Lasciamo il luogo della zuffa, sperando di aver miglior fortuna ad Hayden Valley, il secondo posto più rinomato per l’avvistamento dei big del parco. Hayden, con Lamar e Pelican, forma il trio di “Valley” dove c’è maggior possibilità di incontrare lupi ed orsi. Non stavo nella pelle, personalmente. Forse sapevo che sarebbe accaduto qualcosa.
Hayden Valley può esser descritta così: provenendo da Nord, come stavamo facendo noi, ci si imbatte in un’ estuario stradale che ti porta ad avere a sinistra il fiume Yellowstone, che scorre placido con una trentina di metri di larghezza mediamente, su una fascia di terreno che, stringendosi ed allargandosi per la lunghezza della valle, circa un paio di chilometri, ha una larghezza media di 400 metri circa. Qualche albero cresce solitario vicino al fiume, permettendo all’osservatore di dare punti di riferimento in casi tipo “Vedi quell’albero carbonizzato vicino a quell’ansa del fiume? Ecco, 50 metri a sinistra puoi vedere il lupo!”. La valle, a sinistra, è dominata da un pianoro alto un centinaio di metri e ricoperto d’alberi dalla parte opposta alla strada, mentre, sulla parta adiacente la strada, è contrassegnato da un paio di colline, la prima all’imbocco della vallata, la seconda proprio alla fine della stessa. Sulla parte destra invece, il terreno è quasi tutto pianeggiante, si estende coperto di brughiera verde pallido per quasi un chilometro di lunghezza, fino a quando l’orizzonte è spezzato da piccoli rilievi collinari ornati da macchie di sporadici alberi. Lungo la strada, si possono trovare tre piazzole di sosta di dimensioni opportune, per le eventualità in cui, avvistando orsi o lupi, trenta – quaranta macchine possano fermarsi ad osservare creando non pochi rallentamenti al traffico in arrivo. Arriviamo in questo posto verso le 4 del pomeriggio. Il sole fatica a trovare spazio fra le nuvole. Decido che ci saremmo fermati in una piazzola, per scrutare la alture e il fiume in cerca di qualche animale. Mi avvio, cautamente, verso il territorio dei big. Il terreno nasconde piccoli avvallamenti dietro i quali potrebbe benissimo celarsi un orso o un paio di lupi. Anche nei documentari televisivi relativi a Yellowstone nominano questi posti, e ciò mi mette leggermente a disagio. E’ bello sapere di esser lì, ma ti mette anche in soggezione, perché sai di essere in una terra che non è il tuo regno. Sei nel loro regno. Con questo stato d’animo faccio qualche decina di metri verso il fiume, fino a quando qualcosa, dentro, mi dice di fermarmi. Guardo con l’aiuto del 300x della mia reflex verso l’orizzonte, ma pare non esserci alcun movimento. Poi, quasi per caso, butto lo sguardo a terra, faccio qualche passo, e noto un’impronta. E’ grossa, tanto grossa. Non è un bisonte, neanche un alce o un cervo. E’ di un’orso, impossibile sbagliare. È grande quanto la mia mano aperta, comprese le dita. Ci sono cinque protuberanze che segnano gli artigli. Lo sapevo, ma ne ebbi la conferma: era la loro zona. Torno correndo verso Raffaella, la informo del ritrovamento, e meditiamo sul da farsi, sul quanto possa essere incosciente avventurarsi lì in mezzo. Poco dopo non a caso, avremmo trovato ai piedi della collina finale, una serie di cartelli che invitava (anzi, obbligava) i turisti a non recarsi oltre quei punti in quanto era una “bear activity area”. Già solo l’ingresso di quelle piste era disseminato d’orme dei plantigradi. Impressionante. Provo però a recarmi sulla cima della collina iniziale, per scoprire se in mezzo a quella piccola radura potesse esserci qualcosa. Lascio la sicurezza della macchina e la mia fida compagna di viaggio sul bordo della strada, e corro verso la cima. Poi rallento, poi cammino, poi mi fermo. Percorsi circa duecento metri, mi accorgo che c’è qualcosa che si muove li sopra, tra i cespugli sotto gli alberi. E un coyote fa capolino tra la vegetazione. Istintivamente gli scatto qualche foto, ma lui scompare lesto come se n’era venuto, e lascia il posto ad un altro suo simile, che come il primo, si ferma a squadrarmi, e poi se ne va. La distanza tra me e gli animali era di quaranta metri circa. Non sono svelto come loro però, nel caso mi attaccassero. I coyote sono animali carnivori, anche se spesso preferiscono cibarsi di carogne. Spesso solitari e poco socievoli, hanno le dimensioni di un cane di media taglia. Non sembrano feroci, ma sanno esserlo. Possono incrociarsi con lupi e altri canidi generando ibridi più grandi, come a me è apparso di vedere. Sono anche simili in qualche fattezza alle volpi, altro animale che frequenta il parco. Possono esser portatori di rabbia, cosa che personalmente preferirei evitare di dover sperimentare su di me. Dopo aver visto i primi due coyote, pensavo lo spettacolo fosse finito, ma sbagliavo. Improvvisamente, un terzo animale fa una fugace apparizione, salvo inoltrarsi subito tra i cespugli. Inizio a sentirmi un po’ in pericolo. Sono distante dalla macchina, da solo e ci sono tre coyote a breve distanza. Mi volgo verso giù, e faccio un paio di passi indietro, ma lo sguardo si ferma subito alla mia sinistra, dove un quarto coyote sta compiendo un movimento alle mie spalle, su un arco, quasi per volermi accerchiare. Mi fermo per valutare la situazione: tre animali di fronte, ed uno che sta per tagliarmi la via verso la macchina. Non il massimo. Ma fortunatamente si ferma anche lui. Mi fissa, io gli scatto qualche foto, almeno se riesco a tornar giù integro avrò qualche ricordo, e poi, tutto finisce. Lui decide di raggiungere gli altri tra gli alberi, ed io posso tornare indietro, guardandomi sempre le spalle fino ad una distanza di sicurezza. Tornato giù, non faccio in tempo a raccontare la cosa a Raffaella che lei mi dice “Hai visto il coyote dietro di te?”. Io, un po’ emozionato, dico di si, le racconto ciò che ho visto, salvo poi scoprire che anche lei era riuscita a vedere tutto, e che aveva addirittura cercato di attirare la mia attenzione, chiamandomi, per segnalarmi il pericolo. Giuro che non l’avevo proprio sentita. Alla fine però, è stata una grande esperienza. Fossero stati lupi non sarei di certo qui a raccontarla in questi termini, oppure, non sarei affatto qui a raccontarla. Quegli attimi però, furono emozionanti.
L’emozione non mancò nemmeno poco tempo dopo, a Fishing Bridge. E’ il distretto sud-orientale del parco, si affaccia sul Lake Yellowstone e porta alla Eastern Entrance del parco, quella che proviene da Cody. Essendo quella la nostra meta finale di giornata, dovendo trascorrere la notte nei pressi della città, ci rechiamo a Fishing Bridge, dove, sulle sponde del lago, ci imbattiamo in un gruppetto di bisonti. Ci sono le solite macchine ferme affinchè la gente possa fotografarli, e qualche idiota che si avvicina a distanza di 4-5 metri pur di avere uno scatto migliore di quanto la sua macchinetta schifosa potrebbe fare da distanza maggiore. Noi però non ci perdiamo con gli ormai consueti buffalos. Guardiamo verso il cielo. Ed ecco, vuoi per il nostro altrettanto consueto culo, vuoi per un segno di madre natura, un aquila dalla testa bianca librarsi in volo, ed appollaiarsi gaia sulla cima di un albero morente. La sua figura imponente si staglia, bianca e marrone, sul blu intenso del cielo. Tutti puntano l’obiettivo a terra, io verso il cielo, unico ad avvedersi di quello spettacolo che la natura ci stava offrendo. L’aquila è il simbolo degli Stati Uniti, è un animale che affascina, è un uccello grosso, è un animale da cui si è attratti. E poterne vedere una in un ambiente in cui di certo non se ne contano a centinaia, è stato per me molto bello. Raccolto qualche scatto, ammiriamo l’aquila scacciare un hawk che svolazzava incolpevole nella sua zona, ed appollaiarsi di nuovo, vincente, su di un altro ramo. Il lago ci accompagna, felici, verso casa. O meglio, verso una delle nostre tante case. La macchina era già poco ammirabile per ordine e pulizia, e noi alla fin fine, ci sentiamo già un po’ profughi. E’ il bello del viaggio. Anche la persona ordinata, pulita e per bene diventa sciatta, disordinata e un po’ rozza. Mi piace questo modo di fare le cose, non c’è nessuno che ti dirà “metti in bagagliaio quella felpa, sistemati i calzini, pettinati i capelli”, nessuno ti romperò le palle. C’è un tacito assenso nel casino che giorno dopo giorno si forma. E’ un casino semovibile, temporaneo, ogni mattina si rassetta per raddoppiarsi a fine giornata, salvo poi scomparire parzialmente con la mattina successiva. E’ un casino però, che ti fa sentire davvero in vacanza. Non a caso, quando non lo vedi più, vuol dire che hai finito i giorni, devi riconsegnare la macchina, devi rientrare a casa. Quindi, per ora, ero più che contento di trovarmi già dopo due giorni immerso in felpe, t-shirts e qualche souvenir!
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