martedì 28 maggio 2013

Deep South recap!


Com’e’ che dice il detto, meglio tardi che mai se non ricordo male..

Ed e’ con questo spirito che, in una rest area a poche miglia a sud di Tampa, Florida, mi appresto a descrivere un po’ l’ultimo periodo. Piu’ che descrivere l’ultimo periodo pero’ – quantomeno dal punto di vista di cose fatte, osservate e vissute – mi limitero’ perlopiu’ a mettere per iscritto alcuni pensieri che mi son frullati per la testa. E’ un road trip, e le ore passate in solitaria in macchina sono molte. Pensavo che il Texas fosse enorme e che, fino all’Alaska, sarei stato a cavallo per un po’. Ho scoperto che la Florida non scherza affatto: in un giorno, contando pero’ diversi stop, son riuscito a fare solo da Pensacola a Tampa. Scarsetto. Comunque, queste ore di solitarie cavalcate su highway interminabili mi danno l’occasione di radunare pensieri che altrimenti perderei per strada. Un lato positivo c’e’ sempre. Come ho preso a fare ultimamente poi, schematizzero’ i punti, di modo da essere esplicito e possibilmente meno caotico.

Non diro’ quasi nulla dei posti visti perche’ quelli appartengono a tante foto e a tanti altri racconti. Una cosa per volta. Un giorno ci si rivedra’, hehe!

1.       Una volta ancora, anche in una cazzo di rest area a sud della fottuta Tampa, Florida, in un posto dove dovrebbero esserci solo camionisti e guidatori assonnati, mi torna in mente il punto uno. Eccolo, senza fronzoli e giri di parole, nella versione v.m.18: o ho mangiato qualcosa di strano (tipo un burrito riempito di afrodisiaci) o sono in calore, non so. Non so nemmeno quale sia la piu’ probabile ad essere onesto. Sto diventando incorreggibile. I miei standard si sono abbassati clamorosamente e ormai ogni (beh ogni, QUASI ogni) tipa diventa un assalto. Credo chiederei di uscire anche ad un procione. Ogni scusa e’ buona per attaccar bottone. Anche una meschinita’ come l’andare a chiedere apposta a due tre ragazze se vogliono una foto sotto quella o quell’altra targhetta, diventa normale e tollerabile. Ogni giorno e’ “alla carica”. Si, certo, talvolta e’ quello lo spirito che ci vuole, quello “dal procione a Miss Universo c’e’ un sacco di roba in mezzo: spara nel mucchio e qualcosa salta fuori”. Si, ci vuole anche questo talvolta. Ma ogni giorno ti fa meditare il suicidio dopo un po’. Una piazzola di sosta sembra una sfilata di moda vista dai miei occhi. Credo faro’ un bagno in mezzo agli alligatori coperto di interiora di pollo giu’ nelle Everglades. Anzi, dopo Miami. Son sicuro che li ci sara’ la fine del mondo. PS. Pare proprio che in realta’ le piazzole di sosta siano un gran bel posto. Mentre scrivo al pc dalla mia panchina, vedo una bionda che a distanza di 60 metri sembra una bomba, camminare con un vestitino da cui mi pare di intravedere un costume rosa – solo la parte sotto del costume – a piedi scalzi verso la macchina. Ci sale e rimane ferma per un po’. Le lancio qualche sguardo. Mi giro. Dopo un po’ sento una porta aprirsi e poi chiudersi. “Fatta” penso, sta venendo qua. Ha capito i miei sguardi evidentemente. Mi giro, e la vedo accendere la macchina e partire con il tipo che era appena montato. What da fuck... inutile dire che e’ stato il momento piu’ triste della giornata.

2.       Il punto due e’ corollario del punto uno: mai come in questi giorni mi sto accorgendo che mi manca moltissimo una ragazza. Dico, una stabile. Una seria. Nonostante non abbia rimorsi per cio’ che sto facendo, per come lo sto facendo, nonostante non baratterei mai un periodo a casa con una ragazza contro il tempo che sto vivendo qui all’avventura, sento che questa sarebbe la ciliegina sulla torta. E se quella ciliegina e’ made in USA, beh.. piacere di avervi conosciuti! La mia stima per le ragazze locali ormai e’ a livelli che superano lo spazio conosciuto all’uomo.

3.       Il punto tre, ancora (chi e’ frocio cambi blog mi dispiace per voi), e’ legato ai due precedenti. A N’Awlins (New Orleans, d’ora in poi NOLA), scelto un risto-bar per cena, entro con degli amici. Vedo – non mento – almeno 5 tavoli composti da almeno 4-5 SOLE RAGAZZE. Ok, no big deal direte, vero? Bene. Trovatemi un posto cosi’ a casa che non sia un locale dove ci sia un addio al nubilato. E dove le 4-5 in questione non includano 3 o 4 procioni. Poi ne riparliamo. Io avevo le lacrime agli occhi. Era un misto di invidia, commozione e tristezza. A fine serata avevo il torcicollo a forza di guardare in giro. Ovviamente non stavo guardando negli occhi i miei commensali, ovviamente.

4.       Ultimo punto legato ai suddetti argomenti. Se continuassi ulteriormente diventerei morboso, no? (Immagino ci sia gente che travolta da tutto quanto detto sopra al momento attuale stara’ leggendo il blog di Suor Germana) Il punto 4 e’ la messa per iscritto di un’idea delle mie che ho avuto mentre guidavo. Stando a qualsiasi maschio americano che ho conosciuto finora, dovrebbe aprirmi le porte del paradiso tipo (o tramite la strada che ho in mente io o tramite una o piu’ coltellate da altri maschi). Acquistero’ una maglietta bianca su cui faro’ stampare davanti “ITALIAN & SINGLE” e dietro “FREE RENT FOR 1 NIGHT!!”. Geniale ahn?! Hehe. Ebbene, si sa da film tipo “American Pie” ed e’ una delle cose piu’ Stiffler che si siano mai sentite forse. Pero’ boh, il mio sesto senso mi dice che in questo paese, nulla e’ troppo stupido. Cioe’, e’ vero, un dato di fatto. Se al supermercato ci sono cartelli con scritte le istruzioni su cosa mettere prima e cosa dopo nella busta della spesa, nulla e’ troppo stupido. Mal che vada faccio fare due risate a qualcuno, e una risata me la faccio anch’io. Ridere fa bene alla salute, ragazzi miei.

5.       Parliamo di cose normali, ora. NOLA mi e’ piaciuta troppo, ha lasciato un ricordo indelebile in me. Indelebile come il tatuaggio che ormai ho deciso mi faro’ fare – piu’ avanti, magari nel Dakota o su a S.Francisco, a fine viaggio – il fleur-de-lis. Che se qualcuno obiettera’ ricordare un po’ troppo il nemico francese, dopo esserci beccato un cartone sul muso si vedra’ spiegare che il fiore e’ simbolo di NOLA nonche’ logo dei Saints. E quello non si tocca. Ma NOLA non e’ solo fiorellini, jazz, battone dall’alba al tramonto, gente che gira con spade da 40 cm in mano, tossici, barboni, ancora jazz, cibo cajun, e il grande Mississippi. NOLA e’ anche, per me, il profumo dei gelsomini a fine maggio. Giravo per le strade in uno stato di semi-incoscenza talvolta, annichilito dal gentile profumo respirato. Mi sembrava di essere a casa, in fiorera, quando ero bambino, per un momento. E’ stato bello, per quanto breve.

6.       A proposito di odori e affini. Volete sapere il posto che piu’ mi ha ricordato casa finora? La Louisiana. Perche’? Perche’ e’ una fottuta palude come casa. Umido come il demonio umido. Nebbioso come la Padania di merda. Caldo d’estate e freddo d’inverno. L’odore poi e’ lo stesso, identico. Passare un ponte sopra una palude infestata di alligatori e guidare tra Grantorto e Grisignano in ottobre, l’odore respirato e’ identico. Unica cosa: la Louisiana e’ molto piu’ interessante. Le paludi sono belle, ci sono un sacco di uccelli, c’e’ NOLA, ed e’ pieno di alligatori. In alcune parish, gli alligatori sono piu’ degli uomini! Ah, e qui se piove un po’ non c’e’ rischio alluvione come a casa. Anche questo e’ un’aspetto positivo.

7.       In un solo giorno ho guidato attraverso 4 stati: Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida. Non e’ spettacolare?! Fa impressione!

8.       Cibo: ho mangiato del seafood a NOLA, calamari, ostriche, pescegatto e gamberetti. Si, quelli di Bubba Gump! Ovviamente, tutto fritto, che discorsi. Quando Boe (Simpson) friggeva l’intero vassoio e il bambino mangiava il tappo di una bottiglia di vetro, non si discostava troppo dal vero! Ad ogni modo, apprezzato. Apprezzata la italian “muffaletta”, ovvero un panino con prosciutto, pastrami, salamino, cheddar, swiss cheese, e olive salad, tipico di NOLA, anche se italiano quanto la regina dello Zimbabwe. Delizioso, fuori dal mondo, il gumbo. Il nome ricorda fango vero? E gli assomiglia anche. Ma questa brodaglia di pesce con gamberetti, gusci vari e granchio, e’ fantastica. Se mi servi in tavola una scodella extra-large di gumbo, una di clam clam chowder e un po’ di pane all’aglio da inzuppare, mi rendi un uomo delice.

9.       Detto cio’, i contro del cibo locale. Anzi, i contro della mia alimentazione. Produzione brufoli aumentata del 300%. So che l’immagine fa schifo, ma sono un cronista oltre che backpacker, e devo raccontare la verita’, non menzogne. E questa e’ la scottante verita’. Ora, torniamo a quando ho catturato un coccodrillo di 6 metri a mani nude. Hahaha. Dicevo, il dato e’ allarmante. E riflette la mia dieta: quando mangio cio’ che cucino io, eccetto le insalate, la frutta e qualche pasta, mangio comunque merda. I raviolini in barattolo da 98cents ormai sono come fratelli, il chili e’ onnipresente, i wursterl hanno piu’ conservanti e roba varia di un’azienda chimica. Le carote credo siano colorate d’arancione artificialmente. Su cosa possa aver dentro la carne scadente che compro ho chiare idee (procione, colombo, nutria..) Quando mangio fuori la musica non e’ diversissima. Mi sono buttato alla scoperta di nuove catena alla ricerca dell’hamburger perfetto (o del piu’ mortale), e sto mangiando un hamburger qua e la. Finora vince WHATABURGER con il suo BBQ cheddar burger. Fantastico, grande, ottima salsa e cipolle cotte a puntino. Il mio fisico pero’ ne risente. Oltre a brufoli (non tanto sul viso, quanto in posti impensabili – come un polpaccio - , dove di solito non crescono, sintomo che ne stai mangiando di ogni), ho perso notevolemente tono muscolare, e mi sento in forma quanto mio cugino. Lo chiamero’ GL, per mantenere la sua privacy! J

 
Credo di aver finito. Anche perche’ mi sarei anche rotto le scatole di scrivere. Sono senza maglietta in mezzo a orde di moscerini della Florida. Ah, e sono anche in compagnia di uno scroiattolo, di qualche uccello fracassone, e di un sacco di formiche. Queste sono delle rompicazzo inimmaginabili. Mi hanno dato il benvenuto in Louisiana mordendomi ovunque. Ora ho la zampa destra che sembra l’ala di un pollo al supermercato.
Osservando lo scroiattolo scavare per terra e ramenare nel terreno spero si stia nutrendo di quelle formiche bastarde, anche se dubito che gli scroiattoli si nutrano di formiche.
Beh, saluti dalla Florida. Il sole tramonta su un cielo rigato da qualche strisciolina di nuvole, che accendono l’orizzonte variando l’altrimenti monotonia del blu. Una tiepida notte in Florida si avvicina per me, ed e’ quindi ora di tornare a rinchiudersi nel truck per la notte. Truck che per la cronaca ha ripreso a malfunzionare. Speriamo bene. G’night!

Integrazione: il giorno dopo e' diventato uno dei giorni piu' belli del viaggio. Sono arrivato nelle Everglades finalmente, ed oltre ad aver visto alligatori, averne toccato uno (selvaggio, dico) sulla coda, aver catturato e tenuto in mano una tartaruga azzannatrice, dopo aver visto miliardi di uccelli e di pesci diversi (compreso il Florida Gar!), finalmente sono tornato back to the wild!
Ma l'highlight del giorno e' stata la doccia. Dopo 3 giorni di sudore, non ce la facevo piu', ero piu' appiccicoso di un lecca-lecca usato. Non posso usare la mia doccia portatile qui in mezzo a tutti, e decido di provare una provvidenziale area per camionisti dove il benzinaio offre anche docce. Domando quanto vengono - stupidamente pensando potessero essere gratis se facevo benzia anche. 12$, la risposta. WTF???!! No grazie, "un po'" troppo care per me mi spiace. E mi avventuro fuori. Passo davanti al bagno. Lo vedo aperto. Entro, e c'e' una doccia. Apro l'acqua, e funziona! Idea malsana. In un baleno sono in macchina a racimolare tutti i vestiti e i bagnoschiuma e quant'altro necessari per la doccia. Impacchetto tutto in zaino e balzo dentro al bagno. Sono dentro. Cerco di fare il piu' veloce possibile, mi cago addosso al pensiero della SWAT che entra a fucili spianati per catturare me, il fellone. La doccia piu' veloce ma anche la piu' gratificante del secolo. Fredda che piu' fredda non si puo'. La mia pella torna a respirare. Mi rivesto in poco tempo, esco con sguardo piantato a terra, senza guardarmi in giro. Tiro tutto in macchina e me la filo via. Nessuna sirena della polizia, fantastico!
Ce l'ho fatta!
Questo ha reso la mia giornata - un risparmio di 12$ signori! - una gran giornata. Per un backpacker questi son giorni da ricordare.

lunedì 20 maggio 2013

Road Trip USA, SouthWest - Some more pictures

Road to Paradise. Exiting Mono Lake, facing Yosemite heights, California. Copyright Emanuele Canton, 2013

One heck of a road. Death Valley NP, California. Copyright Emanuele Canton, 2013

The Palace at Mesa Verde NP, Colorado. Copyright Emanuele Canton, 2013

Big thunderstorm approaching. Big Bend NP, Texas. Copyright Emanuele Canton, 2013

Historic Alamo, San Antonio, Texas, where in 1836 a handful of brave Texans gave their lives fighting the Mexicans for indipendency. Copyright Emanuele Canton, 2013

Hamilton Pool, Texas. Copyright Emanuele Canton, 2013

Texas State Capitol, Austin, Texas. Copyright Emanuele Canton, 2013

mercoledì 15 maggio 2013

Fotoriassunto: un mese di roadtrip USA

Visto il poco tempo a disposizione per scrivere, vi tengo aggiornati con qualche foto del mio ultimo mese. Ho cercato di riassumere un po' gli highlights, i posti piu' degni di nota, le cose piu' strane o eccitanti capitatemi. Le foto non sono le migliori, e non rendono molto in quanto sbiadite e sgranata dal ridimensionamento necessario (compressione).
Spero diano comunque un'idea di cosa sta passando per i miei occhi e per la mia testa.
Da Austin, Texas, tanti saluti da un Manu indaffarato, spesso stanco, spesso affamato, spesso sporco.. ma felice come una pasqua per quel che sta facendo!


Death Valley @ Badwater Basin. Copyright Emanuele Canton, 2013
Il punto geografico piu’ basso in Nord America. Vorrei dire anche il piu’ dannatamente caldo in quel giorno, il termometro segnava 105F. Scoprite voi cosa equivale in gradi. La Death Valley non e’ pero’ solo deserto: ci sono diverse montagne, e la vista da Wildrose peak o il tramonto a Dante’s view sono cose che non dimentichero’ facilmente.

Hermits Trail viewpoint @ Grand Canyon NP. Copyright Emanuele Canton, 2013
La Hermits e’ una delle piste meno battute a Grand Canyon, complice la lontananza dal villaggio e la “minor attrattivita’” rispetto a sentieri piu’ blasonati. Resta degno di nota comunque lo spettacolo che solo Grand Canyon sa offrire. Io appartengo a questo posto, lo sento mio. E’ uno di quei posti, nel paese, dove ogni volta che entro, mi sento a casa. Ormai conosco ogni angolo del villaggio, e ora che sono sceso giu’ al fiume, piu’ o meno anche ogni sentiero tra quelli principali. E’ meraviglioso laggiu’.

Mooney Falls before the climb down. Copyright Emanuele Canton, 2013
Spettacolare Mooney Falls nel canyon di Havasupai. Una mini-scalata di circa 25 metri conduce ai piedi della cascata. (Io continuavo invano a domandarmi dove fosse il sentiero: semplicemente non riuscivo a trovare una strada che mi conducesse giu’. Dopo aver provato a scendere attraverso rocce e sassi alla ben’e’ meglio, tornato sul sentiero chiedo ad una signora dove diavolo fosse la pista per scendere. “C’e’ la scala laggiu’”, mi veniva detto.)

Petrified Forest NP. Copyright Emanuele Canton, 2013
Petrified Forest, ho amato quell posto. Mi ha ricordato terribilmente il South Dakota. Sembravano le Badlands, in miniatura. Ma con un sacco di trochi d’albero pietrificati, ricchi di colori. La guida attraverso quelle Badlands al tramonto, il pasto solitario in mezzo alle praterie, e il ranger che mi scopre a dormire in macchina e mi scorta gentilmente all’uscita.. sono il resto dell’avventura.

Canyon de Chelly vista. Copyright Emanuele Canton, 2013
Riserva Navajo. Canyon de Chelly e’ detto fratello minore di Grand Canyon. In mio parere, molto minore. Ci arrivavo con aspettative molto superiori, e ne son rimasto un po’ deluso. Non e’ nemmeno comparabile a Grand Canyon a dire il vero. La cosa stupefacente, comunque, e’ che i Navajo tutt’oggi vivono nel fondo del canyon, e dai diversi viewpoint si possono intravedere le sparute fattorie, qualche jeep, i cavalli e le mucche che pascolano liberamente sulla vegetazione che cresce nei tratti ombreggiati. Diverso.

Monument Valley, a Mesa. Copyright Emanuele Canton, 2013
Non ho volute sprecare le mie foto migliori per questa location. Ovviamente, le tengo per occasioni migliori, mi spiace! Il posto comunque e’ degno di nota. Nonostante la strada non sia certo da guidare in 500 (ho avuto difficolta’ con il mio Explorer in certi punti), e nonostante sia gestita in maniera poco furba dai Navajo (credo siano un popolo di simpaticoni  tutto sommato, ma poco inclini al commercio “astuto”), il paesaggio e’ unico. O quasi. Famosissimo di sicuro. Il loop di 17 miglia giu’ nella valle e’ un must. Bisgona prepararsi a polvere rossa ovunque. (I vetri del mio Explorer ne sono, dopo 3 settimane, ancora incrostati, cosa che mi fornisce protezione la notte quando dormo in macchina!) Ingresso 5$. La Valley of the Gods, poco piu’ avanti, non e’ nemmeno un parco ed e’ gratuita, e praticamente deserta. Scegliere la seconda per evitare le folle di Monument Valley.

Nowhere’s shack. Copyright Emanuele Canton, 2013
L’America tante volte e’ anche questo: ghost-towns che una volta fiorirono (spesso e volentieri per qualche boom minerario o perche’ la ferrovia inizio’ a passare vicino alla citta’, come in questo caso) e che poi, inevitabilmente, si spopolarono. Ad oggi rimane qualche vecchio abitante – si contano sulle dita di una mano – e tanti cartelli del tipo “CLOSED” o “KEEP OUT”.

Carlsbad Caverns NP. Copyright Emanuele Canton, 2013
Uno dei sistemi di caverne piu’ belli al mondo, meglio conservati e sapientemente gestiti. C’e’ in programma una ricostruzione del sistema elettrico tramite installazione di luci a led per risparmiare energia e ridurre l’impatto sulle formazioni rocciose. Inoltre, li ho scoperto quanto l’americano voglia essere comodo: ho trovato toilettes perfettamente costruite e mantenute, con carta igienica e acqua corrente, un ascensore ed un chiosco dove poter fare colazione, il tutto giu’ in profondita’ nelle caverne. La cosa mi ha lasciato a bocca aperta. Oltre alla pigrizia dell’americano, mi ha fatto meravigliare di fronte all’ingegno umano (americano peraltro!) – non fatemi fare paragoni con le caverne italiane se no mi viene da imprecare. Se c’e’ un chiosco che vende biglietti all’ingresso mi sa che e’ tanto.

Gopher Snake, Guadalupe peak, Texas. Copyright Emanuele Canton, 2013
La creatura sulla quale stavo per camminare sopra durante la mia ascesa del picco piu’ alto del Texas. La visuale da lassu’, un chiaro 360’ su uno stato che assolutamente sto rivalutando. Non e’ la piatta distesa di allevamenti che si puo’ immaginare. Il Texas e’ molto altro.

Big Bend’s Chisos mountains, Big Bend NP, Texas. Copyright Emanuele Canton, 2013
Non ho potuto non innamorarmi di queste montagne che, per quanto piccole, offrono un ambiente cosi’ unico e raro che e’ impossibile non adorare. Terra desertica ma elevata a piu’ di 1600 metri d’altezza, regno di orsi neri e puma, ragni e serpenti, e panorami mozzafiato sul deserto circostante. Questo e’ il Chisos Basin. (ah, e free-wifi tutto attorno al visitor center, con prese per la corrente sul patio della lodge. Fenomenale)

Big Bend’s tarantula. Copyright Emanuele Canton, 2013
Quando ne ho schivata un ache mi ha attraversato la strada, ho pensato: “Cazzo che bestia! Doveva essere per forza una tarantola, cosi’ grande”. Avevo perso l’occasione di vederla da vicino, pero’. Dopo 500 metri, eccone un’altra che scorgo a bordo strada. Hanno le dimensioni di un criceto, non puoi non vederle, nere e pelose come sono sulla sabbia ocra del deserto. La seconda volta inchiodo e mi fermo. E’ enorme. Vederla “selvatica” e non rinchiusa in una teca fa un altro effetto. Prendo un bastoncino e provo a stimolarne un attacco. Niente. Non mostra nemmeno i denti o alza le zampe come le si vede fare in tv, nei documentari. Ne deduco che la cosa e’ fattibile.. e poso la mia mano a terra, mentre il ragno delicatamente cammina sopra di essa. Che esperienza! Le zampacce pelose della bestia sulla mia mano! Ho sudato freddo per qualche secondo, e poi.. puf, andata. Camminano dannatamente veloci, those lil’ bastards!

The Rio Grande, Big Bend NP, Texas. Copyright Emanuele Canton, 2013
Ecco da dove vengono I messicani. A sinistra, vedete gli USA. A destra il Messico. Io pensavo – da ignorante – anche dato il nome, che il Rio Grande fosse un fiume GRANDE. Ebbene, una volta giunto li, dopo aver letto cartelli su cartelli di stare attenti, ci sono i messicani, tenteranno di venderti roba, cio’ e’ illegale, se gli dai corda attraversano il fiume e cio’ e’ un crimine, guarda i tuoi effetti.. insomma, sembrava di entrare in territorio di guerra. Immaginavo un fiume enorme sorvegliato da pattuglie fluviali del Border Control e orde di messicani assiepati dalla parte opposta a mo’ di colonia di pinguini, pronti a gettarsi in acqua e tentare l’attraversamento. Arrivo e mi vedo sto fiumetto da due soldi. Rimango a bocca aperta. “AND THAT’S IT?!”, esclamo! Ebbene, si. Ad ogni modo il canyon e’ carino. Ci sono i messicani pero’, attenzione!

giovedì 2 maggio 2013

Havasupai - Il Paradiso terrestre esiste


E’ obiettivamente difficile condurre un’avventura del genere, on the road, ovvero vivere in un’auto adibita a casa-mobile, fare le escursioni che si vogliono fare, prendersi cura dei propri averi (biancheria e piatti inclusi), di se’ stessi (docce & alimentazione), e infine trovare anche il tempo di mantenere un blog. Posso dire una cosa? A me riesce impossibile. Per quanto, tanto, vorrei trovare ogni giorno il tempo di raccontare a familiari, parenti, amici che mi seguono da lontano tutto cio’ che mi accade e tutto cio’ che faccio, purtroppo le priorita’ sono altre: il viaggio di per se’. Non e’ come farsi 2 settimane in vacanza: li non devi prenderti cura di lavanderia, procacciamento e approntamento del cibo, di rifarsi il letto e sistemarsi l’auto. Devi solo svegliarti al mattino, andare dove vuoi andare, e pagare il tutto. Avendo risorse economiche limitate, ovviamente, devo rinunciare a diversi di questi comfort per prolungare la mia esperienza americana, almeno del quanto che voglio. E cosi’, eccomi qui, dopo quasi un mese dal mio arrivo a San Francisco, dopo oltre 2 settimane passate fermo a West Sacramento per diverse peripezie legate al mezzo di trasporto (tutt’ora parzialmente irrisolte: sono ancora proprietario di un camper pagato bei soldi, tra costo e riparazioni, e che nessuno vuole comprare al prezzo per cui lo posso mettere in vendita. Al momento, inutile dirlo, tra quei soldi e il rimborso della sua assicurazione, mi manca della grana in tasca.) e dopo un decoroso inizio di viaggio nel sud-ovest, fra Death Valley e Grand Canyon, eccomi qui da Flagstaff, Arizona a raccontare invece della piu’ bella delle giornate, del piu’ bello dei posti, visti finora.

Havasupai.

Per raggiungere la riserva indiana di Hualapai bisogna uscire dalla Interstate 40 all’altezza di Selingman, luogo dove e’ stata concepita la storica “Route 66” e dunque immancabilmente adornato di gadgets ed icone relative alla strada. Ovviamente, ogni motel, ristorante, pub o negozio di chiodi si chiama “Route 66”. La fantasia regna sovrana. Dopo Selingman, la strada piega per la solita, semi-desertica distesa di erba gialla macchiata qua e la da qualche arbusto verdognolo, regno di sparute mucche annoiate dal caldo e dalla desolazione del paesaggio, e passaggio dell’immancabile ferrovia e dei suoi lunghissimi treni merci. Mentre guido questa strada sono accaldato, stanco e incazzato. Si perche’ la macchina, al solito, ha il suo problema temporaneo e saltuario del “finestrino che non funziona”. Stavolta non mi si vuole chiudere. Devo viaggiare col finestrino aperto, e fare le 70 miglia orarie col finestrino giu’ non e’ proprio il massimo. E’ come avere una vela sopra il tettuccio. Nulla rompe la monotonia del paesaggio. Rotoli d’erba secca – quelli che si vedono nei film western – rollano sulla strada, dando ancor piu’ l’idea che la terra e’ arida, desolata, perfida. Non c’e’ quasi nessuno in giro. Dopo una deviazione non voluta fino a Peach Springs, dove compro una colazione “da campo” a base di mini-ciambelle e cinnamon roll in un supermarket indiano, volto a sinistra sulla BIA 18 (Bureau of Indian Affairs road), verso Hualapai Hilltop. Quel che so e’ che dovrei arrivare ad un villaggio dove ottenere il mio permesso per scendere nel canyon, parcheggiare la macchina poco oltre e passare la notte li in parcheggio. Mi sbagliavo. Arrivo dopo un’ora abbondante – sebbene semi-deserta la strada vanta un misero limite di 50 mph – e mi ritrovo di fronte ad un semplice parcheggio. Affollato. Ma nessun villaggio. Domando ad un ozioso indiano a quanto pare “custode” del posto, che mi dice che in realta’ il villaggio e’ a 8 miglia giu’ NEL canyon, e che qui si trova solo il parcheggio dove lasciare la macchina ed iniziare il trek. Fantastico. Sono le 16.30, e non ho nulla da fare eccetto preparare lo zaino ed un po’ di cibo. Non sono un maestro nell’ammazzare il tempo a dire il vero. Mi metto ad assemblare lo zaino per il trek – 8 miglia fino a Supai, il villaggio, 10 fino a Havasu falls, le cascate piu’ rinomate, 12 fino a Beaver falls, le ultime della lista – e preparo della pasta, facendola raffreddare e mischiandola a del chili in scatola. Cucino col mio fornelletto da campo in mezzo alle macchine del parcheggio, posando lo scolapasta per terra e usando il cofano della macchina come piano cottura. Condizioni igieniche da Sud Africa credo. Mi appronto anche la cena – un delizioso manicaretto a base di surplus di pasta appena cotta ma scondita (addirittura senza sale), e avanzi di pizza della mattina riscaldata IN PENTOLA. Si, avete letto bene, in pentola. Non avendo un forno devo fare di necessita’ virtu’, dunque la pentola e’ l’unico espediente che ho escogitato. Funziona malissimo, perche’ la base si scotta da morire e arreca ustioni di primo grado alle tue dita quando la agguanti, mentre la superficie con formaggio e aggiunte varie, rimane pressoche’ fredda uguale. Non voglio commentare lo stato del formaggio, che dovrebbe essere caldo e filante ma che sembrava in realta’ un pezzo di plastica oleoso. Mi gusto la cena seduto sul tailgate, ammirando il canyon calare nell’oscurita’ della sera e le colline circostanti tingersi di arancione, e annotando sul mio bloc-notes “la meglio cena”. Tutto sommato non perdo mai il senso dell’umorismo, me ne do atto e ne sono orgoglioso.

Il mattino dopo alle 4.20 suona la sveglia, in macchina mia. Iniziano i preparativi: sempre DENTRO la macchina, mi muovo qua e la in uno stile che ricorda quello di un contorsionista e mi preparo un caffe’ (acqua temp.ambiente, polvere Nescaffe’ solubile – che non e’ malvagia – 1 bustina di dolcificante e creamer alla vaniglia, che da un tocco delizioso alla bevanda), e faccio colazione con un barattolo di pesche in sciroppo e avanzi di tortillas aperte da una settimana con burro d’arachidi. Credo la peggior colazione mai fatta, per quanto mi riguarda. Almeno il burro d’arachidi resta sempre il burro d’arachidi, lo amo. Con le poche calorie messe in pancia, esco dalla vettura con la felpa addosso, mi lavo i denti in mezzo alla natura, faccio altrettanto con i miei bisognini mattutini, e finisco di caricare lo zaino. Viaggio con circa 15 chili di peso – fortunatamente stavolta ricordo in tempo di togliere il fottuto teleobiettivo dalla borsa della reflex. Sono le 5.35 del mattino ed il sole non e’ ancora sorto, quando mi metto in marcia. Camminare prima dell’alba e’ un’esperienza che consiglio a tutti: si assapora vera calma, pace, quiete. Non fa caldo, non si sentono rumori e schiamazzi eccetto uccellini che cinguettano qua e la. La luna illumina la via. Poi i primi colori del giorno tingono il paesaggio, che in una terra di canyon e’ surreale a dir poco. Mentre cammino, le pareti da scure diventano chiare, e assumono i rossi, gli arancioni e i gialli che si vedono durante il giorno. Il cielo e’ rosato. Mentre cammino nella gola del canyon mi sembra di essere morto, di camminare verso il paradiso – o il purgatorio, o l’inferno, che si voglia da lassu’. E’ irreale. Dopo poche miglia son gia’ convinto che questa camminata sia una delle piu’ belle che abbia mai fatto. E quando arrivo in un punto dove, fra le due pareti rosso fuoco distanti una ventina di metri l’una dall’altra, cresce un solitario, verdissimo albero, non posso far altro che togliermi lo zaino e scattare una foto. Sembra finto. Sembra tutto cosi’ finto.
Havasupai Canyon & Tree, early morning. Copyright Emanuele Canton
 
Continuo la mia marcia – dico marcia perche’ credo di tenere un ritmo invidiabile, ho superato diversi gruppi e pare che piu’ o meno stia facendo i 6 km/h – fino a quando non raggiungo, dolorante ai talloni, il villaggio di Supai. Ed ora la mia meraviglia cresce a dismisura. Non credevo che nulla del genere fosse possibile: esiste una comunita’ di 600 persone, nativi americani, che vive sulle spalle del torrente nelle profondita’ del canyon, coltivando frutta e verdura, gestendo il crescente business turistico che ruota attorno alle cascate, e operando una scuola, diversi posti dove i turisti possono mangiare, un ufficio postale, una chiesa e addirittura una stazione di polizia. Tutto questo in fondo ad un canyon dove l’unico modo per arrivare e’ a cavallo, in elicottero o piu’ frequentemente, A PIEDI. Per me tutto cio’ e’ incredibile. E’ come prendere Glenorchy, il paese dove ho lavorato per 3 mesi in Nuova Zelanda, e metterlo in fondo ad un canyon. Pazzesco. Cammino per le vie del villaggio con la bocca aperta, estasiato dalla capacita’ e dalla tenacia che i locali dimostrano nel continuare a vivere qui ogni giorno, conservando  e prendendosi cura del tesoro che si trova poco piu’ a valle sul torrente. Entro nell’ufficio turistico ed ottengo il mio permesso. Pagato profumatamente (62$, in confronto il pass annuo per tutti i parchi nazionali USA costa 80$), ma credo ci stia. Assaporo gia’ cio’ che viene piu’ avanti. Cammino con crescente dolore a causa dei talloni: ho comprato delle scarpe da trekking in NZ che anche in Nepal mi hanno dato parecchie noie, specialmente dietro. Mi causano non so perche’ frizione ai talloni, rimuovendo la pelle e facendoli sanguinare. Camminare cosi’ fa un male del demonio ad ogni dannato passo. Poi pero’ arrivo alle prime cascate e mando a fanculo tutto quanto. Lascio lo zaino a terra, con portafogli, cellulare e via dicendo, e corro qua e la a scattare foto. Corro come una gazzella su e giu’ dalle rocce per ottenere gli angoli migliori. Sono a Navajo falls, e lo spettacolo e’ appena cominciato. Due cascate – upper & lower – si susseguono ad un centinaio di metri l’una dall’altra. In mezzo, una serie di pozze con acqua cristallina e un fondo verde dovuto alla vegetazione che cresce spontanea. Non un verde scuro, melmoso, da Brenta, ma un verde quasi evidenziatore, brillante, puro. Fa venire voglia di berla, quell’acqua. E le cascate, sono magnifiche. Viste da un viewpoint poco oltre sul sentiero, le upper, le lower e tutte le piscine in mezzo, sono qualcosa da quadro, con le pareti del canyon che fanno da cornice. Io sono gia’ estasiato. La macchinetta scatta di continuo (a fine giornata, avro’ circa 85 foto. In NZ ne avevo scattate 550 in 5 mesi.) Proseguo solo perche’ intendo accaparrarmi una posizione astuta in campeggio: vorre evitare siti vicino alle toilets, o completamente al sole, o vicino al solito cavallo di passaggio. Cosi’, cammino spedito fino a che pero’ non raggiungo Havasu falls, e non posso non fermarmi. Queste sono le cascate copertina del posto, quelle piu’ sceniche, che sgorgano per una trentina di metri dalle rosse pareti del canyon e si tuffano in una pozza di acqua color acqua (o come lo chiamo io, blu detersivo). Un dipinto in movimento. Approfitto per qualche scatto finche’ le cascate non sono preda della solita folla di balneanti – anche se c’e’ un divieto di balneare nella pozza, anche a causa delle correnti di risucchio – che sicuramente piu’ tardi si manifestera’. Sono appena le 8.15 del mattino tutto sommato. Vorrei restare qui per sempre invece. Ci sono alberi qui sotto, una piccola radura poco oltre la cascata. Il torrente scivola giu’ nella consueta serie di pozze e piscine, dagli azzuri ai gialli di quelle meno profonde, melmose con quella sabbia in cui e’ piacevole scivolare dentro. Ci sono alcuni tavoli da picnic sparsi qua e la, alcuni con le gambe immerse nell’acqua. Quanto darei per avere dell’insalata di riso di mia madre, porzione extralarge, della limonata fresca, magari un po’ di tiramisu’ (sempre di mia madre, sempre porzione extralarge) e sedermi li, piedi in ammollo, a gustarmi all’ombra tutto quel ben di Dio, ai piedi di una delle cascate piu’ fotografate al mondo?! Non lo so nemmeno io quanto darei. Di sicuro 62$.
Havasu falls (sorry, no tripod!). Copyright Emanuele Canton

Giunto al campeggio, pochi passi piu’ avanti, vedo con stupore che c’e’ ancora molta gente, e che e’ piu’ grande di quanto mi aspettassi. Pare vi siano 200 siti, ovvero una capacita’ che, ponendo anche 5 persone a sito, ammonterebbe tranquillamente a 1000 persone. Per quanto mi riguarda, sono un’enormita’. In un posto come questo non dovrebbero starci piu’ di 100 persone al giorno. Mi secca gia’ il dover condividere il campeggio – il piu’ bello in cui sia mai stato, chiuso nel canyon e all’ombra della vegetazione lussureggiante, costeggiato dal torrente – con tante, troppe altre persone, inclusa melmaglia giovane che gioca a freesby o cavalca lettini gonfiabili schiamazzando qua e la. Gli sparerei. Prima al lettino, e poi a loro. Scelgo il mio sito, pianto la tenda – anzi, la ancoro a 4 pietre – e me ne vado con la sola borsa della reflex e qualche effetto personale, diretto a Beaver falls. Arrivo alla cascata successiva, Mooney falls, la piu’ alta. La si vede con lo stesso effetto con cui si vede il Big Ben uscendo dalla fermata della metro a Londra: mentre fai degli scalini e ti si prospetta un buco nella parete, subito riempito dalla sagoma e dalla massiccia forma della cascata in se’. Ammaliante. Non devo pero’ farmi ammaliare troppo perche’ per scendere, mentre cerco invano il sentiero, bisogna invece calarsi giu’ per una cinquantina di metri circa per una parete esposta, aggrappandosi al solito catenaccio e scendendo un paio di scale anche. Cosa che faccio piu’ che volentieri, con la borsa a penzoloni, ma con stile ineccepibile. Americani stupiti e punteggio sullo 0 a 1 per me. Una volta alla base della cascata faccio qualche altra foto, guardo con ammirazione la tenda che qualche idiota ha sistemato perfettamente alla bocca della cascata (che fosse una piazzola ad ogni effetto? Bah!), e mi rimetto sulle tracce del sentiero. Qualcuno mi dice che e’ infido, ha un sacco di deviazioni e perdi tempo a cercare la via corretta. Puo’ sembrare una sfida che non dovrei esser pronto ad accettare, alle 10, col sole perfettamente in testa, e con i talloni presi in quel modo. Il tutto pero’ mi suona come avventuroso, dunque mi metto in marcia deciso a vedere anche le ultime cascate, Beaver falls. Intuisco subito perche’ il sentiero sia infido: ogni 50 metri c’e’ un bivio o un trivio (esiste questa parola?) di strade che per quanto mi riguarda portano tutte allo stesso posto ma che ovviamente, una volta imboccata la prima, portano sempre nel posto sbagliato. Perdo un po’ di tempo a rintracciare i miei passi, scendo al torrente troppe volte senza volerlo, fino a quado arrivo ad un guado che non posso affrontare con gli scarponi addosso. Male, molto male. Togliermi gli scarponi e’ una cosa di per se’ complicata, figuriamoci ora con le ferite ai piedi. Li tengo legati molto stretti – del tipo che a volte mi bloccano la circolazione saguigna – nel tentativo di bloccare anche i movimenti del piede all’interno della scarpa, quindi slacciarli e toglierli senza arrecarmi un dolore poco incline alla bestemmia mi riesce assai difficile. Ecco quindi la grande idea: realizzo mentre scruto il terreno la bellezza della pozza d’acqua che ho di fronte. Per meta’ all’ombra e meta’ al sole, con una cascatella al centro e due rivoli d’acqua piu’ lenta ai lati, offre acqua veloce e profonda o piu’ lenta e bassa. L’ideale per sguazzarci un po’. E non importa se rimembro con imprecazione annessa che ho lasciato il costume nello zaino: balneero’ in mutande. In pochi secondi sono bello che in boxer bianchi, un autoscatto di rito ed eccomi a tuffarmi in acqua come un cagnetto alla caccia del solito bastoncino. La sensazione e’ celestiale. La temperatura dell’acqua e’ manco a dirlo fresca, ma non tanto da far male. Almeno, dopo un po’. Mi godo una breve nuotata nella corrente, poi mi trasferisco a far “sabbiature” nell’acqua lenta, per infine sdraiarmi sul letto del torrente, la parte poco profonda, e sonnecchiare sulla corrente per un po’, contemplando la canyon-visione di cui posso godere. Magnifico, superlativo. E’ la pace dei sensi. Faccio anche, per dirla con Kevin McAllister in “Mamma ho riperso l’aereo”, un tuffo acrobatico. Quello ci sta sempre.
L'autore prima di una sguazzata. Copyright Emanuele Canton

Dopo un buon tre quarti d’ora in ammollo, faccio su armi e bagagli e li porto dall’altra parte del torrente, dove mi stendo al sole per un po’, asciugandomi, e riprendo poi la marcia. Ad un certo punto distolgo lo sguardo dal sentiero – cammino guardando in basso, non posso permettermi di alzare lo sguardo un secondo altrimenti rischierei come minimo di finire a ortiche – e realizzo che sono completamente immerso nel canyon. Sono in un punto leggermente rialzato del sentiero, da dove posso dominare il paesaggio circostante, e davanti a me si vede solo una lunga distesa di verde e le rosse mura. Sembra un paesaggio d’altri tempi, sembra di essere tornati indietro alla preistoria. Non avevo mai visto nulla di simile. Scatto una foto commemorativa.
Havasupai Canyon towards Beaver falls. Copyright Emanuele Canton

Continuando a scendere incontro dei signori che mi demoralizzano: pare che anche col mio passo prima di un ora non arrivi alle cascate. Cio’ mi lascia quantomai deluso, contavo di essere attorno ai ¾ della strada totale ormai. La soluzione alternativa mi viene offerta poco dopo dal caso: butto l’occhio al torrente poco piu’ in basso e scorgo un anfratto, difficile da raggiungere, di rara bellezza. Scalo qualche grossa roccia e guadagno la riva: in questo piccolo angolo di paradiso dove ovviamente non c’e’ traccia d’essere umano, posso godere di una mini spiaggia personale, roccia formato lettino, multiple cascatelle, piscine private. Evidentemente era destino che la giornata si passasse prevalentemente a balneare. E cosi’, di nuovo, via i pantaloni e via la maglietta, sono ancora in acqua. Ho un sorriso che illumina le rocce. Sono cosi’ contento che, mentre poso il sedere su morbida sabbia melmosa (la sensazione e’ piacevole, sia chiaro!) penso che ora come ora non vorrei sostituire la mia esistenza con quella di nessun altro. Sono contento cosi’, come sto ora, per quello che sto facendo ora. Mi sento felice, sento che sto vivendo attimi che raramente capitano nella vita, quegli attimi spensierati, dove non ci sono soldi, lavoro, relazioni personali, ansie. No, c’e’ solo il godersi la propria esistenza. In questo caso, fatta di acqua fresca e panorami indimenticabili. Come del resto so gia’ sara’ questa intera giornata.

Tornato sui miei passi, rientro al campeggio. Sulla strada mi ero intrattenuto con un simpatico vecchietto da Phoenix, AZ, il quale dopo aver sentito che stavo morendo di fame (bugia) mi aveva offerto un intero sacchetto di “trail mix”, quei mix energetici di nuts varie, uvette e M&M’s di cui io vado ghiotto. Dopo essermene cibato lungo il sentiero, una volta in campeggio addento anche un po’ di pasta. Non so se sia decoroso chiamarla pasta: come detto, e’ stata condita con chili, il quale pero’ ha la tendenza ad “essiccarsi” dopo aperto, specialmente quelli in barattolo. La mia pasta e’ quindi un ammasso informe con qualche macchia rossa (ex-sugo del chili) e diversi fagioli, punto. E’ semifredda, e il chili freddo fa abbastanza schifo. Purtroppo, questo passa in convento – questo avevo in frighetto ieri sera piu’ che altro! – e questo mangio. Chiedo in prestito una forchetta, anch’essa giustamente dimenticata in macchina, e sono pronto a pranzare.

Sono ormai quasi le 15, ed ho fatto praticamente tutto. La mia tenda sta volando via perche’ il vento che spira e’ sufficiente a disancorarla dalle rocce di supporto che avevo posizionato. Io non sono uno che fa dell’ammazzare il tempo il suo business, come qualcuno avra’ intuito, quindi decido di impacchettare tutto e dirigermi verso la macchina. Conto di tornare su in 3 orette abbondanti. Ora: i talloni si, mi fanno male. Le gambe potrebbero essere discretamente stanche dopo 23 chilometri gia’ percorsi. Le spalle, idem. Cio’ non conta, conta solo che ormai ho deciso che non voglio piu’ perder tempo qui. Non c’e’ piu’ spazio per la balneazione, il cibo e’ quel che e’, non ho trovato gentaglia con cui passare del tempo piu’ lungo di 15 minuti, quindi non ho motivi per star giu’. E sia. In poco tempo smonto la tenda e rifaccio lo zaino, riempio le due bottiglie d’acqua e sono di nuovo in strada. Mi accorgo subito che non sara’ una passeggiata, ho un passo che sembra quello di uno zoppo e i talloni mi stanno crocifiggendo. Il dado pero’ e’ tratto, e non si torna indietro. Ripasso per l’ultima volta le fantastiche Havasu falls, le Navajo falls, ed il villaggio di Supai, dove ora la gente si rintana a casa per le proprie faccende domestiche e solo pochi anziani contadini rimangono nei campi a coltivare i loro prodotti. Cammino sulla sabbia che rende i passi ancor piu’ lenti e pesanti, uscire dal canyon sara’ un’agonia. Passo il villaggio, la breve foresta immediatamente adiacente, vengo seguito da un paio di cavalli bradi. Entro nella gola del canyon che ormai non riceve gia’ piu’ i raggi del sole. Sono appena le 17.45. Nel mio procedere incerto, frammentario, medito sul mio dolore. Perche’ ogni volta che cammino piu’ di 15 km con uno zaino pesante in spalla devo sperimentare tutti questi dolori? Passino le spalle, ci sta che dopo tanto tempo con uno zaino cosi’ il fisico ceda un po’. Ma i piedi.. sono la cosa essenziale. Ed io cos’ho? Le scarpe piu’ assassine del pianeta. Maledette bastarde. La suola e’Vibram, che e’ bene perche’ resistente, ma e’ male perche’ e’ talmente resistente che sembra di camminare con una lastra di legno come suola. Dopo un po’ che cammini su sassi aguzzi, hai le basi delle dita che sono dure come il cemento armato. E poi, la parte posteriore. Non so perche’ ma e’ tagliente, dev’esser fatta di vetri rotti forse. Frizionando come normale che sia durante il cammino, tagliano la pelle. Io ho provato a porvi rimedio applicandovi quegli adesivi ergonomici per i talloni nella speranza che coprissero la parte tagliente e facessero spessore contro il frizionamento. Vane speranze. Sono neanche a meta’ del percorso, il tramonto che si avvicina, e sono gia’ k.o.. Ad un certo punto, mi fermo e mi sdraio su una roccia. Nel canyon non c’e’ anima viva, solo io, lucertole e qualche corvaccio. Mentre contemplo il cielo, un avvoltoio svolazza sopra di me. Malefico pennuto pernicioso. “Non ti nutrirai delle mie carni!”, lo ammonisco. Stavolta ti e’ andata male. E spronato dall’oscura visione pennuta, mi rimetto in moto, dolorante. Piu’ passano i minuti, piu’ il dolore aumenta, piu’ aumenta anche la fame. Ho i miraggi di mia madre che mi chiede cosa vorrei da mangiare. Ed io, “Insalata di riso e abbondante porzione di tiramisu’ come dessert grazie!”. Invece mi accontento di 3 mini-ciambelle tirate fuori dallo zaino. Saranno sufficienti per prosegure fino in cima, con tutta la merda artificiale di cui saranno fatte. Attorno alle 19, i colori del tramonto prendono corpo ed illuminano le colline e le mesa piu’ distanti. Sono uno spettacolo. Vorrei avere il tempo e le forze per sedermi e fotografare, ma sono esausto. Mi impongo pero’ un’ultimo sforzo, colossale, e dopo essermi sfilato ancora una volta lo zaino, estraggo la reflex e ZAC!, un’ultimo scatto.
L'ultimo scatto del giorno, uscendo dal canyon. Copyright Emanuele Canton
 
Le mesa illuminate dagli ultimi bagliori del giorno sembrano dorate, puntellate del verde della sparuta vegetazione del deserto. Io sono ancora ben lontano dalla meta invece, devo lasciar stare gli spettacoli della natura e pensare alla pellaccia. Cammino aggrappandomi al mio hiking stick come uno zoppo. Arrivo ad un bivio che mi indica la distanza dal parcheggio: 1,5 miglia – piu’ o meno 2,4 km. In salita. Nella valle, all’uscita del canyon, non c’e’ anima viva eccetto me e 3-4 cavalli selvatici al pascolo. Non si sente nessun rumore tranne quello del cartello metallico che indica la strada, cartello che cigola sinistramente sotto le sferzate del vento. Clima surreale, spettrale. I fantasmi del canyon mi sono alle costole. Affretto la mia risalita, anche se in caso estremo so di poter contare sulla mia headlight per risalire nelle tenebre. Ora si fa molto, molto dura. La salita distrugge cio’ che resta delle gambe, infidi scalini tagliano ogni resistenza. Mi fermo spesso ad ansimare. Vedo una figura umana far capolino dallo sperone di roccia dove e’ situato il parcheggio, centinaia di metri piu’ in alto. Tra me e me lo imploro di vegliare su di me, nel caso ad un certo punto stramazzi al suolo esausto. E continuo. Continuo. Passo un cavallo che immagino (con bave alla bocca) tramutarsi in generose bistecche ben rosolate sulla griglia e condite con sale e pepe. Il cavallo fiuta il pensiero e si defila. Cavallo poco altruista. Ormai il sole e’ tramontato, ed le nuvole si tingono di arancione, e poi di rosso, segno che ormai l’oscurita’ e’ prossima. I miei occhi si adattano all’assenza di luce. Cammino in quei momenti intermedi fra il calar del sole ed il brillar della luna. Eppure, nonostante cio’, nonostante il vento, sudo da matti. E’ una sensazione stranissima. Magari sto per svenire, o per collassare. E’ che ormai manca (quasi) poco. Vedo la cima. Mancano pochi tornanti e ci sono. Un ultimo sforzo. Credo mi sentano sbuffare di fatica fin dal parcheggio. E quando magicamente, finalmente, poso il mio ultimo passo fuori dal sentiero, esulto di gioia per la fine dell’agonia. Ancora qualche traballante passo verso la macchina e posso liberarmi dello zaino, delle scarpe. Uno sguardo ai piedi: peggio di quanto pensassi. Sono in carne viva su entrambi. I segni dello zaino sulle spalle sono come solchi di un aratro sui campi. Sono affamato come un cane selvatico. Appronto il mio fornelletto da campo e mi scaldo i rimasugli della mia gourmet-pasta al chili, aggiungendo almeno del buon sugo per renderla piu’ appetibile. Mangio seduto sulla coperta, nel tailgate del mio truck, ad ammirare ormai solo le sagome scure del canyon in cui fino a poco fa ero immerso. Una notte la sotto mi sa tanto da fantasmi del passato, spiriti indiani e vecchie leggende. Non so se sarei pronto ad un’esperienza simile. Per fortuna, anche se la cena non e’ il top, ora sono al sicuro, ora l’agonia e’ finita, e posso concentrarmi sulle cose positive della giornata. Sono tante, e non andranno dimenticate. Perche’ se da oggi qualcuno mi chiedera’ come immagino il Paradiso, rispondero’ “Lo immagino come un canyon, con alte, irregolari pareti di roccia rossa, un limpido torrente blu cristallino che scorre sul fondo, e tanti alberi tutt’attorno, ad offrire protezione e frutti. Lo immagino rosso, blu e verde, il Paradiso. Come Havasupai”.

PS. Non ho pubblicato molte foto, e nemmeno belle. Ne ho solo prese alcune esemplificative, di fretta. Le piu' belle - al solito - le tengo per me, per il momento. Mi spiace! Spero solo rendano una vaga idea di cio' che sta passando davanti ai miei occhi!