sabato 23 giugno 2012

Never seen a rainforest? - pt.1

20 MAGGIO - Port Angeles - Forks

Sono 10 le ore di sonno che mi servono per rimettermi in sesto dopo la tremenda giornata trascorsa ieri. Mi sveglio di cattivo umore, tralizzando che lo scherzetto della valigia mi costera’ all’incirca 5 ore di macchina – 410 km – e 25$ di benzina se tutto va bene. Il mio umore scende scale che pare non abbiano fine quando penso che non ho nemmeno con me uno straccio di spazzolino per detergermi le zanne, cosa che mi fa imbestialire (sto evidentemente pensando ad un elefante quando uso questi termini). Tiro su i miei sparuti effetti ed in pochi minuti sono in macchina, ad allontanarmi da Port Angeles sapendo che ci tornero’ in giornata. Come dire: sono a Torino, vado a fare un salto a Trieste, poi me ne torno da ste parti per pranzo. Mi vengono i brividi alla schiena. Mentre guido poi, le scale dell’umore diventano mobili, lisce e oliate: piove senza soluzione di continuita’. Il paesaggio sara’ anche veritiero – no?! Le classiche immagini da NorthWest – ma a me gia’ sta terribilmente sulle palle. Sono cosi’ intelligente da ripensare ai risultati raggiunti nella prima giornata di viaggio: un mare di chilometri avanti e indietro tra Port Angeles e Seattle. Stop. Mi complimento con me stesso, e ringrazio fato e sfighe varie per aver mandato a ortiche un sudatissimo giorno di ferie. Il peggiore di sempre, per quanto mi riguarda. L’unica cosa che riesce a trattenermi dall’essere scomunicato da qualsiasi chiesa e’ che riesco a vedere qualche wildlife lungo il tragitto. Mi imbatto in diversi elk e deer, un bel po’ di rapaciazzi, una bald eagle (sempre stupendo vederle!) ed un procione morto. Ricordo il modo di dire che forgiai un paio d’anni orsono mentre correvo le strade del Wyoming, “Tempismo da procione”. E’ proprio vero, questi graziosi ma sfortunati animaletti hanno un tempismo del cazzo. Credo che le probabilita’ che essi muoiano nell’atto di attraversare una strada rasentino il 99% (lascio un 1% nel caso la macchina sia cosi’ reattiva da fermarsi in tempo). Tutti questi simpatici animaletti pero’ non bastano a farmi cambiare umore. Sfondo ulteriormente quando per attraversare il ponte che gia’ guidai ieri in direzione opposta – quello prima di Tacoma – mi chiedono un pedaggio di 4 dollarozzi. Che?! Manco fosse il Golden Gate! Fa schifo. Maledette arpie. Arrivo in prossimita’ di Seattle e inizio a vedere un fluire di aerei piccoli medi e grandi. Deduco saggiamente di essere in prossimita’ dell’aeroporto. Ricordo l’uscita, trovo il varco giusto per i car rental, lascio la macchina alla carlona in parcheggio e filo dentro a riprendere il malloppo. Non ho tempo per niente e nessuno. Mi catapulto in macchina, sembra che abbia un bounty killer sulle mie tracce. Mosso ora anche dalla fame incipiente, guido veloce per uscire dall’ingorgo di cemento e freeways che caratterizza le vicinanze di un grosso aeroporto, e mi metto alla ricerca di una ciberia consona alle mie esigenze. Questa ciberia, nella mia mente, si chiama Denny’s. Ne trovo uno a mezzora dall’aeroporto. Anzi, ne ho visti anche prima sinceramente, ma la location non mi aggradava. Non mi piace mangiare in luoghi troppo cementificati, troppo insignificanti, tipo le periferie delle grosse citta’, tutte food chains e negozi d’automobili. Cerco di uscire il piu’ possibile fino a quando lo stomaco me lo permette. Ed eccomi finalmente, dopo mesi, varcare ansiosamente l’entrata del mio ristorante preferito. Una giovane ragazza di colore mi da un tavolo ed io inizio avidamente a leggere un menu’ che in realta’ conosco gia’ quasi a memoria. Ci metto poco ad ordinare, e come ogni volta, SBAGLIO, ordinando immensamente piu’ di quanto il mio ristretto stomaco italiano possa sopportare. Quando la cameriera torna con le mie pietanze, la vedo arrivare con uno di quegli enormi vassoi che usano di solito per i tavoli da 4 o piu’ persone, e con la seggiolina d’apoggio. Gia’ mi vien da ridere. Vedo sbarcare sul mio tavolo – il quale si riempie in poco tempo – nell’ordine: flavoured cappuccino gusto caramel (con i free refill arrivo a berne 3), comprensivo di panna montata, 2 pancakes con pezzi di cioccolato bianco, panna montata e fudge al cioccolato fuso, ed infine un Grand Slamwich (supremo sandwich) con al suo interno carne, uova, prosciutto e formaggio fuso, con contorno di.. frutta in pezzi! Il tavolo appunto, e’ pieno come fosse apparecchiato per 4 persone. Lo stomaco pero’ e’ uno solo ed e’ quello di un pirla. La scena mi diverte un sacco, ho a disposizione un sacco di cose e di qualsiasi tipo, dal dolce al salato alla frutta, e non so nemmeno da dove cominciare. So solo che non finiro’ tutto! Inizio ad addentare con voracita’, e come uccel di bosco salto da carne e formaggio a pancakes e cioccolato. Un’agilita’ felina. Intorno a me invece, l’agilita’ e’ una parola credo sconosciuta. Credo il peso minimo sia 100 chili. Non c’e’ una persona che pesi in modo ottimale. E non posso esimermi dal pensare a me stesso, in un’ipotetica vita nel continente, dopo qualche mese di alimentazione americana. Peserei 100 chili a mia volta. Soprattutto perche’ cerco di ingozzarmi il piu’ possibile. Penso sempre “Magna caro che ora de sera te ghe na fame che te te cappotti”, e via giu’ cibo. Di tutte le prelibatezze che affollavano il mio tavolo, avanzo un pezzetto di melone, 1 boccone di pancakes e uno di sandwich. Un’ottima prova, come prima colazione. Direi voto 8. Soprattutto se confrontata con le colazioni che facevo fino a due giorni fa: muesli e fette biscottate. Mamma mia. Mi vengono i brividi a pensare a quanto triste saro’ al mio ritorno, per dover tornare a tali misere colazioni. Tutto sommato pero’ potrebbero anche tornare utili, visto che gia’ ora, dopo appena un giorno, con quello che mangio rasento il limite dell’obesita’. Torno alla macchina, e mi rimetto alla guida. Potrei guidare questa strada ad occhi chiusi oramai, e non lo faccio solo per ovvie ragioni di sicurezza stradale. Non voglio finire in cella. Arrivo finalmente in un parcheggio che da su una baia adocchiabile, e decido di fare un stop sgranchisci-gambe, fotografico e odontoiatrico. Devo assolutamente detergermi le zanne, cosa che non faccio su per giu’ da una quarantina di ore. Dubito mi farebbero girare uno spot della Mentadent come dubito avrei successo con una donna svedese, attualmente. Estraggo il materiale dalla recuperata valigia e mi lavo alla buona, sputando il tutto nel bel mezzo del parcheggio come fanno gli onti piu’ seri. Mi dissocio dalla categoria ma stavolta, un po’ ne faccio parte. Mi fermo a far benzina in un posto dove c’e’ un enorme, mastodontico RV che sta rifornendo. Dannazione – penso fra me e me – quanti prestiti devono chiedere questi per fare un pieno? Ok che verosimilmente costoro o cacano soldi la sera o non possiedono di contro una casa, ma se confronto il pieno da 40$ alla mia utilitaria ad un pieno per un bestione del genere.. a me sinceramente vengono i brividi. In Italia cose del genere durerebbero due giorni, il tempo di realizzare il costo della benzina. Che e’ aumentata anche da queste parti, noto. Anno dopo anno, e’ inesorabile anche in un paese che sembra (o vuol sembrare) in possesso di scorte indefinibili di materia prima. Abbandono il mastodonte per continuare a guidare la 101 verso Lake Crescent e poi prendere la deviazione per Sol Duc. Al solito, mi piacciono da matti i nomi in cui ti imbatti girando per parchi nazionali! Chissa’ per cosa diamine sta “Sol Duc”. Ecco piano piano che il clima, anzi l’atmosfera muta: mano a mano che inizio a costeggiare il lago, sono quasi teletrasportato in Scozia, dalle parti di Loch Ness. E’ quasi la stessa cosa: una nebbiolina sottile aleggia alle basi della vallata, il lago che sta al centro – acque color smeraldo al centro, un blu elettrico a meta’ via, trasparenti a riva – i monti che salgono, densamente alberati, verso l’alto. La 101 si snoda lungo il lago. La strada e’ stupenda, piccola, alberata, sembra di guidare il viottolo che conduce al piu’ grande e nobile dei castelli medievali. Sembra anche una buona strada per correrci un rally, per la sua conformazione. Non mi faccio pero’ troppo distrarre, e’ comunque bagnata e stretta e guardare troppo a lungo fuori dal finestrino potrebbe indurmi all’errore. E finire giu’ nel lago non sarebbe proprio il coronamento migliore per questa vacanza. Decido di fermarmi un po’. Pochissima gente, conto 3-4 macchine nel giro di una decina di minuti, il che vuol dire che il parco dev’essere semivuoto. Salgo sopra un piccolo sperone che da sul lago, ed assaporo l’atmosfera in solitaria, come piace a me. E’ stupendo. Ci si sente in un mondo diverso, mai vissuto, in un mondo in cui regna la foresta, il verde, e non il cemento. E’ grandioso. Dentro  di me inizia a girare piano piano quell’ingranaggio che ti fa sentire vivo veramente, partecipe del mondo in cui sei, felice di fare e vivere cio’ che stai facendo. Piano piano, sto entrando in quella che io chiamo “vacanza”. Sono fiero, in momenti come questo e in molti altri ancor piu’ belli, di non esser sdraiato sotto un ombrellone al mare. Riprendo la mia carretta ed arrivo a Sol Duc, dove il mio obiettivo – importantissimo prefissarsi tanti mini-obiettivi in viaggi del genere – e’ camminare fino a Sol Duc Falls, che in teoria non sono cascate magnifiche ma che valgono comunque la pena di una camminata. E poi, sara’ il mio primo, vero assaggio di foresta pluviale. In Olympic, le foreste pluviali sono principalmente due, Hoh e Quinault (la prima e’ stupenda come nome, la seconda pronunciata “chinol”, accento sulla “o”) anche se un buon assaggio lo si puo’ avere anche a Sol Duc e a Kalaloch, giu’ verso la spiaggia. Io non sto piu’ nella pelle, immagino meraviglie di posti del genere e a giudicare dagli inizi, credo non verro’ deluso. Smonto dalla macchina e mi avvio alla trailhead partendo da un parcheggio praticamente deserto: due vetture. Top. L’unica cosa wrong al momento e’ che piove. Ovviamente con la fitta foresta la pioggia che filtra al suolo si riduce notevolmente, ma e’ abbastanza per mettere in pericolo gli effetti contenuti nel mio zaino. Opto per vestire subito il kway e il coprizaino impermeabile. A giochi fatti, posso dire di sembrare un pagliaccio. Una specie di sasquatch colorato che cammina con uno zaino in spalla. Il mio kway (Union Cadoneghe, ndr) dopo 10 minuti e’ piu’ umido di una stella marina – il che vuole dire, camminando in tshirt, che ho le braccia bagnate – e deduco che non mi servira’ un cazzo. Molto bene. Il coprizaino invece, essendo stato largo con la taglia il giorno in cui lo presi via internet, mi penzola semiaperto verso il basso. In pratica, cammino con una mano che lo sorregge. Mi sento uno scemo. Ah, per non parlare dei momenti in cui sciaguratamente decido di estrarre la reflex dal groviglio di bottiglie, felpe, survival kits che ho nello zaino e fare una foto. Ci posso impiegare potenzialmente delle ore. Goffamente, inizio a camminare con la camera appesa al collo, tenuta sotto il kway-carta da formaggio per evitarle doccie ancor piu’ grandi. Scattare una foto in queste condizioni diventa un’impresa. Bisogna giocare con l’elasticita’ del proprio collo alla trazione esercitata dal laccio della camera, evitare la pioggia, cercare l’angolo giusto, e in piu’, in condizioni di scarsa luce, stare il piu’ fermi possibile. Credo mi sarebbe piu’ facile imparare la Divina Commedia a memoria. Ad ogni modo, rubando le parole al grande Rocky Balboa, mi dico “Io ci provo”, e scatto. E cammino. Arrivo alle falls, che non sono appunto nulla di straordinario. Per di piu’ c’e’ anche il tronco di un grosso albero a meta’ cascata che rovina una vista potenzialmente carina. Solo qui pero’, mi fermo, a contemplo i dintorni. Realizzo la vera bellezza del posto. La foresta e’ incantevole: il verde e’ un verde intenso, saturo, non di certo secco. La natura e’ viva, pulsante, l’acqua la riempie di vita ogni giorno qui. Le cortecce degli alberi sono tutte, tutte ricoperte di muschio, qui verde qui ramato, qui giallognolo qui marroncino. I licheni sono ovunque, le felci si notano qua e la e quelle strane “alghe” come le definisco io, color verde sbiadito, che infestano i rami degli alberi come a renderli “spettrali”, sono dappertutto. Insomma, sembra di essere tornati indietro al tempo in cui non esisteva nulla sulla terraferma eccetto qualche insetto e tanta, tanta vegetazione. E’ incredibile. E quella nebbiolina “sinistra”, che rimane permanentemente sulla foresta, aggiunge ancor piu’ pathos al posto. Sono veramente meravigliato. Mi trovo a poche ore di macchina da Seattle, da Vancouver, da cemento, aeroporti, Subway e quant’altro eppure potrei dire di essere al Jurassic Park. Questo, signori, e’ il bello dell’America. La sua vastita’ e’ la sua bellezza. La sua diversita’, il suo gioiello. Cammino incantato fino al parcheggio e ritorno alla 101 per proseguire fino a Hoh. La vera rainforest. Mi aspetto il clou, da quelle parti. Mi son segnato la Spruce Nature Trail, una breve escursione nella foresta con cartelli esplicativi della flora locale. Di solito tendo ad evitare qualsiasi cosa si chiami “Nature Trail”. Nella mia mente di camminatore rodato, equivale a dire qualcosa tipo “Brevissima camminata per famiglie con bambini al seguito, per panzoni schifosi che non vogliono rompersi il culo a camminare ma preferiscono farlo con il loro hamburger in mano o ancora per vecchi turisti ansiosi di imparare nozioni sulla flora del posto”. Ora, so che per la cartellonistica di un parco e’ decisamente piu’ conveniente (politicamente ed economicamente) scrivere “Nature Trail” al posto della mia manfrina, pero’ volendo essere onesti, io scriverei cosi’. No doubt. Il fatto e’ che in una rainforest, in Olympic, dove il 95% circa del parco e’ designato come WILDERNESS, una nature trail puo’ essere il posto migliore dove avere un buon assaggio dell’insieme, senza per forza finire disperso o tra le fauci di chissa’ quale bestia preistorica occultata nelle foreste. Entro a Hoh, dove ovviamente continua a piovere. Qui rimango ancor piu’ a bocca aperta. Nonostante nel parcheggio vi siano 4 o 5 macchine (un sacco di gente, vero?!), lungo la trail mi sento assolutamente solo. E qual modo migliore per assaporare il paesaggio? Cammino sotto le fronde di alberi possenti, contorti, muschiati. Si, come i buoi, muschiati. E’ pieno di felci. Grosse felci. Felcione. E’ un posto con talmente tanto verde che fa impallidire l’Irlanda. E’ la foresta piu’ bella dove abbia mai messo piede. Anche di Sequoia, California porto ottimi ricordi, ma qui e’ speciale. Incantevole, ancora. Ogni angolo che giri, ogni albero sono peculiari. Ogni tanto scorgi un Robin o qualche altro piccolo uccello che vola di ramo in ramo. C’e’ qualche piccolo, grazioso uccellino giallo e nero che e’ talmente veloce da rendere impossibile una foto. Guadagno la via del fiume e cammino per un po’ lungo il suo corso. Qui invece sembra Alaska. Acqua grigia, chiaramente derivante dallo scioglimento delle nevi delle sovrastanti catene montuose, un letto pieno di sassi, alberi trascinati dalla corrente. La solita foschia. Foresta ovunque. Manca solo un grizzly (che qui non esiste) che sbuchi fuori verso il fiume, a caccia di salmoni. Into the wild.

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