sabato 23 giugno 2012

Never seen a rainforest? - pt.1

20 MAGGIO - Port Angeles - Forks

Sono 10 le ore di sonno che mi servono per rimettermi in sesto dopo la tremenda giornata trascorsa ieri. Mi sveglio di cattivo umore, tralizzando che lo scherzetto della valigia mi costera’ all’incirca 5 ore di macchina – 410 km – e 25$ di benzina se tutto va bene. Il mio umore scende scale che pare non abbiano fine quando penso che non ho nemmeno con me uno straccio di spazzolino per detergermi le zanne, cosa che mi fa imbestialire (sto evidentemente pensando ad un elefante quando uso questi termini). Tiro su i miei sparuti effetti ed in pochi minuti sono in macchina, ad allontanarmi da Port Angeles sapendo che ci tornero’ in giornata. Come dire: sono a Torino, vado a fare un salto a Trieste, poi me ne torno da ste parti per pranzo. Mi vengono i brividi alla schiena. Mentre guido poi, le scale dell’umore diventano mobili, lisce e oliate: piove senza soluzione di continuita’. Il paesaggio sara’ anche veritiero – no?! Le classiche immagini da NorthWest – ma a me gia’ sta terribilmente sulle palle. Sono cosi’ intelligente da ripensare ai risultati raggiunti nella prima giornata di viaggio: un mare di chilometri avanti e indietro tra Port Angeles e Seattle. Stop. Mi complimento con me stesso, e ringrazio fato e sfighe varie per aver mandato a ortiche un sudatissimo giorno di ferie. Il peggiore di sempre, per quanto mi riguarda. L’unica cosa che riesce a trattenermi dall’essere scomunicato da qualsiasi chiesa e’ che riesco a vedere qualche wildlife lungo il tragitto. Mi imbatto in diversi elk e deer, un bel po’ di rapaciazzi, una bald eagle (sempre stupendo vederle!) ed un procione morto. Ricordo il modo di dire che forgiai un paio d’anni orsono mentre correvo le strade del Wyoming, “Tempismo da procione”. E’ proprio vero, questi graziosi ma sfortunati animaletti hanno un tempismo del cazzo. Credo che le probabilita’ che essi muoiano nell’atto di attraversare una strada rasentino il 99% (lascio un 1% nel caso la macchina sia cosi’ reattiva da fermarsi in tempo). Tutti questi simpatici animaletti pero’ non bastano a farmi cambiare umore. Sfondo ulteriormente quando per attraversare il ponte che gia’ guidai ieri in direzione opposta – quello prima di Tacoma – mi chiedono un pedaggio di 4 dollarozzi. Che?! Manco fosse il Golden Gate! Fa schifo. Maledette arpie. Arrivo in prossimita’ di Seattle e inizio a vedere un fluire di aerei piccoli medi e grandi. Deduco saggiamente di essere in prossimita’ dell’aeroporto. Ricordo l’uscita, trovo il varco giusto per i car rental, lascio la macchina alla carlona in parcheggio e filo dentro a riprendere il malloppo. Non ho tempo per niente e nessuno. Mi catapulto in macchina, sembra che abbia un bounty killer sulle mie tracce. Mosso ora anche dalla fame incipiente, guido veloce per uscire dall’ingorgo di cemento e freeways che caratterizza le vicinanze di un grosso aeroporto, e mi metto alla ricerca di una ciberia consona alle mie esigenze. Questa ciberia, nella mia mente, si chiama Denny’s. Ne trovo uno a mezzora dall’aeroporto. Anzi, ne ho visti anche prima sinceramente, ma la location non mi aggradava. Non mi piace mangiare in luoghi troppo cementificati, troppo insignificanti, tipo le periferie delle grosse citta’, tutte food chains e negozi d’automobili. Cerco di uscire il piu’ possibile fino a quando lo stomaco me lo permette. Ed eccomi finalmente, dopo mesi, varcare ansiosamente l’entrata del mio ristorante preferito. Una giovane ragazza di colore mi da un tavolo ed io inizio avidamente a leggere un menu’ che in realta’ conosco gia’ quasi a memoria. Ci metto poco ad ordinare, e come ogni volta, SBAGLIO, ordinando immensamente piu’ di quanto il mio ristretto stomaco italiano possa sopportare. Quando la cameriera torna con le mie pietanze, la vedo arrivare con uno di quegli enormi vassoi che usano di solito per i tavoli da 4 o piu’ persone, e con la seggiolina d’apoggio. Gia’ mi vien da ridere. Vedo sbarcare sul mio tavolo – il quale si riempie in poco tempo – nell’ordine: flavoured cappuccino gusto caramel (con i free refill arrivo a berne 3), comprensivo di panna montata, 2 pancakes con pezzi di cioccolato bianco, panna montata e fudge al cioccolato fuso, ed infine un Grand Slamwich (supremo sandwich) con al suo interno carne, uova, prosciutto e formaggio fuso, con contorno di.. frutta in pezzi! Il tavolo appunto, e’ pieno come fosse apparecchiato per 4 persone. Lo stomaco pero’ e’ uno solo ed e’ quello di un pirla. La scena mi diverte un sacco, ho a disposizione un sacco di cose e di qualsiasi tipo, dal dolce al salato alla frutta, e non so nemmeno da dove cominciare. So solo che non finiro’ tutto! Inizio ad addentare con voracita’, e come uccel di bosco salto da carne e formaggio a pancakes e cioccolato. Un’agilita’ felina. Intorno a me invece, l’agilita’ e’ una parola credo sconosciuta. Credo il peso minimo sia 100 chili. Non c’e’ una persona che pesi in modo ottimale. E non posso esimermi dal pensare a me stesso, in un’ipotetica vita nel continente, dopo qualche mese di alimentazione americana. Peserei 100 chili a mia volta. Soprattutto perche’ cerco di ingozzarmi il piu’ possibile. Penso sempre “Magna caro che ora de sera te ghe na fame che te te cappotti”, e via giu’ cibo. Di tutte le prelibatezze che affollavano il mio tavolo, avanzo un pezzetto di melone, 1 boccone di pancakes e uno di sandwich. Un’ottima prova, come prima colazione. Direi voto 8. Soprattutto se confrontata con le colazioni che facevo fino a due giorni fa: muesli e fette biscottate. Mamma mia. Mi vengono i brividi a pensare a quanto triste saro’ al mio ritorno, per dover tornare a tali misere colazioni. Tutto sommato pero’ potrebbero anche tornare utili, visto che gia’ ora, dopo appena un giorno, con quello che mangio rasento il limite dell’obesita’. Torno alla macchina, e mi rimetto alla guida. Potrei guidare questa strada ad occhi chiusi oramai, e non lo faccio solo per ovvie ragioni di sicurezza stradale. Non voglio finire in cella. Arrivo finalmente in un parcheggio che da su una baia adocchiabile, e decido di fare un stop sgranchisci-gambe, fotografico e odontoiatrico. Devo assolutamente detergermi le zanne, cosa che non faccio su per giu’ da una quarantina di ore. Dubito mi farebbero girare uno spot della Mentadent come dubito avrei successo con una donna svedese, attualmente. Estraggo il materiale dalla recuperata valigia e mi lavo alla buona, sputando il tutto nel bel mezzo del parcheggio come fanno gli onti piu’ seri. Mi dissocio dalla categoria ma stavolta, un po’ ne faccio parte. Mi fermo a far benzina in un posto dove c’e’ un enorme, mastodontico RV che sta rifornendo. Dannazione – penso fra me e me – quanti prestiti devono chiedere questi per fare un pieno? Ok che verosimilmente costoro o cacano soldi la sera o non possiedono di contro una casa, ma se confronto il pieno da 40$ alla mia utilitaria ad un pieno per un bestione del genere.. a me sinceramente vengono i brividi. In Italia cose del genere durerebbero due giorni, il tempo di realizzare il costo della benzina. Che e’ aumentata anche da queste parti, noto. Anno dopo anno, e’ inesorabile anche in un paese che sembra (o vuol sembrare) in possesso di scorte indefinibili di materia prima. Abbandono il mastodonte per continuare a guidare la 101 verso Lake Crescent e poi prendere la deviazione per Sol Duc. Al solito, mi piacciono da matti i nomi in cui ti imbatti girando per parchi nazionali! Chissa’ per cosa diamine sta “Sol Duc”. Ecco piano piano che il clima, anzi l’atmosfera muta: mano a mano che inizio a costeggiare il lago, sono quasi teletrasportato in Scozia, dalle parti di Loch Ness. E’ quasi la stessa cosa: una nebbiolina sottile aleggia alle basi della vallata, il lago che sta al centro – acque color smeraldo al centro, un blu elettrico a meta’ via, trasparenti a riva – i monti che salgono, densamente alberati, verso l’alto. La 101 si snoda lungo il lago. La strada e’ stupenda, piccola, alberata, sembra di guidare il viottolo che conduce al piu’ grande e nobile dei castelli medievali. Sembra anche una buona strada per correrci un rally, per la sua conformazione. Non mi faccio pero’ troppo distrarre, e’ comunque bagnata e stretta e guardare troppo a lungo fuori dal finestrino potrebbe indurmi all’errore. E finire giu’ nel lago non sarebbe proprio il coronamento migliore per questa vacanza. Decido di fermarmi un po’. Pochissima gente, conto 3-4 macchine nel giro di una decina di minuti, il che vuol dire che il parco dev’essere semivuoto. Salgo sopra un piccolo sperone che da sul lago, ed assaporo l’atmosfera in solitaria, come piace a me. E’ stupendo. Ci si sente in un mondo diverso, mai vissuto, in un mondo in cui regna la foresta, il verde, e non il cemento. E’ grandioso. Dentro  di me inizia a girare piano piano quell’ingranaggio che ti fa sentire vivo veramente, partecipe del mondo in cui sei, felice di fare e vivere cio’ che stai facendo. Piano piano, sto entrando in quella che io chiamo “vacanza”. Sono fiero, in momenti come questo e in molti altri ancor piu’ belli, di non esser sdraiato sotto un ombrellone al mare. Riprendo la mia carretta ed arrivo a Sol Duc, dove il mio obiettivo – importantissimo prefissarsi tanti mini-obiettivi in viaggi del genere – e’ camminare fino a Sol Duc Falls, che in teoria non sono cascate magnifiche ma che valgono comunque la pena di una camminata. E poi, sara’ il mio primo, vero assaggio di foresta pluviale. In Olympic, le foreste pluviali sono principalmente due, Hoh e Quinault (la prima e’ stupenda come nome, la seconda pronunciata “chinol”, accento sulla “o”) anche se un buon assaggio lo si puo’ avere anche a Sol Duc e a Kalaloch, giu’ verso la spiaggia. Io non sto piu’ nella pelle, immagino meraviglie di posti del genere e a giudicare dagli inizi, credo non verro’ deluso. Smonto dalla macchina e mi avvio alla trailhead partendo da un parcheggio praticamente deserto: due vetture. Top. L’unica cosa wrong al momento e’ che piove. Ovviamente con la fitta foresta la pioggia che filtra al suolo si riduce notevolmente, ma e’ abbastanza per mettere in pericolo gli effetti contenuti nel mio zaino. Opto per vestire subito il kway e il coprizaino impermeabile. A giochi fatti, posso dire di sembrare un pagliaccio. Una specie di sasquatch colorato che cammina con uno zaino in spalla. Il mio kway (Union Cadoneghe, ndr) dopo 10 minuti e’ piu’ umido di una stella marina – il che vuole dire, camminando in tshirt, che ho le braccia bagnate – e deduco che non mi servira’ un cazzo. Molto bene. Il coprizaino invece, essendo stato largo con la taglia il giorno in cui lo presi via internet, mi penzola semiaperto verso il basso. In pratica, cammino con una mano che lo sorregge. Mi sento uno scemo. Ah, per non parlare dei momenti in cui sciaguratamente decido di estrarre la reflex dal groviglio di bottiglie, felpe, survival kits che ho nello zaino e fare una foto. Ci posso impiegare potenzialmente delle ore. Goffamente, inizio a camminare con la camera appesa al collo, tenuta sotto il kway-carta da formaggio per evitarle doccie ancor piu’ grandi. Scattare una foto in queste condizioni diventa un’impresa. Bisogna giocare con l’elasticita’ del proprio collo alla trazione esercitata dal laccio della camera, evitare la pioggia, cercare l’angolo giusto, e in piu’, in condizioni di scarsa luce, stare il piu’ fermi possibile. Credo mi sarebbe piu’ facile imparare la Divina Commedia a memoria. Ad ogni modo, rubando le parole al grande Rocky Balboa, mi dico “Io ci provo”, e scatto. E cammino. Arrivo alle falls, che non sono appunto nulla di straordinario. Per di piu’ c’e’ anche il tronco di un grosso albero a meta’ cascata che rovina una vista potenzialmente carina. Solo qui pero’, mi fermo, a contemplo i dintorni. Realizzo la vera bellezza del posto. La foresta e’ incantevole: il verde e’ un verde intenso, saturo, non di certo secco. La natura e’ viva, pulsante, l’acqua la riempie di vita ogni giorno qui. Le cortecce degli alberi sono tutte, tutte ricoperte di muschio, qui verde qui ramato, qui giallognolo qui marroncino. I licheni sono ovunque, le felci si notano qua e la e quelle strane “alghe” come le definisco io, color verde sbiadito, che infestano i rami degli alberi come a renderli “spettrali”, sono dappertutto. Insomma, sembra di essere tornati indietro al tempo in cui non esisteva nulla sulla terraferma eccetto qualche insetto e tanta, tanta vegetazione. E’ incredibile. E quella nebbiolina “sinistra”, che rimane permanentemente sulla foresta, aggiunge ancor piu’ pathos al posto. Sono veramente meravigliato. Mi trovo a poche ore di macchina da Seattle, da Vancouver, da cemento, aeroporti, Subway e quant’altro eppure potrei dire di essere al Jurassic Park. Questo, signori, e’ il bello dell’America. La sua vastita’ e’ la sua bellezza. La sua diversita’, il suo gioiello. Cammino incantato fino al parcheggio e ritorno alla 101 per proseguire fino a Hoh. La vera rainforest. Mi aspetto il clou, da quelle parti. Mi son segnato la Spruce Nature Trail, una breve escursione nella foresta con cartelli esplicativi della flora locale. Di solito tendo ad evitare qualsiasi cosa si chiami “Nature Trail”. Nella mia mente di camminatore rodato, equivale a dire qualcosa tipo “Brevissima camminata per famiglie con bambini al seguito, per panzoni schifosi che non vogliono rompersi il culo a camminare ma preferiscono farlo con il loro hamburger in mano o ancora per vecchi turisti ansiosi di imparare nozioni sulla flora del posto”. Ora, so che per la cartellonistica di un parco e’ decisamente piu’ conveniente (politicamente ed economicamente) scrivere “Nature Trail” al posto della mia manfrina, pero’ volendo essere onesti, io scriverei cosi’. No doubt. Il fatto e’ che in una rainforest, in Olympic, dove il 95% circa del parco e’ designato come WILDERNESS, una nature trail puo’ essere il posto migliore dove avere un buon assaggio dell’insieme, senza per forza finire disperso o tra le fauci di chissa’ quale bestia preistorica occultata nelle foreste. Entro a Hoh, dove ovviamente continua a piovere. Qui rimango ancor piu’ a bocca aperta. Nonostante nel parcheggio vi siano 4 o 5 macchine (un sacco di gente, vero?!), lungo la trail mi sento assolutamente solo. E qual modo migliore per assaporare il paesaggio? Cammino sotto le fronde di alberi possenti, contorti, muschiati. Si, come i buoi, muschiati. E’ pieno di felci. Grosse felci. Felcione. E’ un posto con talmente tanto verde che fa impallidire l’Irlanda. E’ la foresta piu’ bella dove abbia mai messo piede. Anche di Sequoia, California porto ottimi ricordi, ma qui e’ speciale. Incantevole, ancora. Ogni angolo che giri, ogni albero sono peculiari. Ogni tanto scorgi un Robin o qualche altro piccolo uccello che vola di ramo in ramo. C’e’ qualche piccolo, grazioso uccellino giallo e nero che e’ talmente veloce da rendere impossibile una foto. Guadagno la via del fiume e cammino per un po’ lungo il suo corso. Qui invece sembra Alaska. Acqua grigia, chiaramente derivante dallo scioglimento delle nevi delle sovrastanti catene montuose, un letto pieno di sassi, alberi trascinati dalla corrente. La solita foschia. Foresta ovunque. Manca solo un grizzly (che qui non esiste) che sbuchi fuori verso il fiume, a caccia di salmoni. Into the wild.

venerdì 15 giugno 2012

Il solito primo, merdoso giorno di scuola - pt.2

Mentre attraverso il ponte che mi porta da Tacoma a Gig Harbor, e vedo profilarsi in lontananza le cime grigie ed innevate dell’Olympic Range, concludo che in ogni caso non avrei potuto salire fino ad Hurrican Ridge. Cosi’ a spanne, le condizioni restano proibitive. Prima di partire, avevo avuto cura di informarmi sulle condizioni dei parchi in cui sarei stato. E sebbene Olympic fosse quello preso meglio, Hurricane Ridge veniva segnalata chiusa all’accesso dei veicoli (parlo di montagne alte mediamente 1800 metri e non piu’ alte di 2100) mentre Enchanted Valley, una valle incastonata fra due mini-catene montuose nel sud-ovest del parco, popolare meta escursionistica ed orsistica (infestata di orsi neri), veniva data con almeno 30 centimetri di neve. A vedere il tutto da cosi’ distante, direi siano sommersi dala neve attualmente. Cerco di non farmi prendere dallo sconforto arrembante. Ho iniziato la mia avventura da qualche ora soltanto, ma sembra siano passati giorni, e tutti di merda. Mi faccio coraggio. Al WalMart, aspetto 10 minuti un fottuto commesso – uno sbarbatello di quelli che di solito trovi a sputare negli hamburger di McDonald – in uno stato di dormi-veglia acuto, indotto anche dal fatto che nessuno fortunatamente viene a sfasciarmi i testicoli. Lo sbarbatello alla fine, mi consegna i miei pacchi, e io me ne vado. Anzi, lascio li i pacchi – che sono enormi! – e vado in cerca di un gallone d’acqua. Mi infiltro nello scomparto ACQUA, e cerco. Cerco. Cerco, ma non trovo dell’acqua. Oddio, trovo di tutto: acqua al lampone, al mirtillo, all’arancio, persino al cocco ed ananas, ma NON trovo dell’acqua all’acqua. Pazzesco. Scopro piu’ tardi che i galloni si trovano sul retro dello scompartimento, come qui la prima cosa che un americano cerca fosse acqua aromatizzata. E spinto dalla tristezza e da un coraggio che qui in America, per quanto mi riguarda, non ha fine, prendo anch’io un’acqua non all’acqua. Solo al limone pero’. Ricolleziono il mio scatolame, e torno alla macchina. Mentre arranco con questa pila inumana di scatole, chiedo a me’ stesso perche’ diavolo debbano circondare una tenda, un sacco a pelo ed una semplice stuoia con scatole in cui ce ne starebbero 3 di ognuno. Cazzo io non sono alto 2 metri e pesante 200 pounds e non ho nemmeno un Silverado o un Heavy Duty (2 grossi modelli di pickup) dove mettere tutta sta roba! Bah. L’unica cosa che mi offre ristoro in questo pomeriggio da bombe atomiche e’ il paesaggio. Almeno, considerato senza dar troppo peso al meteo. Il cielo infatti e’ diventato grigio, il sole pressoche’ nascosto dietro a fitti strati di nubi e qualsiasi cosa appare incupita. Ai lati della strada pero’, l’erba e’ verde. Ci sono tantissimi alberi. Ci sono fiori ovunque: gialli e viola perlopiu’. E se penso che alla fin fine sto solo guidando lungo una grossa strada regionale, credo che in mezzo alle foreste ci sia dello spettacolo al momento. Fiori dappertutto. Avro’ il tempo necessario per constatarlo di persona. Per ora devo accontentarmi di roadside wildflowers. Il tempo passa, la stanchezza monta e finalmente arrivo a Port Angeles, la citta’ piu’ degna di tal nome nelle immediate vicinanze di tutto il parco. Gli altri sono piu’ che altro paesi, paeselli, insediamenti, villaggi. Port Angeles puo’ vantare circa 18000 persone, una metropoli qui dalle parti della foresta. Io sono fortunato a trovare subito il mio motel, un Super8 che avevo ovviamente avuto la premura di prenotare da casa. Si trova infatti giusto alla prima via della citta’, rilzato su un piccolo avvallo come a dire “Ehi stronzo turista appena arrivato, non devi nemmeno sprecarti a cercare in giro”. Prendo volentieri dello stronzo dall’immaginaria effige e parcheggio la macchina. Non prendo nulla eccetto il portafoglio. Una volta dentro, scopro che la mia premura e’ stata anche troppa. Tradotto, non c’e’ un cane in motel, e avrei potuto benissimo passare da queste parti all’improvviso e trovare camere a bizzeffe per cifre comunque vantaggiose. Pare – dico, pare – che la stagione non sia ancora cominciata. Buon auspicio. Vado in camera giusto per dare un’occhiata e lasciar giu’ la felpa, ma vengo attratto magneticamente dal letto. Mi ci tuffo e resto in sonnolenta contemplazione, faccia insu’, per qualche minuto. Il mio cervello decide pero’ saggiamente che prima di dormire, lo stomaco bisogna riempire, e lesto mi alzo per andare a cena. Sono preso come un imbecille, dalla faccia si legge chiaramente che non dormo da tempo immemore (o che ho preso uno strano mix di sostanze poco definite) ma sono determinato a non farmi mettere dentro come “tipo sospetto” e a fare semplicemente una buona cena. Mi reco al porto (“Al porto! Vedrai, dove ti porto!”) e scelgo un locale con graziose vetrate vista porto/entroterra, affianco alle quali prendo posto ed inizio a scrivere qualche appunto. La mia prima cena americana dell’anno. La inauguro poco dignitosamente, per i miei standard. Notando la scarsezza del menu – almeno, di quello con costi decenti, ho scelto un posto raffinato a quanto pare – opto per del clam chowder e per un piatto di fried prawns e french fries. Mi sento un lupo di mare per bene, un viaggiatore di quelli incalliti che hanno il mare ed i gabbiani come compagni d’avventure, mentre scruto fuori dalla finestra, gomito sul tavolo e volto posato sulla mano, e prendo ispirazione per scrivere qualche riga. Ammiro un bambino che si diverte a salire su una scalinata e a giocare con le onde che vi si infrangono. Beata spensieratezza. Poi vengo attratto da un profumo familiare, quello di clam chowder. Il clam chowder che mi viene servito dalla camerirera. Ordunque, sono in una localita’ di mare, e da tale mi aspetto un chowder con la C ma anche la H maiuscole. Ed infatti, non mi delude. Annoto la parola “delizioso”. Anche se per me in verita’ ogni versione di questa pietanza e’ deliziosa. Potrei definirmi “addicted to clam chowder”. Quella sua consistenza cremosa, quella dolcezza caseario-burrosa che il mio palato percepisce (non conosco la ricetta – e non voglio saperla – quindi non posso dirlo con certezza) e infine, quella masticabilita’ molluscacea mi mandano al settimo cielo. Il fatto e’ che e’ sempre, sempre troppo poco. Nel paese dove credo sia incostituzionale mandare a casa una persona con un po’ di fame, in un paese dove un hamburger deve pesare almeno 300 grammi per essere a norma di legge, il clam chowder viene ancora servito in porzioni CUP. Cup?! Io in una cup ci bevo il caffe’, non ci mangio il chowder! Difatti c’e’ anche la versione “bowl” per gli stomaci piu’ capienti, ma spesso ragionamenti del tipo “E’ che poi mi porteranno un piatto da 4 chili e mezzo, non ce la faro’ mai a mangiare tutto!” oppure “Quei 3 dollari in piu’ pero’ mi seccano” (detto da uno che poi il giorno dopo ne spende 15 in gelati e cioccolato..lasciamo stare) .. dicevo, ragionamenti del genere frenano la mia voglia di bowl. Un giorno pero’, mi nutriro’ solo di questa pietanza. Delizio il mio palato con cucchiate di cremosi molluschi in zuppa, e passo poi ai gamberetti. La panatura ottima, mangiarli pero’ e’ come inghiottire sassi. Cazzo se son pesanti, piombano nel mio stomaco come farebbe una pallottola su un panetto di burro. Ne mangio 8 su 10, sgancio la grana ed esco per fare due passi digestivi e magari qualche foto. Ho una reflex arrivata una settimana fa che posso dire di non aver quasi utilizzato. Non so perche’ ma presento che sara’ un disastro con le foto. Fuori l’atmosfera e’ gradevolissima: non si sta male in manica lunga leggera, pantaloncini corti. Vedere il mare e’ sempre bello poi – specialmente se non lo vedi da un posto che si chiama Sottomarina. Dovrebbero recintarla e chiudere tutto. Qui si sente la vera atmosfera di mare, addolcita, levigata da un po’ di attrazioni turistiche e da un overflowing di strutture ricettive, che tutto sommato non mi pesa. Faccio due passi nel senso che son proprio due. Mi sento troppo stanco, provato dalla lunghissima giornata (mezza europea, mezza internazionale, e mezza americana) per farne anche uno solo in piu’. Preferisco battere lentamente in ritirata verso la macchina, il motel ed un comodo letto. Rientro, e lascio l’auto in parcheggio. Esco, e ricordo che devo ancora prendere la valigia. Apro il bagagliaio. Questa carretta e’ talmente all’avanguardia (l’ho gia’ detto cos’e’?! Se no, lo dico ora, se l’ho gia’ detto e’ bene che lo ripeta: una Hyundai Accent) che non ha nemmeno un pulsante – sia esso sulla plancia o sulla chiave – per aprire il bagagliaio. Devo aprirlo girando la chiave. Ai tempi della prima Panda siamo. Ma questi pensieri semi giocosi fanno presto a dissiparsi. Una volta aperto il bagagliaio infatti, lo trovo desolatamente VUOTO. Vuoto. Realizzo in 0,2. Mi inginocchio, mani sulla testa, e rimango per un minuto a fissare con sguardo assente il cemento a 50 centimetri dalla mia faccia. Sono riuscito a lasciare la valigia al banco del car rental. Non ci voglio credere. Trovo la forza morale piu’ che fisica per rialzarmi, e faccio un misero, inutile tentativo per provare a trovare una valigia sui sedili posteriori. Cio’ ovviamente, non accade. Fioccano troppi pensieri, come corollari ad una legge matematica: il pensiero di averla ormai persa, il fastidio di dover perdere ancora tempo chiamando gli idioti al telefono per avere notizie, e nel caso esse fossero positive, l’ancor piu’ grande, immenso fastidio di dover perdere altre 4-5 preziosissime ore di tempo per tornare indietro e riprenderla. No, e’ il colpo di grazia. Pensavo di aver toccato il fondo, di averle avute tutte per oggi, questa non ci voleva. Una mazzata che mi getta a terra. Rientro sconsolato al motel, non ho nemmeno la mia proverbiale verve nell’imprecare – che in questi casi mi sostiene saldamente e mi contraddistingue. Elemosino un telefono alla gentile ragazza al desk, a cui racconto la mia storia e dalla quale raccolgo compassione e il desiderato telefono. Compongo il primo numero trovato in internet e – a proposito di call center, di cui parlavo in giornata – chi mi risponde? XXX Car Rental Los Angeles! LOS ANGELES??!! Io voglio Seattle!! Puo’ esplodere LA!! Passatemi Seattle ed i cretini che vi ci lavorano, please! (Conversazioni iperboliche che riflettono i miei impuri pensieri del momento) Attendo un numero indefinito di secondi che, date la mia rabbia, frustrazione e disperazione, mi sembrano lunghissimi. Rispondono da Seattle, mi sembra quasi di riconoscere la voce dell’interdetto che mi ha fatto penare come un cane qualche ora prima. Mi dicono, almeno una buona notizia, che hanno la mia grigia valigia li’ da loro. L’ho lasciata giusto sotto il desk. Ricordo bene la scena ora: appena finito di pagare, mi sono girato e sono corso giu’ dalle scale. Ricordo benissimo anche un’altra cosa, ora che mi sovviene: di aver pensato di sentirmi fin troppo leggero, mentre scendevo DI CORSA i 3 piani di scalini per non perdere tempo in ascensore. Devo imparare a dare un po’ piu’ peso alle mie sensazioni, certe volte. E’ evidente. Metto giu’ il telefono, libero quantomeno da uno dei pesi che mi si erano accumulati sulle spalle, e mi dirigo in camera. Sprofondo nel letto. Sono desolato. Volevo semplicemente rientrare in camera, farmi una doccia fresca e mettere a nanna le mie chiappe. E invece, mi son trovato a perdere altro tempo, a stancarmi il triplo, e a rincasare addirittura senza alcuna voglia di far la doccia. Sono stremato. Non faccio altro che riordinare un po’ di cose, mettere in valigia le magliette che avevo ordinato e che mi son state diligentemente recapitate in motel, e infilarmi sotto le coperte. Il pensiero di dover buttar via 5 ore della mia vita guidando strada inutile per andare in un posto inutile – per giunta durante le mie sudatissime vacanze! – mi annichilisce, sul serio. So che mi fara’ dormire male, ma provo a non pensarci. Tiro le tende il piu’ possibile (qui il sole tramonta alle 21.30) e scelgo il cuscino ideale. Prima di chiudere gli occhi, sul mio diario annoto in maiuscolo: INCREDIBILE.

martedì 12 giugno 2012

Il solito primo, merdoso giorno di scuola - pt.1

19 MAGGIO – Seattle-Port Angeles

Mi hanno sempre detto che nella vita “Chi dorme non piglia pesci”. E’ con questo spirito che il 19 maggio affronto una traumatica sveglia alle 2.30 della notte, pensando che in effetti dormire non avevo dormito una mazza e di pesci dunque avrei dovuto prendere a quintali, nei giorni a seguire. Faccio colazione con ancora la cena che finisce il suo percorso digestivo, mi lavo i denti prima di mettere lo spazzolino in valigia e far fagotto verso l’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna, dove arrivo alle 4.45. Un’ora dopo, l’alba. Mentre il sole si fa coraggio e sale oltre l’erba, oltre gli edifici che contornano la pista di decollo, e l’aereo mette in movimento i suoi potenti motori, io trovo interessante argomento di riflessione in: “Ma poi, che cazzo ha fatto Marconi Guglielmo per meritarsi un aeroporto in suo nome?”. Giungo a soddisfacente conclusione pensando che la radio sia una risposta perlomeno sufficiente, e chiudo la questione. Se decollo con questi interrogativi, non oso nemmeno pensare di cosa staro’ discutendo con la mia psiche al ritorno. Dei bruchi, forse.

Lascio i picchi innevati delle Alpi – che mai mi saziero’ di osservare, nel loro bianco splendore – mentre la KLM mi propone uno spuntino che alla vista fa vomitare i maiali. Credo si tratti di una specie di sandwich al formaggio. Anzi, formaggio e granaglie, visto che il pane e’ composto da una ventina di varieta’ di semi. Tutto sommato pero’, non e’ poi tanto male, e mi viene servito accompagnato da una buona fetta di semi-strudel. Dai, la KLM viene promossa per ora. Il pranzo sara' la prova del nove. Il tempo di atterrare e di trovare il gate giusto, che vedo il momento del pranzo clamorosamente defilarsi. Pare proprio che il check-in stavolta durera’ una vita. Ora, non so se i miei amici americani abbiano cambiato qualcosa in materia di entrata nel loro paese – il che e’ probabile, visto che la cosa ha la frequenza di un aumento della benzina in Italia – ma sembra che ogni passeggero venga interrogato anche prima dell’imbarco. Vedo formarsi di fronte a me una coda lunga almeno 50 persone, ognuna delle quali viene fermata da uno dei 4 ispettori presenti, portata di fronte ad una specie di leggio dove vengono formulate diverse domande. Quando per grazia divina arriva il mio turno, vengo tartassato di domande. La piu’ idiota e’ “E’ tutta di tua proprieta’ la roba che hai in valigia?”. Avrei tanto voluto risponderle che stavo semplicemente riportando indietro dei vestiti ad un amico che li aveva dimenticati in Italia, ma dubito mi avrebbe preso sul serio. Mi riguardo alle spalle, dove la coda continua e altra gente passa sotto le forche. Sembriamo un branco di criminali al primo giorno di gabbia. Mi immagino di li’ a poco ordinato di denudarmi, indossare un camice arancione e un paio di manette, e camminare sotto sorveglianza fino al mio posto in aereo. Fortunatamente la mia immaginazione viaggia anni luce piu’ della realta’, ed io posso semplicemente salutare sorridendo (e mandandola a fare in culo col pensiero) la mia interrogatrice e prendere regolarmente posto di fianco al finestrino. Mi aspettano 9 ore e 30 di volo.
Quest’ultime passano piu’ in fretta del previsto, grazie ad esempio ad una sola pisciata (con unico conseguente disturbo passeggero a fianco) e a del cibo di buona qualita’. Nel menu ovviamente compare il solito “pollo a qualcosa”, nel senso che qualche condimento c’e’, ma non sarai mai in grado di capire di cosa si tratta. Le verdure possono essere benissimo carne coperta di una patina verde. Tutto sommato comunque, la “cosa” e’ mangiabile. I bicchieri poi, sono gia’ di taglia americana (ovvero circa il doppio di un bicchiere dato che so, da Lufthansa, British Airways e via dicendo). A pranzo poi osservo letteralmente disgustato il mio vicino tedesco che prende il panetto di burro nel vassoio e lo adagia intero su un misero cracker. E lo ingolla. Brrr. Mangia tutto, come un’anatra. Non lascia avanza nemmeno la poltiglia di simil-verdure che anzi condisce con generosa mayo. Non c’e’ mai limite al disgusto a quanto pare. Giro lo sguardo al finestrino, per vedere se lo spettacolo offerto e’ migliore. Migliore lo e’, assolutamente: sono ormai sopra le Rockies canadesi, montagne meravigliose, ma ora come ora innevate. Vedo piu’ bianco che altri colori. Controllo l’orologio: ancora, 19 maggio. Ripenso alle mie montagne, le Alpi, le Dolomiti. A quest’ora, mi dico, credo che ci sia ancora neve dai 2500 in su se tutto va bene. Non avrei problemi a camminare quasi da nessuna parte. Qui a quanto pare, le cose cambiano di gran lunga. Sebbene in quanto a latitudine tra Bolzano e Vancouver non passi granche’, sembra di confrontare l’appennino toscano con la Marmolada. Convegno che avro’ pane per i miei denti con questa frase che annoto: “I’ll have my business on the trails out there”. In poco tempo atterriamo. Il momento piu’ emozionante e’ l’arrivo sopra Seattle. La citta’ – apparte il groviglio di canali ed isol che gia’ si intravvede – non dice nulla, la cosa che spicca come un enorme brufolo giallo sulla faccia di un 14enne.. anzi no, come similitudine e’ un po’ vomitevole.. diciamo che spicca possente all’orizzonte, e’ Mount Rainier. Magnifico. Magnetico. Calamita la mia attenzione finche’ il pilota me ne consente la vista, prima di virare. Mount Rainier – che e’ una montagna ma anche un parco nazionale dal 1899 – sarebbe un vulcano, e un gran pezzo di vulcano per giunta (4392 metri), anche se attivita’ vulcanica in loco non si registra da tempi piuttosto lunghi. E’ possente, troneggia –quando le nuvole onnipresenti consentono la sua visione – su gran parte del WA occidentale, tant’e’ che gli abitanti delle citta’ piu’ vicine (Seattle – Tacoma) si riferiscono ad esso come “The Mountain”. Questo e’ possibile perche’, se ne vedete una foto, noterete che e’ l’unico rilievo nel raggio di decine di miglia. Non fa parte di una catena montuosa – cosa verosimile nel caso di vulcani – ma proprio come un grosso brufolo giallo spunta fuori gagliardo dalla terra, potente. Mi e’ stato detto che e’ possibile vederlo chiaramente, nei giorni di estrema limpidezza, anche da Portland, Oregon (OR) che sta circa 180 kilometri a sud, in linea d’aria. Penso a tutto questo, ai racconti che ho letto sull’attrazione magnetica che ha esercitato nei secoli verso innumerevoli popoli e persone – dai primi nativi ai contemporanei visitatori del parco – mentre lo vedo piano piano scomparire dietro le ali dell’aereo. Ormai, e’ tempo di posare le ruote a terra, e con le ruote, finalmente anche i miei piedi. Recupero a tempo di record la valigia, passo velocemente e per fortuna inauspicata i controlli (un gentile signore apre un gate che era chiuso proprio davanti a me!) e sono davanti al desk della compagnia di noleggio auto in men che non si dica. Sono in vantaggio di 30’ sulla mia tabella di marcia e con una giornata del genere, rifletto, credo proprio non mi lascero’ scappare una guida fino ai piedi del Rainier. Ma Napoleone diceva “Bisogna considerare l’eventualita’ che tutto vada al peggio, e solo dopo averlo fatto si possono studiare le altre possibilita’”. Mai parole furono piu’ sagge. E mi ero tenuto largo apposta, in fase di preparazione della mia tabella di marcia. Semplicemente, non mi sarei mai aspettato quello a cui stavo andando incontro. Formalizzo gli ultimi dettagli del mio contratto con la compagnia di noleggio, mi faccio anche appioppare un’assicurazione che fatalita’ nello stato di WA e’ obbligatoria (e giu’ altri 11$ al giorno), ed estraggo a mo’ di Colt 45 la cartadi credito per pagare il ceffo. Strisciata, attimi d’attesa e.. la carta non e’ accettata. Provenendo mia sfortuna dal mondo bancario, invito il ceffo a riprovare – si sara’ trattato di un disallineamento temporaneo. Secondo tentativo.. ma il risultato e’ lo stesso. Diamine. La carta che sto usando mi e’ stata recapitata in ufficio 3 giorni prima della partenza, ristampata in seguito ad un tentativo di clonazione che qualche bieco individuo aveva messo in atto nei miei confronti tramite il web. Il plafond e’ ovviamente al massimo, la carta dev’essere per forza d cose attiva, quindi non mi capacito del motivo onestamente. Ma ho altre armi. Estraggo un revolver, la mia seconda carta di credito, quest’ultima con un plafond leggermente inferiore ma che reputo – al netto delle spese gia’ fatte – sufficiente alla bisogna. Strisciata numero tre, e.. funziona, ma il plafond non e’ sufficiente. Nella mia mente, nuvole, nuvoloni, cumulonembi carichi di tempesta, fulimini e grandine si addensano. Foschi pensieri affollano il mio cervello. Fra la tempesta che monta, come un nostromo che tenta di governare una nave nel mezzo di una burrasca, provo a giocare la carta della disperazione ed estraggo l’ultima arma, una rivoltella: il bancomat. Sinceramente, ci faccio affidamento quanto un padre farebbe affidamento sul figlio di 5 anni per guidare l’auto. Ma nei momenti di carestia, va bene tutto. Ovviamente – ci avrei scommesso – non viene accettato perche’ il debito e’ recepito solo se proveniente da banca americana. Bene. Sono in un oceano di merda. Ripenso alle spese che ho fatto con la seconda carta di credito – fra i vari, il biglietto aereo per la Svezia 2 giorni prima di partire, maledetto me – ma piu’ che altro penso al dannato motivo per cui la prima carta non sia utilizzabile. Consulto il ceffo (lo chiamo cosi’ solo perche’ mi piace il nome, in realta’ e’ un gentile signore di origine messicana sulla trentina) e lo convinco a prestarmi il telefono e a farmi chiamare la VISA. Dopo minuti e minuti di attesa, dopo minuti e minuti per capire che diavolo di tasto devo schiacciare, arrivo a parlare con una ragazza moldava ho idea, che altro non sa dirmi che contattare la banca, perche’ loro hanno le mani legate. Ora, due cose. La prima: ho una bassa considerazione dei call center delle piu’ grandi compagnie che operano worldwide. La VISA, ad esempio. Ti trovi, tu italiano, pronto ad impiccarti di fronte al desk di un car rental a Seattle, a parlare della tua cazzo di carta che non funziona con una ragazza che pronuncia le parole in inglese peggio di te e che di sicuro si trova a meno di 3-400 kilometri da Chernobyl! Ma fatemi il piacere. Cosa numero due: siete voi, cari amici moldavi/indiani/puerto ricani o qualsiasi altra nazione soggetta a questi internazionali malfattori, consci del fatto che esistono delle cose chiamate FUSI ORARI che fanno si che nel mio paese, ora come ora, la mia maledetta banca sia chiusa?! Forse no. E la VISA dovrebbe formarvi su cio’, prima di darvi il telefono e le cuffiette per rispondere alle mie telefonate! Metto giu’ il telefono e vengo fatto accomodare in attesa di un secondo ceffo che, mi viene detto, potrebbe sapere un codice per farsi comunque autorizzare la transazione. Mi si accende un flebile barlume di speranza, e con questo mi accomodo sulle seggiole, as aspettare una lunga, infruttuosa, interminabile ora. So cosa fare, nel frattempo: scrivo a mia madre affinche’ scuota il mondo per questo problema, e scrivo alla mia banca, affinche’ si dia una scossa a meno che non voglia che la scuota io al mio ritorno (con mezzi e termini meno appropriati). Ammazzo il tempo. Anzi, a dire il vero e’ lui che ammazza me. Sono a due passi dai posti dove sognavo di essere da mesi ma sono legato ad un marcio di desk senza veloci vie d’uscita. Nella mia mente scorrono film: vedo – come in quei filmati velocizzati – decine e decine di persone che camminano davanti a me, si fermano a far due parole, prendono una macchina e vanno via. Lo fanno per decine di minuti. Io sono l’unico che rimane seduto sulle panche per tutto il tempo. Triste da morire. Ma anche gli ultimi prima o poi vengono ricordati, e viene anche il mio turno. Senza buone news a quanto pare. Il ceffo arrivato non e’ il risolutore, il messia che aspettavo, anzi pare piu’ ignorante del suo collega, ed io rimango con un pugno di mosche in mano. E’ sabato, la banca non aprira’ prima di domenica alle 23, ora locale. Mi viene proposta la seguente soluzione: a meno che io non decida di pagare l’intero noleggio con cash (cosa che non faro’, perche’ mi fumerebbe il 90% dei 1500$ che porto con me, deposit incluso) posso pagare un mini-noleggio di 3-4 giorni, il tempo necessario per contattare la banca e sistemare la grana. E a me, a quanto pare, utile per completare il giro dell’Olympic Peninsula che ho programmato. Mi pare sia l’unica cosa da fare, tutto sommato – orma la tragedia e’ avvenuta – non mi rovina troppo i piani. Accetto, esborso – chissa’ che sifonata mi avranno tirato, non ho nemmeno guardato i dettagli da quanto arrabbiato e assonnato sono – e me ne filo via ai mille all’ora. Non ne voglio piu’ sentir parlare. Sono due ore e mezza della mia vita che ho passato davanti al desk di una compagnia di autonoleggio, pazzesco. Scappo. Raccatto la mia scassarola, al solito controllo i danni preesistenti (pare che sia finita dentro la gabbia di un leone, ha graffi dovunque e sono tutti segnalati. Dovro’ porre attenzione) e sgaso a tutta verso Port Orchard, al WalMart, dove prendero’ l’ordine fatto a suo tempo da casa per tutto il materiale da campeggio. Ho un sonno becco. Non so nemmeno che macchina sto guidando, non l’ho ancora realizzato e sinceramente non me ne frega una mazza. Devo ancora sbollire l’incazzatura. Mi sento un po’ come Giovanni (del trio, Aldo Giovanni e Giacomo) quando gli rigano la macchina e rimane minuti e minuti in silenzio con lo sguardo fisso nel vuoto. Ecco, mi descrivo bene cosi’. Sono all’inizio del viaggio e ho gia’ finito le imprecazioni possibili immaginabili. Sto zitto, ed e’ meglio. Guido assorto nei miei inenarrabili, sproloquiosi pensieri.

domenica 10 giugno 2012

"Green, Gray and Blue": A Drive through the American NorthWest

Era da parecchio tempo che nella mia testa andavo cercando il NordOvest. Le immagini di fitte foreste, di montagne innevate, di laghi color smeraldo non si levavano piu’ dai miei pensieri. Avevo ormai accantonato il capitolo deserti, terre rosse e hoodoes: l’anno scorso ne avevo assaggiati in abbondanza. Volevo scoprire quell’angolo “in alto a sinistra” degli USA che ancor mi mancava. Poi, avrei potuto dire, il West l’avevo visto. Texas a parte (“..only one still hurts.. TEXAS!” cit. Jason Aldean, “Texas was you”).
La meta ormai, era decisa.
Avevo in mente un’altra cosa, un altro pensiero che iniziava ad assillarmi: tornare nella mia seconda casa a maggio. Perche’ maggio? Semplice! Pochi turisti, piu’ possibilita’ di vedere animali, prezzi piu’ bassi, e tanto, tanto verde in piu’ e tanta, tanta acqua in piu’ nelle cascate. E credetemi, in stati come Oregon e Washington, dove esistono addirittura siti che elencano e danno un rating alle cascate presenti, esser presenti in settembre o in maggio fa una certa differenza!
Stranamente – troppa fortuna – lavorativamente parlando la cosa poteva essere fattibile. Non ci ho pensato due volte.
Pochi giorni dopo, la sera del 23 marzo, potevo annunciare gaudioso che il 19 maggio sarei partito da Bologna con destinazione Seattle, stato di Washington (WA). Non stavo piu’ nella pelle. Con la benedizione e gli auguri dei miei amici d’oltreoceano, inizio finalmente a programmare il mio futuro viaggio nel NordOvest.


“Green, Gray and Blue” e’ un titolo che e’ sorto quasi spontaneo nella mia testa durante uno dei tanti momenti in cui, alla guida della mia rental car, riflettevo fra me e me. E’ un titolo che spiegare mi sembra anche stupido, tanto sembra intuitivo cio’ che ci sta dietro. Ho voluto indicare con 3 parole il 95% di quel che ho visto nei miei 18 giorni d’avventura. Appunto, verde, grigio e blu. In 3 parole – potrei essere il migliore degli scrittori – ho riassunto il NordOvest: il verde delle sue foreste, il grigio dei suoi cieli nuvolosi, il blu dei suoi laghi, fiumi e torrenti. Il resto fa da contorno. Si’, c’e’ il bianco della neve sulle montagne; ma e’ quasi impossibile vederne le cime. C’e’ il giallo della luce sole; ma raramente riesce ad emergere dai banchi di nubi. Il resto fa da contorno.
Gran bello schifo, penserete.
Ed e’ qui che vi sbagliate. E’ qui che mi sbagliavo anch’io, quantomeno all’inizio.
Vedete, come mi dicevano saggiamente degli amici di Portland, Oregon (OR) questo e’ il vero NordOvest. Non e’ una terra di sole, di tintarella, di deserti. E’ una terra piovosa, nevosa, una terra ricca di vegetazione, di corsi d’acqua. E’ una terra, tanto per capirci, che ospita l’unica foresta pluviale del Nord America (Olympic National Forest & Olympic NP, WA). E come da copione, quel che i miei occhi hanno visto e’ stata molta pioggia, molta neve, e un po’ di riflesso, la mia pelle ha percepito anche DEL freddo.
Ho capito, dopo un po’, che forse le cose sono andate come dovevano. Certo, aver assstito a due settimane di sole e cieli azzurri sarebbe valso molta piu’ felicita’, uno spirito ben piu’ sollevato, e molte foto migliori. Ma sarebbe stato un po’ come andare nel deserto del Sahara e trovare una settimana di pioggia. Non sarebbe quel che il posto in realta’ e’.  Io posso dire di aver avuto una veritiera, nuda e cruda, esperienza del NordOvest.


Ora dunque, mettetevi comodi e preparatevi a leggere di 18 giorni di guida attraverso 4 stati americani – Washington, Oregon, Idaho e Montana – e di un breve sconfinamento in Canada – Alberta e British Columbia. Un totale di 6635 kilometri. Ho tante cose da raccontare, e scusatemi se saro’ un po’ prolisso per alcune cose. Ma saro’ vario: parlero’ non solo di posti, ma di tante persone, di tanti cibi, e di tante riflessioni mie personali.
E se solo alla fine di questa lettura anche voi sentirete una certa curiosita’, magari un certo richiamo verso quei luoghi magnifici.. beh, la piu’ alta delle mie missioni sara’ compiuta.


Buona lettura,

Manu “The Cloud Rider”