riempio le due bottiglie d’acqua e sono di nuovo in
strada. Mi accorgo subito che non sara’ una passeggiata, ho un passo che sembra
quello di uno zoppo e i talloni mi stanno crocifiggendo. Il dado pero’ e’
tratto, e non si torna indietro. Ripasso per l’ultima volta le fantastiche
Havasu falls, le Navajo falls, ed il villaggio di Supai, dove ora la gente si
rintana a casa per le proprie faccende domestiche e solo pochi anziani
contadini rimangono nei campi a coltivare i loro prodotti. Cammino sulla sabbia
che rende i passi ancor piu’ lenti e pesanti, uscire dal canyon sara’ un’agonia.
Passo il villaggio, la breve foresta immediatamente adiacente, vengo seguito da
un paio di cavalli bradi. Entro nella gola del canyon che ormai non riceve gia’
piu’ i raggi del sole. Sono appena le 17.45. Nel mio procedere incerto,
frammentario, medito sul mio dolore. Perche’ ogni volta che cammino piu’ di 15
km con uno zaino pesante in spalla devo sperimentare tutti questi dolori?
Passino le spalle, ci sta che dopo tanto tempo con uno zaino cosi’ il fisico
ceda un po’. Ma i piedi.. sono la cosa essenziale. Ed io cos’ho? Le scarpe piu’
assassine del pianeta. Maledette bastarde. La suola e’Vibram, che e’ bene
perche’ resistente, ma e’ male perche’ e’ talmente resistente che sembra di
camminare con una lastra di legno come suola. Dopo un po’ che cammini su sassi
aguzzi, hai le basi delle dita che sono dure come il cemento armato. E poi, la
parte posteriore. Non so perche’ ma e’ tagliente, dev’esser fatta di vetri
rotti forse. Frizionando come normale che sia durante il cammino, tagliano la
pelle. Io ho provato a porvi rimedio applicandovi quegli adesivi ergonomici per
i talloni nella speranza che coprissero la parte tagliente e facessero spessore
contro il frizionamento. Vane speranze. Sono neanche a meta’ del percorso, il
tramonto che si avvicina, e sono gia’ k.o.. Ad un certo punto, mi fermo e mi
sdraio su una roccia. Nel canyon non c’e’ anima viva, solo io, lucertole e
qualche corvaccio. Mentre contemplo il cielo, un avvoltoio svolazza sopra di
me. Malefico pennuto pernicioso. “Non ti nutrirai delle mie carni!”, lo
ammonisco. Stavolta ti e’ andata male. E spronato dall’oscura visione pennuta,
mi rimetto in moto, dolorante. Piu’ passano i minuti, piu’ il dolore aumenta,
piu’ aumenta anche la fame. Ho i miraggi di mia madre che mi chiede cosa vorrei
da mangiare. Ed io, “Insalata di riso e abbondante porzione di tiramisu’ come
dessert grazie!”. Invece mi accontento di 3 mini-ciambelle tirate fuori dallo
zaino. Saranno sufficienti per prosegure fino in cima, con tutta la merda
artificiale di cui saranno fatte. Attorno alle 19, i colori del tramonto
prendono corpo ed illuminano le colline e le mesa piu’ distanti. Sono uno
spettacolo. Vorrei avere il tempo e le forze per sedermi e fotografare, ma sono
esausto. Mi impongo pero’ un’ultimo sforzo, colossale, e dopo essermi sfilato
ancora una volta lo zaino, estraggo la reflex e ZAC!, un’ultimo scatto.
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L'ultimo scatto del giorno, uscendo dal canyon. Copyright Emanuele Canton |
Le mesa
illuminate dagli ultimi bagliori del giorno sembrano dorate, puntellate del
verde della sparuta vegetazione del deserto. Io sono ancora ben lontano dalla
meta invece, devo lasciar stare gli spettacoli della natura e pensare alla
pellaccia. Cammino aggrappandomi al mio hiking stick come uno zoppo. Arrivo ad
un bivio che mi indica la distanza dal parcheggio: 1,5 miglia – piu’ o meno 2,4
km. In salita. Nella valle, all’uscita del canyon, non c’e’ anima viva eccetto
me e 3-4 cavalli selvatici al pascolo. Non si sente nessun rumore tranne quello
del cartello metallico che indica la strada, cartello che cigola sinistramente
sotto le sferzate del vento. Clima surreale, spettrale. I fantasmi del canyon
mi sono alle costole. Affretto la mia risalita, anche se in caso estremo so di
poter contare sulla mia headlight per risalire nelle tenebre. Ora si fa molto,
molto dura. La salita distrugge cio’ che resta delle gambe, infidi scalini
tagliano ogni resistenza. Mi fermo spesso ad ansimare. Vedo una figura umana
far capolino dallo sperone di roccia dove e’ situato il parcheggio, centinaia
di metri piu’ in alto. Tra me e me lo imploro di vegliare su di me, nel caso ad
un certo punto stramazzi al suolo esausto. E continuo. Continuo. Passo un
cavallo che immagino (con bave alla bocca) tramutarsi in generose bistecche ben
rosolate sulla griglia e condite con sale e pepe. Il cavallo fiuta il pensiero
e si defila. Cavallo poco altruista. Ormai il sole e’ tramontato, ed le nuvole
si tingono di arancione, e poi di rosso, segno che ormai l’oscurita’ e’
prossima. I miei occhi si adattano all’assenza di luce. Cammino in quei momenti
intermedi fra il calar del sole ed il brillar della luna. Eppure, nonostante
cio’, nonostante il vento, sudo da matti. E’ una sensazione stranissima. Magari
sto per svenire, o per collassare. E’ che ormai manca (quasi) poco. Vedo la
cima. Mancano pochi tornanti e ci sono. Un ultimo sforzo. Credo mi sentano
sbuffare di fatica fin dal parcheggio. E quando magicamente, finalmente, poso
il mio ultimo passo fuori dal sentiero, esulto di gioia per la fine
dell’agonia. Ancora qualche traballante passo verso la macchina e posso
liberarmi dello zaino, delle scarpe. Uno sguardo ai piedi: peggio di quanto
pensassi. Sono in carne viva su entrambi. I segni dello zaino sulle spalle sono
come solchi di un aratro sui campi. Sono affamato come un cane selvatico.
Appronto il mio fornelletto da campo e mi scaldo i rimasugli della mia gourmet-pasta
al chili, aggiungendo almeno del buon sugo per renderla piu’ appetibile. Mangio
seduto sulla coperta, nel tailgate del mio truck, ad ammirare ormai solo le
sagome scure del canyon in cui fino a poco fa ero immerso. Una notte la sotto
mi sa tanto da fantasmi del passato, spiriti indiani e vecchie leggende. Non so
se sarei pronto ad un’esperienza simile. Per fortuna, anche se la cena non e’
il top, ora sono al sicuro, ora l’agonia e’ finita, e posso concentrarmi sulle
cose positive della giornata. Sono tante, e non andranno dimenticate. Perche’
se da oggi qualcuno mi chiedera’ come immagino il Paradiso, rispondero’ “Lo
immagino come un canyon, con alte, irregolari pareti di roccia rossa, un
limpido torrente blu cristallino che scorre sul fondo, e tanti alberi
tutt’attorno, ad offrire protezione e frutti. Lo immagino rosso, blu e verde,
il Paradiso. Come Havasupai”.
PS. Non ho pubblicato molte foto, e nemmeno belle. Ne ho solo prese alcune esemplificative, di fretta. Le piu' belle - al solito - le tengo per me, per il momento. Mi spiace! Spero solo rendano una vaga idea di cio' che sta passando davanti ai miei occhi!