Mentre
attraverso il ponte che mi porta da Tacoma a Gig Harbor, e vedo profilarsi in
lontananza le cime grigie ed innevate dell’Olympic Range, concludo che in ogni
caso non avrei potuto salire fino ad Hurrican Ridge. Cosi’ a spanne, le
condizioni restano proibitive. Prima di partire, avevo avuto cura di informarmi
sulle condizioni dei parchi in cui sarei stato. E sebbene Olympic fosse quello
preso meglio, Hurricane Ridge veniva segnalata chiusa all’accesso dei veicoli
(parlo di montagne alte mediamente 1800 metri e non piu’ alte di 2100) mentre
Enchanted Valley, una valle incastonata fra due mini-catene montuose nel
sud-ovest del parco, popolare meta escursionistica ed orsistica (infestata di
orsi neri), veniva data con almeno 30 centimetri di neve. A vedere il tutto da
cosi’ distante, direi siano sommersi dala neve attualmente. Cerco di non farmi
prendere dallo sconforto arrembante. Ho iniziato la mia avventura da qualche
ora soltanto, ma sembra siano passati giorni, e tutti di merda. Mi faccio
coraggio. Al WalMart, aspetto 10 minuti un fottuto commesso – uno sbarbatello
di quelli che di solito trovi a sputare negli hamburger di McDonald – in uno
stato di dormi-veglia acuto, indotto anche dal fatto che nessuno fortunatamente
viene a sfasciarmi i testicoli. Lo sbarbatello alla fine, mi consegna i miei
pacchi, e io me ne vado. Anzi, lascio li i pacchi – che sono enormi! – e vado
in cerca di un gallone d’acqua. Mi infiltro nello scomparto ACQUA, e cerco.
Cerco. Cerco, ma non trovo dell’acqua. Oddio, trovo di tutto: acqua al lampone,
al mirtillo, all’arancio, persino al cocco ed ananas, ma NON trovo dell’acqua
all’acqua. Pazzesco. Scopro piu’ tardi che i galloni si trovano sul retro dello
scompartimento, come qui la prima cosa che un americano cerca fosse acqua
aromatizzata. E spinto dalla tristezza e da un coraggio che qui in America, per
quanto mi riguarda, non ha fine, prendo anch’io un’acqua non all’acqua. Solo al
limone pero’. Ricolleziono il mio scatolame, e torno alla macchina. Mentre
arranco con questa pila inumana di scatole, chiedo a me’ stesso perche’ diavolo
debbano circondare una tenda, un sacco a pelo ed una semplice stuoia con
scatole in cui ce ne starebbero 3 di ognuno. Cazzo io non sono alto 2 metri e
pesante 200 pounds e non ho nemmeno un Silverado o un Heavy Duty (2 grossi
modelli di pickup) dove mettere tutta sta roba! Bah. L’unica cosa che mi offre
ristoro in questo pomeriggio da bombe atomiche e’ il paesaggio. Almeno,
considerato senza dar troppo peso al meteo. Il cielo infatti e’ diventato
grigio, il sole pressoche’ nascosto dietro a fitti strati di nubi e qualsiasi
cosa appare incupita. Ai lati della strada pero’, l’erba e’ verde. Ci sono
tantissimi alberi. Ci sono fiori ovunque: gialli e viola perlopiu’. E se penso
che alla fin fine sto solo guidando lungo una grossa strada regionale, credo
che in mezzo alle foreste ci sia dello spettacolo al momento. Fiori
dappertutto. Avro’ il tempo necessario per constatarlo di persona. Per ora devo
accontentarmi di roadside wildflowers. Il tempo passa, la stanchezza monta e
finalmente arrivo a Port Angeles, la citta’ piu’ degna di tal nome nelle
immediate vicinanze di tutto il parco. Gli altri sono piu’ che altro paesi,
paeselli, insediamenti, villaggi. Port Angeles puo’ vantare circa 18000
persone, una metropoli qui dalle parti della foresta. Io sono fortunato a
trovare subito il mio motel, un Super8 che avevo ovviamente avuto la premura di
prenotare da casa. Si trova infatti giusto alla prima via della citta’, rilzato
su un piccolo avvallo come a dire “Ehi stronzo turista appena arrivato, non
devi nemmeno sprecarti a cercare in giro”. Prendo volentieri dello stronzo
dall’immaginaria effige e parcheggio la macchina. Non prendo nulla eccetto il
portafoglio. Una volta dentro, scopro che la mia premura e’ stata anche troppa.
Tradotto, non c’e’ un cane in motel, e avrei potuto benissimo passare da queste
parti all’improvviso e trovare camere a bizzeffe per cifre comunque
vantaggiose. Pare – dico, pare – che la stagione non sia ancora cominciata.
Buon auspicio. Vado in camera giusto per dare un’occhiata e lasciar giu’ la
felpa, ma vengo attratto magneticamente dal letto. Mi ci tuffo e resto in
sonnolenta contemplazione, faccia insu’, per qualche minuto. Il mio cervello
decide pero’ saggiamente che prima di dormire, lo stomaco bisogna riempire, e
lesto mi alzo per andare a cena. Sono preso come un imbecille, dalla faccia si
legge chiaramente che non dormo da tempo immemore (o che ho preso uno strano
mix di sostanze poco definite) ma sono determinato a non farmi mettere dentro
come “tipo sospetto” e a fare semplicemente una buona cena. Mi reco al porto
(“Al porto! Vedrai, dove ti porto!”) e scelgo un locale con graziose vetrate
vista porto/entroterra, affianco alle quali prendo posto ed inizio a scrivere
qualche appunto. La mia prima cena americana dell’anno. La inauguro poco
dignitosamente, per i miei standard. Notando la scarsezza del menu – almeno, di
quello con costi decenti, ho scelto un posto raffinato a quanto pare – opto per
del clam chowder e per un piatto di fried prawns e french fries. Mi sento un
lupo di mare per bene, un viaggiatore di quelli incalliti che hanno il mare ed
i gabbiani come compagni d’avventure, mentre scruto fuori dalla finestra,
gomito sul tavolo e volto posato sulla mano, e prendo ispirazione per scrivere
qualche riga. Ammiro un bambino che si diverte a salire su una scalinata e a
giocare con le onde che vi si infrangono. Beata spensieratezza. Poi vengo
attratto da un profumo familiare, quello di clam chowder. Il clam chowder che
mi viene servito dalla camerirera. Ordunque, sono in una localita’ di mare, e
da tale mi aspetto un chowder con la C ma anche la H maiuscole. Ed infatti, non
mi delude. Annoto la parola “delizioso”. Anche se per me in verita’ ogni
versione di questa pietanza e’ deliziosa. Potrei definirmi “addicted to clam
chowder”. Quella sua consistenza cremosa, quella dolcezza caseario-burrosa che
il mio palato percepisce (non conosco la ricetta – e non voglio saperla –
quindi non posso dirlo con certezza) e infine, quella masticabilita’
molluscacea mi mandano al settimo cielo. Il fatto e’ che e’ sempre, sempre
troppo poco. Nel paese dove credo sia incostituzionale mandare a casa una
persona con un po’ di fame, in un paese dove un hamburger deve pesare almeno
300 grammi per essere a norma di legge, il clam chowder viene ancora servito in
porzioni CUP. Cup?! Io in una cup ci bevo il caffe’, non ci mangio il chowder!
Difatti c’e’ anche la versione “bowl” per gli stomaci piu’ capienti, ma spesso
ragionamenti del tipo “E’ che poi mi porteranno un piatto da 4 chili e mezzo,
non ce la faro’ mai a mangiare tutto!” oppure “Quei 3 dollari in piu’ pero’ mi
seccano” (detto da uno che poi il giorno dopo ne spende 15 in gelati e
cioccolato..lasciamo stare) .. dicevo, ragionamenti del genere frenano la mia
voglia di bowl. Un giorno pero’, mi nutriro’ solo di questa pietanza. Delizio
il mio palato con cucchiate di cremosi molluschi in zuppa, e passo poi ai
gamberetti. La panatura ottima, mangiarli pero’ e’ come inghiottire sassi.
Cazzo se son pesanti, piombano nel mio stomaco come farebbe una pallottola su
un panetto di burro. Ne mangio 8 su 10, sgancio la grana ed esco per fare due
passi digestivi e magari qualche foto. Ho una reflex arrivata una settimana fa
che posso dire di non aver quasi utilizzato. Non so perche’ ma presento che
sara’ un disastro con le foto. Fuori l’atmosfera e’ gradevolissima: non si sta
male in manica lunga leggera, pantaloncini corti. Vedere il mare e’ sempre
bello poi – specialmente se non lo vedi da un posto che si chiama Sottomarina.
Dovrebbero recintarla e chiudere tutto. Qui si sente la vera atmosfera di mare,
addolcita, levigata da un po’ di attrazioni turistiche e da un overflowing di
strutture ricettive, che tutto sommato non mi pesa. Faccio due passi nel senso
che son proprio due. Mi sento troppo stanco, provato dalla lunghissima giornata
(mezza europea, mezza internazionale, e mezza americana) per farne anche uno
solo in piu’. Preferisco battere lentamente in ritirata verso la macchina, il
motel ed un comodo letto. Rientro, e lascio l’auto in parcheggio. Esco, e
ricordo che devo ancora prendere la valigia. Apro il bagagliaio. Questa
carretta e’ talmente all’avanguardia (l’ho gia’ detto cos’e’?! Se no, lo dico
ora, se l’ho gia’ detto e’ bene che lo ripeta: una Hyundai Accent) che non ha
nemmeno un pulsante – sia esso sulla plancia o sulla chiave – per aprire il
bagagliaio. Devo aprirlo girando la chiave. Ai tempi della prima Panda siamo.
Ma questi pensieri semi giocosi fanno presto a dissiparsi. Una volta aperto il
bagagliaio infatti, lo trovo desolatamente VUOTO. Vuoto. Realizzo in 0,2. Mi
inginocchio, mani sulla testa, e rimango per un minuto a fissare con sguardo
assente il cemento a 50 centimetri dalla mia faccia. Sono riuscito a lasciare
la valigia al banco del car rental. Non ci voglio credere. Trovo la forza
morale piu’ che fisica per rialzarmi, e faccio un misero, inutile tentativo per
provare a trovare una valigia sui sedili posteriori. Cio’ ovviamente, non
accade. Fioccano troppi pensieri, come corollari ad una legge matematica: il
pensiero di averla ormai persa, il fastidio di dover perdere ancora tempo
chiamando gli idioti al telefono per avere notizie, e nel caso esse fossero
positive, l’ancor piu’ grande, immenso fastidio di dover perdere altre 4-5
preziosissime ore di tempo per tornare indietro e riprenderla. No, e’ il colpo
di grazia. Pensavo di aver toccato il fondo, di averle avute tutte per oggi,
questa non ci voleva. Una mazzata che mi getta a terra. Rientro sconsolato al
motel, non ho nemmeno la mia proverbiale verve nell’imprecare – che in questi
casi mi sostiene saldamente e mi contraddistingue. Elemosino un telefono alla
gentile ragazza al desk, a cui racconto la mia storia e dalla quale raccolgo
compassione e il desiderato telefono. Compongo il primo numero trovato in
internet e – a proposito di call center, di cui parlavo in giornata – chi mi
risponde? XXX Car Rental Los Angeles! LOS ANGELES??!! Io voglio Seattle!! Puo’
esplodere LA!! Passatemi Seattle ed i cretini che vi ci lavorano, please!
(Conversazioni iperboliche che riflettono i miei impuri pensieri del momento)
Attendo un numero indefinito di secondi che, date la mia rabbia, frustrazione e
disperazione, mi sembrano lunghissimi. Rispondono da Seattle, mi sembra quasi
di riconoscere la voce dell’interdetto che mi ha fatto penare come un cane
qualche ora prima. Mi dicono, almeno una buona notizia, che hanno la mia grigia
valigia li’ da loro. L’ho lasciata giusto sotto il desk. Ricordo bene la scena
ora: appena finito di pagare, mi sono girato e sono corso giu’ dalle scale.
Ricordo benissimo anche un’altra cosa, ora che mi sovviene: di aver pensato di
sentirmi fin troppo leggero, mentre scendevo DI CORSA i 3 piani di scalini per
non perdere tempo in ascensore. Devo imparare a dare un po’ piu’ peso alle mie
sensazioni, certe volte. E’ evidente. Metto giu’ il telefono, libero quantomeno
da uno dei pesi che mi si erano accumulati sulle spalle, e mi dirigo in camera.
Sprofondo nel letto. Sono desolato. Volevo semplicemente rientrare in camera,
farmi una doccia fresca e mettere a nanna le mie chiappe. E invece, mi son
trovato a perdere altro tempo, a stancarmi il triplo, e a rincasare addirittura
senza alcuna voglia di far la doccia. Sono stremato. Non faccio altro che
riordinare un po’ di cose, mettere in valigia le magliette che avevo ordinato e
che mi son state diligentemente recapitate in motel, e infilarmi sotto le
coperte. Il pensiero di dover buttar via 5 ore della mia vita guidando strada
inutile per andare in un posto inutile – per giunta durante le mie sudatissime
vacanze! – mi annichilisce, sul serio. So che mi fara’ dormire male, ma provo a
non pensarci. Tiro le tende il piu’ possibile (qui il sole tramonta alle 21.30)
e scelgo il cuscino ideale. Prima di chiudere gli occhi, sul mio diario annoto
in maiuscolo: INCREDIBILE.
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