E’ sabato, 8 ottobre 2011, meta’ mattinata. L’aria pungente dell’oceano si mischia bene al sole californiano che in questo periodo dell’anno consente ancora a qualche temerario di farsi una nuotata. Si sta bene. Mi trovo lungo una spiaggia affollata da surfisti, a pensare in silenzio, seduto su un muretto. Mentre scorgo dei delfini in lontananza, che si muovono verso sud, mi accorgo che non sono cosi’ triste perche’ il viaggio e’ ormai agli sgoccioli. Non sento la solita, plausibile malinconia al pensiero dell’incombente volo di ritorno. Non sento nulla, come fosse immune a qualsiasi sentimento. Anzi, a dirla tutta, sono quasi solo, semplicemente felice per l’esperienza vissuta. Il viaggio che ho alle spalle, come i suoi posti, volti, animali, plus e minus, e’ stato indimenticabile – parola che sto iniziando ad usare un po’ troppo spesso all’interno di questo mio diario. Ed un motivo, beh, ci sara’ per forza! Sento gia’ dentro di me la ventata d’aria nuova, di cambiamento che ogni viaggio porta con se’. C’e’ un detto, che ovviamente ho fatto mio, che recita “Chi torna da un viaggio non e’ mai la stessa persona che e’ partita”. Poche parole sono piu’ vere di queste. Sono sicuro, perche’ gia’ ne sento gli effetti dentro di me, che anche stavolta e’ andata cosi’, che ho qualcosa di nuovo dentro, che il mio sguardo e’ gia’ volto a nuove avventure, nuovi obiettivi, nuovi orizzonti. Lo faccio con spirito rinnovato, piu’ motivato, perche’ ho visto grandi cose, ho conosciuto persone fantastiche e ho avuto tempo di parlare con me stesso, di andare un po’ piu’ a fondo in certe questioni. Sapete, a volte quel che ci manca e’ proprio il tempo. Nella vita quotidiana, lo studente non ha tempo perche’ deve studiare, chi lavora deve lavorare e chi e’ in pensione.. beh anche lui ha i suoi giri da fare! E NESSUNO, o ben pochi di essi, trova mai il tempo per stare un po’ con se’ stesso, libero da affanni, stress e impegni. Io trovo che il tempo che noi riusciamo a ritagliare per noi stessi sia essenziale: pensate a quanto per uno sportivo sia importante riuscire ad andare a fare una corsa, un allenamento dopo una giornata lavorativa carica di tensione. O quanto sia bello, per un appassionato lettore, trovare un’oretta della giornata da dedicare alla sua passione, la lettura. Ecco, in viaggio – viaggiando da soli – si ha la possibilita’ di fare e pensare ad una miriade di cose. E una delle piu’ importanti credo sia proprio l’andare un po’ piu’ a fondo con noi stessi, lo sforzarsi di conoscere un po’ meglio quella persona un po’ timida, a volte bugiarda, a volte scontrosa, che altro non e’ che il nostro IO interiore. Pensiamo di sapere chi siamo, ma troppe volte in realta’ conosciamo solo chi vorremmo essere. Solo maschere. In viaggio, le maschere cadono e si fanno scoperte interessanti. Lungo una spiaggia assolata, avvolto dalla brezza di fine estate, mi trovo a riconoscere tante scoperte che ho maturato su me stesso. Vi posso assicurare che raramente ci sono momenti piu’ gratificanti. E come dice quell’altro detto, “Chi trova un amico, trova un tesoro”. Basta solo cercarlo, dargli un po’ piu’ di tempo e di confidenza: e’ li che ci aspetta, dentro di noi! La mia ultima giornata americana era iniziata ore prima, non di certo con questi articolati pensieri piuttosto con sforzi fisici interessanti, smantellando il mio arsenale di bagagli e trasferendolo in macchina, passando per un lungo corridoio esterno al motel e scendendo un piano di scalini che raramente ho visto cosi’ stretti. Un normale accesso ad una stanza che si trasforma in una specie di percorso di guerra per un turista sfinito, appena destato dal sonno e con l’assillo di un mega zaino e un paio di grosse valigie. Per riprendermi dallo sforzo, accorre in mio aiuto il mio salvatore Denny’s, compagno di tante (troppe) mangiate ipercaloriche in questi ultimi 16 giorni. A dire il vero sono io che ancora una volta mi fiondo senza esitazione all’interno di un suo locale, ma poco importa. Una simpatica vecchietta in tenuta da cameriera, di quelle stile “Lo vuoi un biscottino?!” (brrr – rabbrividisco), mi fa accomodare al tavolo dove prontamente ordino la mia ultima colazione SERIA, prima di tornare alle misere fette biscottate con marmellata con latte e caffe’ italiani. Oggi vado per la Country fried steak con gravy e pancacke puppies alla fragola con cheese cream. E’ inutile, quelle specie di piccole frittelline con quella favolosa crema al formaggio – di cui potrei nutrirmi a colazione, pranzo e cena – sono da sangue da naso. They’re awesome! Me ne godo boccone dopo boccone. Mi viene da piangere al pensiero che queste bonta’ da 1.99$ mi saranno precluse per molti mesi a venire e forse per sempre. Come del resto una buona country fried steak, o le patatine con formaggio fuso e bacon, o un ottimo Jalama Burger.. cibo americano, mi mancherai. Ma portero’ con te il tuo gustosissimo, grassissimo ricordo e ne tessero’ le lodi nella mia terra natia! Alla fine di questa celebrazione gustativa, chiedo lumi sulle bellezze su cui vale la pena soffermarsi tra Ventura e LA ad una signora dietro di me. Pare che non ci sia granche’, e mi metto in macchina alla volta di LA con l’intenzione di fermarmi qua e la lungo la costa per assaporare solo gli ultimi profumi oceanici in qualche bella spiaggia, guidando per Santa Monica e Malibu. Nella bruma mattutina, le strade deserte della periferia nel sabato mattina sono quasi tristi, anche in un giorno soleggiato come questo. Poca gente per strada, come a lasciarmi spazio per tornare mestamente verso l’aeroporto e di conseguenza, a casa. Piu’ esco dal centro di Ventura, piu’ mi immergo nei sobborghi, prima residenziali, ben curati e con i soliti SUV da 40K $ parcheggiati di fronte alle case, poi via via piu’ umili, miseri, fino al quasi squallore dei campi coltivati, dove la gente (gli immigrati, meglio) lavora al solito per pochi dollari all’ora, sotto il sole, la pioggia, il vento, per poter sfamare i figli. Sono le cose che mi fanno realmente pensare: son proprio disposto a vivere qui? E se andasse cosi’ anche a me? Un po’ intristito, seguo la costa che mantiene un alone di foschia mattutino, come una persona che si alza e deve ancora stropicciarsi gli occhi per vedere meglio cosa il mondo gli riserva quest’oggi. Dopo qualche curva, faccio un’altra considerazione: pare che qui nel Sunshine state gli sport siano due, ciclismo e surf. Soprattutto qui, vedo ciclisti ovunque. Da soli, a coppie, in gruppo. Sara’ anche che e’ sabato mattina e la gente e’ finalmente libera di dedicarsi ai propri passatempi, ma sembra proprio che le due ruote siano ampiamente diffuse fra la gente di qui. Stessa cosa, anzi, il discorso si fa ancor piu’ serio per il surf. Forse piu’ che uno sport qui e’ uno status-symbol, e vivere lungo la costa californiana senza praticare o almeno aver provato a fare surf, dev’essere una specie di onta indelebile che macchia gli individui esiliandoli dalla societa’. C’e’ da dire che tanta gente accorre nei weekend sulle spiaggie del Pacifico anche dall’interno, dai deserti del Nevada, dalle montagne della Sierra, dalle citta’, e ci sono anche parecchi turisti e girovaghi incalliti che trasportano nei loro furgoncini e minicamper una tavola da surf per la bisogna. Mi immagino le spiaggie che sto osservando ora, d’estate: credo che la proporzione fra tavole da surf e pesci posso avvicinarsi all’ 1:1. Devono essere una specie di formicaio di surfisti. Gli ultimi temerari – che anzi temo non saranno nemmeno gli ultimi, da queste parti – li sto osservando io, seduto sul mio muretto, a contemplare le ultime onde dell’oceano ed un branco di delfini in lontananza, mentre traggo alcune conclusioni da quest’avventura magnifica. La macchina pero’, come d’abitudine di questi ultimi tempi, pur essendo in fila a moltissime altre non e’ parcheggiata in una zona ove il parcheggio e’ consentito, dunque abbandono lo spot per non solleticare troppo la sfortuna magnetica che ultimamente mi gira attorno. Passo attraverso Malibu e Santa Monica, paesi divisi a meta’ dalla principale arteria stradale dove sul versante costiero si sviluppano case piu’ modeste, a schiera, tipicamente “marittime”, mentre sul versante collinare e’ ampiamente diffusa la presenza di ville, alcune delle quali enormi, che lasciano presagire le abbondanti capacita’ economiche della gente che sceglie di abitare in queste cittadine. Il contrasto con le periferie incontrate poco tempo prima e’ troppo forte per passare inosservato, e’ una delle cose che mi fa male dell’America. Proseguendo ancora entro a pieno titolo nei sobborghi di Los Angeles, seconda citta’ d’America per numero d’abitanti (3 milioni e 800 mila circa) e con una lunghezza di circa 50 chilometri da un estremo all’altro della sua periferia. Visitarla, tenendo conto delle sue freeway perennemente intasate dal traffico, dei suoi semafori, della sua enormita’, potrebbe essere un’impresa impossibile in mezza giornata. Anzi, lo e’ punto e basta. Io provo a trarne il massimo. Entro in citta’ e cerco di dirigermi aiutato dalla cartina e un po’ a vista verso la collina di Hollywood, dove spero di riuscire a scattare quella famosa foto al boulevard ornato di palme, terminante nella collina con una delle scritte piu’ famose al mondo. Guido, avanzo, scarto, freno, fino ad arrivare ad un punto dove pare che il parcheggio sia gratuito. Mi fermo, e secondo la mappa sono a pochi isolati da Sunset Boulevard e Hollywood Boulevard, le due strada piu’ visitate della citta’. La cosa sta bene, quindi carico lo zaino dello stretto necessario e parto. Peccato che camminare sotto il sole cocente, in mezzo al traffico afoso e sporco della citta’, con uno zaino di almeno una decina di chili non sia la cosa piu’ allettante del creato. Mi trovo a sudare come un cammello nel giro di un paio di isolati. Il fatto e’, purtroppo, che non ho ben chiaro dove stia andando. Cerco di raggiungere la collina orientandomi visivamente, e cammino vie sconosciute, che non trovo sulla mappa. Quando chiedo indicazioni, un passante mi dice “vai a destra” e quello successivo invece “vai a sinistra”. Non ci capisco piu’ nulla, e dopo aver camminato per mezzora mi ritrovo in una specie di studios televisivi dove addetti ai lavori in occhiali scuri e con vistosi pass mi guardano biechi mentre cammino spaesato invocando aiuto. Alla fine trovo un ragazzo all’entrata, comprensivo, che mi spiega che cio’ che cerco e’ dall’altra parte della collina. Cioe’, circa 45 minuti di cammino, sola andata. Maledico me’ stesso per aver provato un impresa simile senza cognizione di causa e di luogo soprattutto, e maledico gia’ anche LA. Mi dico, “Pensa, cretino che non sei altro, stai facendo tutto questo per cosa? Per fare una stupida foto ad un’ancor piu’ stupida scritta su una collina?!”. Mi vergogno di me stesso. Lontani sono i tempi in cui eroicamente camminavo indifeso in ampi pianori alla caccia della foto migliore all’orso, coyote o bisonte di turno. Ora, la caccia si svolge in citta’ e i soggetti non sono ne’ pericolosi, ne’ selvaggi, ne’ interessanti. E’come passare dalla pesca allo squalo in alto mare alla pesca nell’acquario di casa col retino per catturare i pesci. Umiliante. Sudato e umiliato, torno sui miei passi e mi fermo in un Subway solo per trovare refrigerio in una bibita fresca. Erroneamente convinto che cio’ che sto per scegliere sia una lemonade aromatizzata, finisco per ritrovarmi con un miscuglio iperzuccherino di brodaglia rossa alla ciliegia. Fa letteralmente schifo. Sembra medicinale per bambini. Ne bevo due sorsi giusto per dire che almeno ci ho provato, e trovo occasione per liberarmene nobilmente e senza sprecarne il contenuto. Trovo infatti un barbone sul ciglio della strada, capo chino sull’asfalto e cappello voltato per eventuali elemosina. Mi rivolgo a lui chiedendogli se potesse volere la mia bibita. Mi rivolge subito lo sguardo e mi dice “Sure bro, thank you very much my friend!”. E subito, gradisce il fresco contenuto del bicchierone. Contento di aver fatto un minimo di bene con cosi’ poco, riprendo la mia via. Quel che non ha guarito la bibita, ha guarito la consapevolezza di aver aiutato qualcuno. Accedo a Hollywood Boulevard, il famoso viale dove e’ situata la “Walk of Fame”, dove molte star del mondo dello spettacolo, della musica, del cinema hanno la loro stella con impresso il loro nome. La prima vista e’ – per quanto mi riguarda – disgustosa: una masnada di gente, tutti con le loro macchine fotografiche al collo, panini alla mano, che si accalcano su quella o quell’altra stella, e con pose tragicomiche scattano foto su foto per ricordare il loro “incontro” con la celebrita’. Si fanno importunare da loschi figuri che spacciano cd masterizzati, aspiranti rapper che tentano di sfondare, di farsi una loro strada nel business regalando esempi della loro musica. “It’s free, it’s free!” ti dicono. Altri loschi figuri in maschera – Topolino, gli X-Men, Batman, Hulk e molti altri – si fanno strada fra la folla rubando uno scatto (pagato) al bambino o al bambinone di turno. Navette e camioncini scoperti partono ogni cinquanta metri per tour panoramici della citta’, con i venditori che importunano la gente cercando di convincerla a montare a bordo. Non darei 1$ per vedere questa citta’, fosse l’ultima cosa che facessi. Io faccio lo slalom nella folla, evitando tutte le categorie umane sopra descritte, e tenendo gli occhi al suolo per leggere qualche nome noto. In realta’, scopro che pensavo di conoscere molta piu’ gente i cu nomi compaiono sul suolo che cammino. Devo dire che la mia cultura cinematografico/musicale e’ abbastanza scarna, e non mi sorprendo piu’ di tanto. Pero’, noto che la stragrande maggioranza delle celebrita’ presenti e’ a me sconosciuta. Nella mia mente poi, ho solo tre nomi da ritrovare nell’universo stellato del viale: Sylvester Stallone, Clint Eastwood, Steven Seagal. Ok, deridetemi pure per quest’ultimo. O forse non saprete neppure chi e’, costui. Ve lo spiego io: e’ quell’attore protagonista di qualsiasi film in cui si spara e si scazzotta alla grande, dove la trama e’ sempre la stessa e dove lui, il bullo che sa fare qualsiasi cosa e sa ammazzare qualsiasi nemico, vince sempre e con lo sguardo accigliato del duro a suggellare ogni suo successo. Quello e’ Steven Seagal. Lui a dire il vero e’ il meno rilevante della lista. Gli altri due invece, per me son due mostri sacri. Il fatto e’ che cercarli in mezzo al boulevard e’ un gran casino. Troppa gente da evitare. Troppe insidie a cui sottrarsi. Troppe stelle da analizzare. Sconsolato, mi fermo in un angolo al riparo dal sole. Mentre rimugino sul da farsi, scorgo una vista allettante dall’altra parte della strada: un bar al cui esterno campeggiano file intere di bandiere delle varie squadre di college e di NFL. Football americano. Mi avvicino, e decido di entrare. In pratica, un bar sport fatto come si deve: tv ovunque, di ogni formato, che danno allo spettatore la possibilita’ di seguire due o tre match a seconda della direzione in cui si voglia guardare. La prima cosa che mi viene chiesta all’entrata e’ un documento: nessun minore di 16 anni all’interno. Poi, che partita volessi seguire. Gli dico che sono solo un turista amante del football che voleva sedersi e bere qualcosa, e mi accomodano davanti ad una partita di LSU, Louisiana State University (sono forti quelli, quest’anno). Non contento dell’idea di passare del tempo in un locale senza mettere qualcosa sotto i denti – anche se di fame, come sempre a quest’ora durante la vacanza, ne ho ben poca – ordino un semplice Marinara Meatballs sandwich. Semplice, ma esplosivo. E’ come mangiare un carroarmato di carne e sugo. Corazzato di pane. Mi faccio largo quindi tra le enormi masse di questo panino riempito di ottime meatballs – specie di polpette – ma troppo abbondante per la mia fame risibile. Troppo abbondante, forse, anche per una fame regolare. Alla fine, dopo TROPPI touchdown (per intenderci, troppo tempo) decido di abbandonare, di gettare lo straccio. Avanzo una piccola parte del panino, contento di essere arrivato quasi alla fine anche stavolta. Avro’ lo stomaco grande come una tanica di benzina. Rimango a fissare lo schermo dove LSU demolisce il suo avversario per un po’, indugiando sulla mia lemonade e poi sui cubetti di ghiaccio al suo interno. Tiro qualche altra conclusione. Quali? Beh, ad esempio, non avventurarsi MAI in una citta’ senza aver la certezza di una camera prenotata per la notte. Indispensabile. Oppure, portarsi sempre qualcosa da stendere sotto una tenda, per aumentarne il comfort. Ricordarsi i rimedi “Bear Grylls” – che quando attuati hanno portato notevole beneficio alla mia causa. Ah, e non lavarsi mai piu’ con un saponetta dei Motel6: lascia una poco piacevole patina di viscido pulito che ti rende.. anguilloso! Ricalco i miei passi verso l’uscita del locale tra le urla di un tavolo limitrofo pieno di studenti esultanti per un touchdown della loro squadra, Miami. Esco, e di nuovo sono sotto il sole cocente. Uso le mie rinnovate energie per camminare alla nuova ricerca delle mie star perdute, magari provando anche a cacciare giu’ nello stomaco gli avanzi del mio lauto pasto. Cammina e cammina, ad un innominato incrocio trovo finalmente THE STAR, Sylvester Stallone. Per un attimo, divento anch’io giapponese e scatto una foto alla stella. L’unica. Ne passero’ altre di interesse rilevante – una fra tutte Earl Scruggs, acuto compositore e suonatore di banjo di parecchi lustri fa – ma non trovero’ il buon vecchio Clint. A lui do un semplice “arrivederci” agli schermi televisivi, nei deserti del Sud alla caccia di qualche taglia. Io invece proseguo per la mia strada, strada che ora mi porta alla macchina. Sono nuovamente, fieramente determinato a raggiungere la base della collina di Hollywood, per scattare questa maledetta foto e poi andarmene verso l’aeroporto in tutta calma. Ormai, e’ una questione d’onore, una sfida, un singolar tenzone tra me e la collina. E sono del tutto determinato a vincere. Una volta in macchina, studio attentamente le direzioni da prendere ma risulta impossibile definire nel dettaglio le vie dove svoltare. Ne traggo solo una direzione di massima. Dopo molti incroci, molti semafori, e molto traffico – in tempo d’orologio, circa mezz’ora per fare 7/8 chilometri – arrivo ad un parco sospetto, dove ci son piu’ cartelli che all’ingresso di un parco nazionale ed alcuni anche di notevole interesse. Uno, ad esempio, avvisa i frequentatori del parco di non lasciare oggetti di valore in macchina e di stare attenti ai propri effetti al seguito, in quanto il parco e’ zona ad alto tasso di criminalita’. Rassicurante, in effetti. Il secondo poi, ancora meno. Dice qualcosa come “tenere i bambini sotto stretta sorveglianza, il parco e’ zona abitualmente frequentata da leoni di montagna”. Cosa?? Leoni di montagna in centro a LA?! Rimango stupefatto alla lettura di questo cartello, e nel globale mi faccio un’idea ben poco positiva del parco in cui sono entrato. Inoltre, il terreno e’ gibboso, e definirlo “sconnesso” e fargli un complimento. Preferirei guidare su un campo arato con un Califfo 50cc. Ad ogni modo, nemmeno questo e’ il posto giusto, perche’ la collina e’ visibile si, ma dal versante sbagliato. Finalmente pero’, trovo una persona che sa il fatto suo, un orientale palestrato di cui interrompo la corsa chiedendogli indicazioni. Non sembra distante, e seguendole alla lettera giungo all’agognato viale. Mi sento realizzato, ancor di piu’ quando parcheggio per l’ultima volta in un posto ove non mi sarebbe permesso ma dove lascero’ la macchina solo per qualche minuto. Faccio qualche passo in avanti, trovo lo spot giusto dove scattare senza il disturbo di pali o cavi elettrici e ZAC!, eccola. L’obiettivo di giornata e’ raggiunto, dopo fatiche erculee ed enormi rodimenti. Posso dichiarare conclusa la mia epopea, e ripiegare verso l’aeroporto. Facile a dirsi. Sono notevolmente in anticipo, essendo le 15 ed avendo il volo alle 21, ma sicurissimo che la malefica citta’ vorra’ riservarmi qualche ultima, brutta sorpresa mi avvio lestamente verso la destinazione. Detto, fatto. Mi trovo all’istante imbottigliato in una fiumana di macchine che sembrano tutte dirigersi all’aeroporto. O meglio, sembrano tutte dirigersi dove IO mi sto dirigendo. Anche se prendessi una deviazione, mi seguirebbero. Mi sento un po’ Paperino, o Fantozzi quando perseguitato dalla “nuvola da impiegato”. Nella highway come nelle principali arterie del centro si va quasi a passo d’uomo, e arrivo in prossimita’ dell’aeroporto solo dopo un’ora abbondante di atroci sofferenze e munifiche imprecazioni. Trovo quasi inaspettatamente, nel garbuglio di incorci, depositi e motel che e’ la zona aeroportuale, il deposito auto della mia compagnia di noleggio (non ricordo se ne feci il nome ad inizio diario, ma sappiate che non la consigliero’ mai a nessuno!). Lascio la vettura abbastanza in fretta, fortunatamente non devo attendere controlli vari ed eventuali, e mi dirigo verso il terminal, trasportato in bus da una simpatica signorina. Bagagli alla mano, zaino in spalla, cappello di paglia in testa, scendo alla mia fermata e mi faccio strada tra i controlli e le code fino ad arrivare al mio gate. Ho tre ore d’attesa che so come sfruttare: ho un pc con me e un progetto di scrivere un diario della mia avventura. Prima pero’, meglio attrezzarsi. C’e’ un Burger King qui affianco, e decido di fargli una visita. Sazio la poca fame rimasta – ebbene si, dal panino con le meatballs son riuscito a creare altro spazio nel mio stomaco – con un modesto burger e placo la sete con una Coca-Cola formato BIG, la prima di sempre. Il commesso infatti mi ammonisce, “Are you sure? This is the BIG one!”, dice mostrandomi l’enormita’ del bicchiere scelto. Gli spiego che ho tanto tempo in cui poterla finire, quindi la prendo senza indugi e la riempio al bancone. Ora sono pronto veramente. E’ tutto finito sul serio.
Poco dopo il decollo, nell’oscurita’ della notte scesa sulla West Coast, sorvolo la citta’ di Los Angeles che tanto ho maledetto e che tanto non ho apprezzato. Come una persona che vuole scusarsi per un torto arrecato pero’, essa mi mostra il suo lato migliore, che non ha nulla a che fare con strade intasate, miseria mista a ricchezza sfrenata, criminalita’ nascosta. Si mostra in tutto il suo splendore invisibile dal basso ma apprezzabile dall’alto. A migliaia di metri d’altezza, LA illuminata dalle luci delle sue case, dei suoi semafori, delle sue piazze, dei suoi studios, delle sue discoteche, LA illuminata e’ uno spettacolo che lascia a bocca aperta. La grandezza dei suoi confini, della sua periferia, e’ totalmente apprezzabile solo da qui. Ed anche la persona che a terra partiva con rabbia e delusione, che vedeva la citta’ come un immenso intrico stradale dove perdere tempo prezioso, la contempla per un ultima volta con un altro spirito. Malinconico, un rientro a casa imminente, guarda verso il basso e vede il cielo: migliaia e migliaia di stelle a formare tante costellazioni, tante piccole galassie. La piu’ luminosa? Si chiama Hollywood Boulevard.
In conclusione, prendo a prestito le parole di Gerard Baker, un nativo americano della tribu’ dei Mandan-Hidatsa che ha dedicato la sua vita ad una carriera nel National Park Service, arrivando ad essere sovrintendente del Mount Rushmore National Monument, in South Dakota. Carica pesante, per un nativo americano. Egli disse una volta, e con queste parole concludo e vi ringrazio: America’s not sidewalks. America’s not stores. America’s not video games. America’s not restaurants. We need national parks so people can go there and say “Ah, this is America”.
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