mercoledì 22 dicembre 2010

Macchine & cowboy gay

Correndo verso casa però, noto che si accende qualcosa sulla plancia elettronica della macchina, sopra il volante. E’ un poco rassicurante segnale che ci invita a provvedere un cambio di olio del motore al più presto. Non essendo pratico di tali questioni meccaniche, per quanto mi riguarda potevo anche rischiare di rimanere a piedi nel giro di dieci minuti. Usando il raziocinio però, pensai che nessun ingegnere così imbecille avrebbe potuto progettare una macchina che ti lascia a piedi senza olio motore nel giro di sì breve tempo, quindi ripresi morale ed arrivai alla prima stazione di servizio utile, poco oltre Fishing Bridge. Lì proviamo a contattare telefonicamente la compagnia di noleggio auto, impresa che si rivela impossibile anche per un’ottima conoscitrice della lingua inglese come la mia compagna di viaggio, che fa fatica a selezionare l’opzione giusta del disco registrato e conclude alla fine in un nulla di fatto, persa tra i meandri dell’opzione 1.2.2.3.1.1,5 e la 1.2.2.3.1.1,7. Mi avvio deciso all’interno dell’officina dove vengo ricevuto dal meccanico, il quale mi dice che per quel lavoro avrei dovuto aspettare 45 minuti – giusto il tempo esecutivo – e sganciare altrettanti verdoni. Un po’ troppo per entrambe le cose giudicai, tempo in particolare, quindi decidemmo di guidare, speranzosi di arrivarci, fino al motel dove avevamo prenotato le successive due notti: lo Yellowstone Valley Inn di Cody. Non che il posto si trovasse esattamente in città, ma lo scoprimmo a posteriori. Era in realtà a venti miglia circa dalla pittoresca cittadina che deve il nome al famoso Buffalo Bill Cody, di cui parlerò in seguito. Noi non sapendolo, acceleriamo l’andatura, avendo perso tempo prezioso tra coyote e spaventi meccanici. Scendendo tra le ripide e tortuose curve che dal Sylvan Pass portano verso la valle dello Snake River, i freni lavorano duramente. Così duramente che, talvolta, la macchina sembra stia correndo sulle traversine della Union Pacific Railroad. Invece, sta solo frenando a manetta. Mentre penso alla mia macchina stile treno e mi immagino un po’ macchinista, vedo materializzarsi in mezzo alla strada un cipmunk. Corre fino a piantarsi nel bel mezzo della corsia in cui noi scendevamo veloci. Dentro di me penso “Bisogna evitarlo”, e muovo le ruote in modo tale da poter passare sopra l’inerme creatura senza ridurla in poltiglia. La suddetta creaturina però, deve aver pensato qualcosa, qualcosa di molto simile a ciò che ho pensato io. Quindi, riprende a correre verso destra, per uscire dalla strada. In questo modo, suo malgrado, va incontro a morte certa. Fu così che finì esattamente sotto la mia ruota anteriore destra, spiaccicato dalla mia Chevrolet Impala, facendomi diventare un assassino di wildlife già al mio terzo giorno di vacanza. Macchio di rosso la mia fedina penale. Rimango quasi scioccato, di fronte alla vita che ho interrotto. Una povera bestiola che pochi secondi fa mi guardava impaurita ora giaceva esanime e parte integrante dell’asfalto. Brutta storia. E con lo stato d’animo di un killer che si chiede il perché delle sue azioni, imbocco una strada che Roosevelt, non so con quanta cognizione di causa, definì con “le 52 miglia più panoramiche degli Stati Uniti”.
Ora, non che io abbia visto tutto il paese, ovvio. Non che io abbia una gran cognizione dunque, di ciò che può esser considerato il posto più panoramico degli USA. E altrettanto non pensavo che quelle steppe semiaride, assomiglianti un po’ alla mia idea di Arizona, con formazioni rocciose aguzze talvolta e arrotondate altre, che fungevano da pareti di un canyon al cui interno giaceva la strada, potessero essere un posto così degno di nota. Col passare delle miglia però, capii il perché. La terra lì, di un giallo scuro che contrasta alla perfezione con le ombre del tramonto, esala un fascino profondo, di pace, che il viaggiatore può assaporare miglio dopo miglio. Non è mai uno scenario uguale, cambia con l’avvicendarsi di ogni roccia, di ogni vetta. Ci sono degli alberi di un verde acceso che cambiano il giallore delle alture. Le nuvole scure, ma rade, maculano il cielo delle cinque e mezza di pomeriggio, che si appresta ad imbrunire, e rendono lo sguardo verso le rocce ancor più degno di interesse. Scattando una foto, ti rendi conto ancor più di quanto colore, quanta diversità, quanta splendida magnificenza porti con sé quel pezzo del paese. Questa vallata angusta poi, conduce verso la terra aperta, dove lo Snake River abbandona il suo letto coperto dalle rocce e si snoda sulla prateria. Le due catene montuose si allargano per lasciar spazio alla campagna, a qualche casa e qualche piccolo villaggio. Addirittura una scuola. Sembra di vivere, architettura degli edifici a parte, 150 anni indietro. Cullati dal sole che dolcemente si avvia dietro le montagna più alte e lontane, giungiamo al nostro motel, che è in realtà un complesso che sorge, indisturbato, nella valle. Al suo interno comprende una trentina di cabins, piccole unità abitative grandi poco più di una camera di motel, piazzole per camper contrassegnate da vere e proprie vie, una sauna, una piscina, e l’edificio più grande, al centro, che ospita la reception, il bar ed il ristorante. Avremmo potuto mangiare appena finita la doccia, uscendo in ciabatte e senza dover mettere il culo in macchina! Molto piacevole, mi attirava un sacco come idea. Stanchi, ma con spirito positivo, arriviamo alla reception dove ci accoglie, sorpresina, un cowboy gay. Qualcuno si metterà a ridere, qualcuno lo prenderà come uno scherzo, qualcuno non ci crederà, ma è così. Sebbene il cowboy non sia proprio il tipo di persona che solitamente si scopre essere omosessuale, così ci capitò. E fu piuttosto strano sentir spiegata la strada verso Cody con gesti piuttosto femminili ed una vocina suadente, che a Raffaella faceva un po’ ridere ma che a me, l’interlocutore, lasciava un po’ intimorito. Superato questo chiamiamolo imprevisto, prendiamo le chiavi di “casa” ed entriamo nella cabin. Abbiamo anche saputo, grazie alla gentilezza del gayboy, avremmo dovuto recarci all’aeroporto di Cody per sostituire la vettura con una nuova, con una fornita di olio. Bella merda. Danno auto ai turisti per un sacco di soldi, e per giunta senza olio. Il cambio olio si fa una volta ogni 4-5000 miglia, perché diavolo mi ritrovo senza dopo 1200 non lo so. Sapendo bene che mi sarei lamentato allo sportello debito, una volta giunto in aeroporto, mi metto in tasca la cosa e penso a farmi una doccia, anzi, prima di tutto, ad aprire la porta di casa. Quanta semplice felicità nel vedere le pareti di legno accoglienti, la stanza modesta ma comoda e funzionale, il bagno in condizioni più che accettabili a dispetto di ciò che uno potrebbe pensare. E quanta profonda gratitudine nel potersi gettare di slancio sul morbido lettone queen size che ti si prospetta di fronte. Una potenza!

domenica 12 dicembre 2010

11. Trasandati quanto fortunati

Lasciamo il luogo della zuffa, sperando di aver miglior fortuna ad Hayden Valley, il secondo posto più rinomato per l’avvistamento dei big del parco. Hayden, con Lamar e Pelican, forma il trio di “Valley” dove c’è maggior possibilità di incontrare lupi ed orsi. Non stavo nella pelle, personalmente. Forse sapevo che sarebbe accaduto qualcosa.
Hayden Valley può esser descritta così: provenendo da Nord, come stavamo facendo noi, ci si imbatte in un’ estuario stradale che ti porta ad avere a sinistra il fiume Yellowstone, che scorre placido con una trentina di metri di larghezza mediamente, su una fascia di terreno che, stringendosi ed allargandosi per la lunghezza della valle, circa un paio di chilometri, ha una larghezza media di 400 metri circa. Qualche albero cresce solitario vicino al fiume, permettendo all’osservatore di dare punti di riferimento in casi tipo “Vedi quell’albero carbonizzato vicino a quell’ansa del fiume? Ecco, 50 metri a sinistra puoi vedere il lupo!”. La valle, a sinistra, è dominata da un pianoro alto un centinaio di metri e ricoperto d’alberi dalla parte opposta alla strada, mentre, sulla parta adiacente la strada, è contrassegnato da un paio di colline, la prima all’imbocco della vallata, la seconda proprio alla fine della stessa. Sulla parte destra invece, il terreno è quasi tutto pianeggiante, si estende coperto di brughiera verde pallido per quasi un chilometro di lunghezza, fino a quando l’orizzonte è spezzato da piccoli rilievi collinari ornati da macchie di sporadici alberi. Lungo la strada, si possono trovare tre piazzole di sosta di dimensioni opportune, per le eventualità in cui, avvistando orsi o lupi, trenta – quaranta macchine possano fermarsi ad osservare creando non pochi rallentamenti al traffico in arrivo. Arriviamo in questo posto verso le 4 del pomeriggio. Il sole fatica a trovare spazio fra le nuvole. Decido che ci saremmo fermati in una piazzola, per scrutare la alture e il fiume in cerca di qualche animale. Mi avvio, cautamente, verso il territorio dei big. Il terreno nasconde piccoli avvallamenti dietro i quali potrebbe benissimo celarsi un orso o un paio di lupi. Anche nei documentari televisivi relativi a Yellowstone nominano questi posti, e ciò mi mette leggermente a disagio. E’ bello sapere di esser lì, ma ti mette anche in soggezione, perché sai di essere in una terra che non è il tuo regno. Sei nel loro regno. Con questo stato d’animo faccio qualche decina di metri verso il fiume, fino a quando qualcosa, dentro, mi dice di fermarmi. Guardo con l’aiuto del 300x della mia reflex verso l’orizzonte, ma pare non esserci alcun movimento. Poi, quasi per caso, butto lo sguardo a terra, faccio qualche passo, e noto un’impronta. E’ grossa, tanto grossa. Non è un bisonte, neanche un alce o un cervo. E’ di un’orso, impossibile sbagliare. È grande quanto la mia mano aperta, comprese le dita. Ci sono cinque protuberanze che segnano gli artigli. Lo sapevo, ma ne ebbi la conferma: era la loro zona. Torno correndo verso Raffaella, la informo del ritrovamento, e meditiamo sul da farsi, sul quanto possa essere incosciente avventurarsi lì in mezzo. Poco dopo non a caso, avremmo trovato ai piedi della collina finale, una serie di cartelli che invitava (anzi, obbligava) i turisti a non recarsi oltre quei punti in quanto era una “bear activity area”. Già solo l’ingresso di quelle piste era disseminato d’orme dei plantigradi. Impressionante. Provo però a recarmi sulla cima della collina iniziale, per scoprire se in mezzo a quella piccola radura potesse esserci qualcosa. Lascio la sicurezza della macchina e la mia fida compagna di viaggio sul bordo della strada, e corro verso la cima. Poi rallento, poi cammino, poi mi fermo. Percorsi circa duecento metri, mi accorgo che c’è qualcosa che si muove li sopra, tra i cespugli sotto gli alberi. E un coyote fa capolino tra la vegetazione. Istintivamente gli scatto qualche foto, ma lui scompare lesto come se n’era venuto, e lascia il posto ad un altro suo simile, che come il primo, si ferma a squadrarmi, e poi se ne va. La distanza tra me e gli animali era di quaranta metri circa. Non sono svelto come loro però, nel caso mi attaccassero. I coyote sono animali carnivori, anche se spesso preferiscono cibarsi di carogne. Spesso solitari e poco socievoli, hanno le dimensioni di un cane di media taglia. Non sembrano feroci, ma sanno esserlo. Possono incrociarsi con lupi e altri canidi generando ibridi più grandi, come a me è apparso di vedere. Sono anche simili in qualche fattezza alle volpi, altro animale che frequenta il parco. Possono esser portatori di rabbia, cosa che personalmente preferirei evitare di dover sperimentare su di me. Dopo aver visto i primi due coyote, pensavo lo spettacolo fosse finito, ma sbagliavo. Improvvisamente, un terzo animale fa una fugace apparizione, salvo inoltrarsi subito tra i cespugli. Inizio a sentirmi un po’ in pericolo. Sono distante dalla macchina, da solo e ci sono tre coyote a breve distanza. Mi volgo verso giù, e faccio un paio di passi indietro, ma lo sguardo si ferma subito alla mia sinistra, dove un quarto coyote sta compiendo un movimento alle mie spalle, su un arco, quasi per volermi accerchiare. Mi fermo per valutare la situazione: tre animali di fronte, ed uno che sta per tagliarmi la via verso la macchina. Non il massimo. Ma fortunatamente si ferma anche lui. Mi fissa, io gli scatto qualche foto, almeno se riesco a tornar giù integro avrò qualche ricordo, e poi, tutto finisce. Lui decide di raggiungere gli altri tra gli alberi, ed io posso tornare indietro, guardandomi sempre le spalle fino ad una distanza di sicurezza. Tornato giù, non faccio in tempo a raccontare la cosa a Raffaella che lei mi dice “Hai visto il coyote dietro di te?”. Io, un po’ emozionato, dico di si, le racconto ciò che ho visto, salvo poi scoprire che anche lei era riuscita a vedere tutto, e che aveva addirittura cercato di attirare la mia attenzione, chiamandomi, per segnalarmi il pericolo. Giuro che non l’avevo proprio sentita. Alla fine però, è stata una grande esperienza. Fossero stati lupi non sarei di certo qui a raccontarla in questi termini, oppure, non sarei affatto qui a raccontarla. Quegli attimi però, furono emozionanti.
L’emozione non mancò nemmeno poco tempo dopo, a Fishing Bridge. E’ il distretto sud-orientale del parco, si affaccia sul Lake Yellowstone e porta alla Eastern Entrance del parco, quella che proviene da Cody. Essendo quella la nostra meta finale di giornata, dovendo trascorrere la notte nei pressi della città, ci rechiamo a Fishing Bridge, dove, sulle sponde del lago, ci imbattiamo in un gruppetto di bisonti. Ci sono le solite macchine ferme affinchè la gente possa fotografarli, e qualche idiota che si avvicina a distanza di 4-5 metri pur di avere uno scatto migliore di quanto la sua macchinetta schifosa potrebbe fare da distanza maggiore. Noi però non ci perdiamo con gli ormai consueti buffalos. Guardiamo verso il cielo. Ed ecco, vuoi per il nostro altrettanto consueto culo, vuoi per un segno di madre natura, un aquila dalla testa bianca librarsi in volo, ed appollaiarsi gaia sulla cima di un albero morente. La sua figura imponente si staglia, bianca e marrone, sul blu intenso del cielo. Tutti puntano l’obiettivo a terra, io verso il cielo, unico ad avvedersi di quello spettacolo che la natura ci stava offrendo. L’aquila è il simbolo degli Stati Uniti, è un animale che affascina, è un uccello grosso, è un animale da cui si è attratti. E poterne vedere una in un ambiente in cui di certo non se ne contano a centinaia, è stato per me molto bello. Raccolto qualche scatto, ammiriamo l’aquila scacciare un hawk che svolazzava incolpevole nella sua zona, ed appollaiarsi di nuovo, vincente, su di un altro ramo. Il lago ci accompagna, felici, verso casa. O meglio, verso una delle nostre tante case. La macchina era già poco ammirabile per ordine e pulizia, e noi alla fin fine, ci sentiamo già un po’ profughi. E’ il bello del viaggio. Anche la persona ordinata, pulita e per bene diventa sciatta, disordinata e un po’ rozza. Mi piace questo modo di fare le cose, non c’è nessuno che ti dirà “metti in bagagliaio quella felpa, sistemati i calzini, pettinati i capelli”, nessuno ti romperò le palle. C’è un tacito assenso nel casino che giorno dopo giorno si forma. E’ un casino semovibile, temporaneo, ogni mattina si rassetta per raddoppiarsi a fine giornata, salvo poi scomparire parzialmente con la mattina successiva. E’ un casino però, che ti fa sentire davvero in vacanza. Non a caso, quando non lo vedi più, vuol dire che hai finito i giorni, devi riconsegnare la macchina, devi rientrare a casa. Quindi, per ora, ero più che contento di trovarmi già dopo due giorni immerso in felpe, t-shirts e qualche souvenir!

mercoledì 8 dicembre 2010

10. Ci sono un sacco di bestie qui!

Si dice che questo genere di plantigrado sia in realtà più pericoloso di quanto non sembri. A dispetto delle sue dimensioni ridotte (difficilmente supera il metro di altezza) e del suo aspetto bonario, l’orso nero ha dalla sua la capacità di arrampicarsi sugli alberi, cosa che fa escludere questa via di fuga in caso di attacco, e soprattutto l’imprevedibilità. Può scappare alla presenza di esseri umani ma anche attaccare senza alcun preavviso o motivo. Per questo, dicono alcuni, sarebbe da temersi quasi più dei grizzly stessi. Non fu un problema per noi quel giorno. Personalmente, era il terzo orso nero che vedevo tra Canada e Us, e tutti e tre non mi avevano quasi neanche cagato. Buon per me, foto a buon mercato e senza rischi particolari. Anche se, quella volta in Canada fui un po’ incosciente, col senno di poi. Erano le 6 e mezza di mattina, le strade del parco di Jasper deserte, e Andrea vide l’orso sul fianco destro della strada, che camminava pacifico vicino al torrente, puntando l’asfalto. Io, alla guida, inchiodai e feci marcia indietro, salvo fermarmi ad un cento-centoventi metri dalla bestia per non spaventarla. Uscii da solo, digitale in mano, correndo piano verso l’animale. Lui stava per attraversare la strada. Mi avvicinai fino a circa trentacinque metri: se avesse deciso di attaccarmi c’erano almeno 70 metri tra me e la macchina, e correndo quasi tre volte la mia velocità, l’orso mi avrebbe preso con facilità. Col senno di poi, appunto, feci una cosa azzardata. Ma non ci pensai al momento, quando vedi una cosa del genere, almeno a me capita così, sei preso dall’istante, la vedi come una cosa irripetibile, sei attirato in modo magnetico dall’animale, e cerchi di coglierne il lato selvaggio da più vicino che puoi, anche rischiando qualcosa. Il risultato però, è decisamente appagante, credetemi!
Tornando a Yellowstone, posso dire che quell’incontro non fu parimenti eccitante. Ero più sicuro, più protetto, e con troppa gente attorno. Ma fu bello comunque. Partimmo verso nord-est carichi di eccitazione.
Stavamo puntando verso Lamar Valley, una vallata tra lo Slough Creek ed il Pebble Creek, risaputa patria di qualche branco di lupi: i più famosi, quello di Druid Peak e di Slough Creek. Il lupo è un animale che allo stesso tempo mette paura ed affascina. E’ grande, più di un normale cane domestico, veloce, di gruppo. Ha due occhi che, quando digrigna i denti, non fanno mai piacere a vedersi, sono carichi di fame e aggressività. Quando caccia in branco è impossibile scappargli. Il lupo è stato cacciato fino quasi all’estinzione, a Yellowstone. Cacciava il bestiame degli allevatori vicini, che decisero di sterminarli. Si dovette ricorrere alla reintroduzione di lupi grigi canadesi, tra gli anni 70 e 80 del ‘900, per risollevare la popolazione di lupi di Yellowstone. Ora, miracolosamente, la specie sta crescendo. Se ne contano circa trecento esemplari nel parco, che salgono a quattrocento contando l’intero Greater Yellowstone (termine con cui si identifica una regione più vasta, comprendente anche il parco di Teton e territori contigui in Montana, Idaho e restante parte del Wyoming), stanziati in diverse aree e divisi in branchi ben precisi. Ci stavamo dirigendo a Lamar nella speranza di vederne alcuni. Difficile, molto difficile, di giorno ed in mezzo alla strada, ma non del tutto impossibile. Abbrustoliti dal caldo, con le fette di cheddar che marciscono sul tappetino della macchina (aperte dal giorno prima senza mai sentire il freddo del frigorifero), raggiungiamo l’imbocco della valle. Ci scorre, al solito, lo Yellowstone, che si ramifica in fiumiciattoli e torrentelli che si perdono in pozze d’acqua dove, qua e la, si abbeverano bisonti solitari. Un branco di bisonti anzi, sbucando da una collina alla nostra sinistra, si piazza nel bel mezzo della strada. Questo animale imponente da il massimo quando è in branco. Si respira la potenza di questa bestia, si ha l’occasione di stargli a pochi metri, consci del fatto che, qualora lo volesse, potrebbe caricarti ed incornarti facilmente, o allo stesso modo danneggiarti seriamente la macchina (facendoti pagare un conto piuttosto salato al ritorno della macchina – le compagnie non fanno sconti per animali inferociti). Facendo qualche scatto, si può ammirare il dettaglio: l’occhio, la bocca, il “capello” un po’ leccato piuttosto che quello col ciuffo alla Elvis. Che tipi i bisonti! I buffalo, come li chiamano li. Ma perché diamine un bisonte si deve chiamare bufalo in america io non lo so.. pronunciarlo è più bello, sa più da west, ma buffalo è bufalo, e quello è un altro animale che vive altrove!!
Linguistica a parte, aspettiamo il dileguarsi di questa buffalo jam, l’ ingorgo, il traffico a causa dei di bisonti, e ripartiamo. Facciamo buona parte della valle, avanti e indietro, back and forth, ma di lupi neanche l’ombra. Sperammo un po’ troppo nella fortuna, quel giorno. Veniamo invece ricompensati parzialmente sulla via del ritorno, ad una decina di miglia, direzione est, rispetto a Tower Roosevelt. Troviamo sulla strada una fila infinita di macchine, da ambo i lati della carreggiata, cosa che ci fa palesemente dedurre che doveva esserci qualcosa di losco in corso. L’ulteriore conferma ci viene data dalla presenza di una macchina dei ranger. Andiamo, c’è qualcosa di grosso la fuori! Lasciamo la macchina in fondo alla fila, in pendenza circa del 20% - tant’è che la portiera della vettura si chiude da se, senza bisogno che io la spinga – e ci precipitiamo verso l’assembramento maggiore di gente. In due secondi il mistero è svelato: laggiù, sul letto del fiume, a circa trecento – trecentocinquanta metri da noi, ci sono un paio di coyote che si stanno spartendo la carcassa di un non identificato erbivoro. Tutt’attorno, decine di crow e raven (mentre i crow sono dei comunissimi corvi, i raven sono dei loro simili più grossi, diffusissimi in America del Nord ma anche in Nord Europa) che ammirano la scena, aspettando con pazienza il loro turno per sgraffignare qualche brandello di carne. Data la distanza per me enorme dai coyote, chiedo al ranger perché non ci si potesse avvicinare ulteriormente, dato che per quegli animali la distanza minima doveva essere di una trentina di metri, da regolamento. La risposta, che avrei potuto darmi anch’io, fu ovviamente “E’ una situazione potenzialmente pericolosa, meglio mantenere queste distanze”. Grazie tante. Praticamente, quando sono con cuccioli, quando sono in branco, quando sono in paese, e adesso anche quando mangiano, ecco in tutti questi casi gli animali sono potenzialmente pericolosi e devono esser fatti rispetto di maggiori distanze. Finirò col dover guardare gli elk col binocolo, un giorno! Che tempi! Ciò detto, restiamo per qualche minuto a contemplare la situazione, in attesa del colpo di scena, magari un branco di lupi che irrompe nella scena e scaccia i poveri coyote, ma così non è.

giovedì 2 dicembre 2010

9. Primi incontri con i plantigradi

Lasciammo la colazione, il negozio, ed i mille gadget esposti, alla volta di qualche piccola escursione. Era il giorno in cui avremmo dovuto girare tutto il parco e fermarsi nei posti più alla mano, più famosi, più camminabili. Come prima meta scegliemmo le Lower Falls. Sono delle cascate sul fiume Yellowstone che devono il loro nome al fatto di avere delle sorelle posizionate un po’ più a monte del fiume (Upper Falls, per l’appunto), ma a dispetto della posizione geografica e del nome diminutivo, sono più alte delle sorelle, che raggiungono circa 35 metri. Le Lower infatti, gettano l’acqua del fiume verso un salto di 92 metri! Ed essendo lo Yellowstone un fiume, più che un torrente, lo spettacolo è assicurato. Noi scendemmo per il percorso pedonabile che porta dal parcheggio alla bocca delle cascate, e ci trovammo di fronte ad uno scenario che sembrava dipinto: l’acqua azzurra dello Yellowstone che si getta a precipizio, diventando bianca, nella gola che il fiume stesso ha scavato con i millenni. Essa, a strapiombo tra due pareti di roccia giallo-oro che guadagnano una tinta arancione crescendo in altezza, corre tra le montagne e si insinua nel territorio del parco, percorrendolo verso oriente. Sulle cime dei fianchi infine, verdi alberi ricoprono le vette, protendendosi verso il grande, sconfinato cielo azzurro che noi italiani non siamo abituati a vedere. La reazione è quella di prendere una sedia, comoda, una tazza di tè, e accomodarsi lì per passare un paio d’ore in contemplazione di quello spettacolo magnifico della natura. Cosa purtroppo irrealizzabile, a patto di mandare all’aria i programmi futuri per la giornata. Lasciamo a malincuore il posto, per raggiungere invece la parte nord del parco. La meta era Tower Roosvelt, il distretto nord-orientale del parco. Lì, lasciamo la macchina e facciamo due passi fino alle Tower Falls (niente di che e piuttosto affollate – due deficienti combattono per chi fa la foto migliore con la macchinetta migliore, sfida alquanto stupida perché era come fotografare un merlo quando di fianco hai un’aquila). L’aquila in questione era il fiume Yellowstone che in quel punto da, secondo me, il meglio di sé. Scorre al solito impetuoso in una vallata più ampia, con rive larghe e parzialmente ricoperte da sassi bianchi e ocra, che non stonano comparati alle montagne circostanti. Che pace laggiù, con la copertura dei boschi alle spalle, il fiume e le vette di fronte, e l’acqua che tinge di un blu profondo la piatta colorazione chiara della terra. Solo i soliti giapponesi stramazzanti con i loro schiamazzi, le loro fotografie fatte malissimo e la loro foga turistica possono rovinare un simile idillio. Ma, anche il tempo è tiranno, ed in questo caso è lui il giapponese. Dobbiamo tornare su, al parcheggio, giusto in tempo per assistere a due eventi naturalistici. Il primo, notato acutamente da Raffaella, è una famigliola di cerbiatti che bruca erba nella boscaglia. Sono animali un po’ sempliciotti secondo me: infatti, cogliendo l’occasione al volo, mi ci avvicino, badando a non calpestare rami o far franare sassi, insomma, badando a non far rumore e a tenermi sottovento. Gli sono a due metri di distanza in un minuto. Ed ecco che ho, a questa distanza, due piccoli Bambi e, poco più indietro, la loro mamma. Mangiano l’erbetta a loro agio, fissando ogni tanto me e la mia reflex come stessero pensando “Farsi gli affaracci suoi no eh..”.
E’ emozionante. Alla fine, sono cose che ad un italiano non capitano spesso, eccetto quando si va allo zoo, ed anche li c’è la recinzione che ti separa dalla natura. Quella invece è WILDlife. Selvaggia, vive allo stato brado. E’ quello il bello. E’ come pescare un pesce in una vasca da bagno, o pescarlo in mare. Tutta un’altra cosa. Il secondo evento invece, è di quello che contraddistingue le giornate. Si trattava di un orso, finalmente.
Mentre aspetto Raffaella, recatasi ad espletare un piccolo bisognino, girovago nel parcheggio, e alla fine decido di eliminare uno degli strati dell’abbigliamento “a cipolla”. Parentesi. Ci si veste a cipolla a Yellowstone, ovvio. Come in montagna. Stai con maglietta, dolcevita e maglione fino almeno alle 10 di mattina. Poi, qualche volta, ti togli il maglione, o se fa freddo, ti tiri semplicemente su le maniche. Verso le 11 però inizia a far caldo, se splende il sole, e allora parte il primo layer. Quel giorno fu il caso del maglione. Spesso poi, si arriva a stare in maniche corte fino alle 7 di sera. Sempre posto che il sole sia alto nel cielo. Se il giorno è umido, piovoso, o peggio, nevoso, la cipolla rimane integra fino a fine giornata.
Stavo dicendo, mi tolgo il maglione, lo deposito in macchina, e mi godo qualche secondo di canottiera, prima di rinfilarmi il dolcevita. Si sta bene, il sole scalda e un po’ di contatto con l’aria frizzante di lassù è sempre piacevole. Poi però vedo un piccolo assembramento di gente sul bordo del parcheggio prospiciente al bosco. Indicano qualcosa giù, dove il terreno degrada con pendenza di circa il 35-40% verso il letto del fiume, trecento metri in basso. Inizialmente vedo solo erba alta, qualche albero, e nient’altro. Chiedo alle persone ed un francese, con un inglese molto storpiato dalla pronuncia della loro madre lingua, mi dice che il suo amico asserisce di aver visto un orso nero, al contrario di lui, che deve ancora avvistarlo. Rimaniamo lì, per qualche secondo, fino a quando le canne e le erbe più alte iniziano a muoversi di brutto, segno evidente della presenza di qualcosa. In pochi attimi, ecco materializzarsi una grossa macchia scura, passo pesante, deciso: era proprio un orso nero! Gli eravamo a circa una ventina-venticinque metri (per conoscenza, le regole dei parchi dicono che orsi e lupi dovrebbero essere rispettati di una distanza di almeno 90 metri), ma in posizione piuttosto sicura, protetti dalla pendenza del terreno, dal numero di persone accalcate, e dalla vicinanza di vetture e albergo. Guardiamo il bestione, anche se al cospetto di un grizzly sarebbe quasi un piccoletto, passeggiare parallelamente a noi, offrirci lo spettacolo naturale tra i più belli che lo Yellowstone possa offrire, e dirigersi infine verso il fiume. Verso la pista. Già, pensammo con Raffaella, proprio verso la pista che cinque minuti fa stavamo risalendo noi! Bel tempismo! Chissà quei poveracci che stavano rientrando allora: avrebbero potuto trovarsi faccia a faccia con l’orso.