martedì 12 giugno 2012

Il solito primo, merdoso giorno di scuola - pt.1

19 MAGGIO – Seattle-Port Angeles

Mi hanno sempre detto che nella vita “Chi dorme non piglia pesci”. E’ con questo spirito che il 19 maggio affronto una traumatica sveglia alle 2.30 della notte, pensando che in effetti dormire non avevo dormito una mazza e di pesci dunque avrei dovuto prendere a quintali, nei giorni a seguire. Faccio colazione con ancora la cena che finisce il suo percorso digestivo, mi lavo i denti prima di mettere lo spazzolino in valigia e far fagotto verso l’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna, dove arrivo alle 4.45. Un’ora dopo, l’alba. Mentre il sole si fa coraggio e sale oltre l’erba, oltre gli edifici che contornano la pista di decollo, e l’aereo mette in movimento i suoi potenti motori, io trovo interessante argomento di riflessione in: “Ma poi, che cazzo ha fatto Marconi Guglielmo per meritarsi un aeroporto in suo nome?”. Giungo a soddisfacente conclusione pensando che la radio sia una risposta perlomeno sufficiente, e chiudo la questione. Se decollo con questi interrogativi, non oso nemmeno pensare di cosa staro’ discutendo con la mia psiche al ritorno. Dei bruchi, forse.

Lascio i picchi innevati delle Alpi – che mai mi saziero’ di osservare, nel loro bianco splendore – mentre la KLM mi propone uno spuntino che alla vista fa vomitare i maiali. Credo si tratti di una specie di sandwich al formaggio. Anzi, formaggio e granaglie, visto che il pane e’ composto da una ventina di varieta’ di semi. Tutto sommato pero’, non e’ poi tanto male, e mi viene servito accompagnato da una buona fetta di semi-strudel. Dai, la KLM viene promossa per ora. Il pranzo sara' la prova del nove. Il tempo di atterrare e di trovare il gate giusto, che vedo il momento del pranzo clamorosamente defilarsi. Pare proprio che il check-in stavolta durera’ una vita. Ora, non so se i miei amici americani abbiano cambiato qualcosa in materia di entrata nel loro paese – il che e’ probabile, visto che la cosa ha la frequenza di un aumento della benzina in Italia – ma sembra che ogni passeggero venga interrogato anche prima dell’imbarco. Vedo formarsi di fronte a me una coda lunga almeno 50 persone, ognuna delle quali viene fermata da uno dei 4 ispettori presenti, portata di fronte ad una specie di leggio dove vengono formulate diverse domande. Quando per grazia divina arriva il mio turno, vengo tartassato di domande. La piu’ idiota e’ “E’ tutta di tua proprieta’ la roba che hai in valigia?”. Avrei tanto voluto risponderle che stavo semplicemente riportando indietro dei vestiti ad un amico che li aveva dimenticati in Italia, ma dubito mi avrebbe preso sul serio. Mi riguardo alle spalle, dove la coda continua e altra gente passa sotto le forche. Sembriamo un branco di criminali al primo giorno di gabbia. Mi immagino di li’ a poco ordinato di denudarmi, indossare un camice arancione e un paio di manette, e camminare sotto sorveglianza fino al mio posto in aereo. Fortunatamente la mia immaginazione viaggia anni luce piu’ della realta’, ed io posso semplicemente salutare sorridendo (e mandandola a fare in culo col pensiero) la mia interrogatrice e prendere regolarmente posto di fianco al finestrino. Mi aspettano 9 ore e 30 di volo.
Quest’ultime passano piu’ in fretta del previsto, grazie ad esempio ad una sola pisciata (con unico conseguente disturbo passeggero a fianco) e a del cibo di buona qualita’. Nel menu ovviamente compare il solito “pollo a qualcosa”, nel senso che qualche condimento c’e’, ma non sarai mai in grado di capire di cosa si tratta. Le verdure possono essere benissimo carne coperta di una patina verde. Tutto sommato comunque, la “cosa” e’ mangiabile. I bicchieri poi, sono gia’ di taglia americana (ovvero circa il doppio di un bicchiere dato che so, da Lufthansa, British Airways e via dicendo). A pranzo poi osservo letteralmente disgustato il mio vicino tedesco che prende il panetto di burro nel vassoio e lo adagia intero su un misero cracker. E lo ingolla. Brrr. Mangia tutto, come un’anatra. Non lascia avanza nemmeno la poltiglia di simil-verdure che anzi condisce con generosa mayo. Non c’e’ mai limite al disgusto a quanto pare. Giro lo sguardo al finestrino, per vedere se lo spettacolo offerto e’ migliore. Migliore lo e’, assolutamente: sono ormai sopra le Rockies canadesi, montagne meravigliose, ma ora come ora innevate. Vedo piu’ bianco che altri colori. Controllo l’orologio: ancora, 19 maggio. Ripenso alle mie montagne, le Alpi, le Dolomiti. A quest’ora, mi dico, credo che ci sia ancora neve dai 2500 in su se tutto va bene. Non avrei problemi a camminare quasi da nessuna parte. Qui a quanto pare, le cose cambiano di gran lunga. Sebbene in quanto a latitudine tra Bolzano e Vancouver non passi granche’, sembra di confrontare l’appennino toscano con la Marmolada. Convegno che avro’ pane per i miei denti con questa frase che annoto: “I’ll have my business on the trails out there”. In poco tempo atterriamo. Il momento piu’ emozionante e’ l’arrivo sopra Seattle. La citta’ – apparte il groviglio di canali ed isol che gia’ si intravvede – non dice nulla, la cosa che spicca come un enorme brufolo giallo sulla faccia di un 14enne.. anzi no, come similitudine e’ un po’ vomitevole.. diciamo che spicca possente all’orizzonte, e’ Mount Rainier. Magnifico. Magnetico. Calamita la mia attenzione finche’ il pilota me ne consente la vista, prima di virare. Mount Rainier – che e’ una montagna ma anche un parco nazionale dal 1899 – sarebbe un vulcano, e un gran pezzo di vulcano per giunta (4392 metri), anche se attivita’ vulcanica in loco non si registra da tempi piuttosto lunghi. E’ possente, troneggia –quando le nuvole onnipresenti consentono la sua visione – su gran parte del WA occidentale, tant’e’ che gli abitanti delle citta’ piu’ vicine (Seattle – Tacoma) si riferiscono ad esso come “The Mountain”. Questo e’ possibile perche’, se ne vedete una foto, noterete che e’ l’unico rilievo nel raggio di decine di miglia. Non fa parte di una catena montuosa – cosa verosimile nel caso di vulcani – ma proprio come un grosso brufolo giallo spunta fuori gagliardo dalla terra, potente. Mi e’ stato detto che e’ possibile vederlo chiaramente, nei giorni di estrema limpidezza, anche da Portland, Oregon (OR) che sta circa 180 kilometri a sud, in linea d’aria. Penso a tutto questo, ai racconti che ho letto sull’attrazione magnetica che ha esercitato nei secoli verso innumerevoli popoli e persone – dai primi nativi ai contemporanei visitatori del parco – mentre lo vedo piano piano scomparire dietro le ali dell’aereo. Ormai, e’ tempo di posare le ruote a terra, e con le ruote, finalmente anche i miei piedi. Recupero a tempo di record la valigia, passo velocemente e per fortuna inauspicata i controlli (un gentile signore apre un gate che era chiuso proprio davanti a me!) e sono davanti al desk della compagnia di noleggio auto in men che non si dica. Sono in vantaggio di 30’ sulla mia tabella di marcia e con una giornata del genere, rifletto, credo proprio non mi lascero’ scappare una guida fino ai piedi del Rainier. Ma Napoleone diceva “Bisogna considerare l’eventualita’ che tutto vada al peggio, e solo dopo averlo fatto si possono studiare le altre possibilita’”. Mai parole furono piu’ sagge. E mi ero tenuto largo apposta, in fase di preparazione della mia tabella di marcia. Semplicemente, non mi sarei mai aspettato quello a cui stavo andando incontro. Formalizzo gli ultimi dettagli del mio contratto con la compagnia di noleggio, mi faccio anche appioppare un’assicurazione che fatalita’ nello stato di WA e’ obbligatoria (e giu’ altri 11$ al giorno), ed estraggo a mo’ di Colt 45 la cartadi credito per pagare il ceffo. Strisciata, attimi d’attesa e.. la carta non e’ accettata. Provenendo mia sfortuna dal mondo bancario, invito il ceffo a riprovare – si sara’ trattato di un disallineamento temporaneo. Secondo tentativo.. ma il risultato e’ lo stesso. Diamine. La carta che sto usando mi e’ stata recapitata in ufficio 3 giorni prima della partenza, ristampata in seguito ad un tentativo di clonazione che qualche bieco individuo aveva messo in atto nei miei confronti tramite il web. Il plafond e’ ovviamente al massimo, la carta dev’essere per forza d cose attiva, quindi non mi capacito del motivo onestamente. Ma ho altre armi. Estraggo un revolver, la mia seconda carta di credito, quest’ultima con un plafond leggermente inferiore ma che reputo – al netto delle spese gia’ fatte – sufficiente alla bisogna. Strisciata numero tre, e.. funziona, ma il plafond non e’ sufficiente. Nella mia mente, nuvole, nuvoloni, cumulonembi carichi di tempesta, fulimini e grandine si addensano. Foschi pensieri affollano il mio cervello. Fra la tempesta che monta, come un nostromo che tenta di governare una nave nel mezzo di una burrasca, provo a giocare la carta della disperazione ed estraggo l’ultima arma, una rivoltella: il bancomat. Sinceramente, ci faccio affidamento quanto un padre farebbe affidamento sul figlio di 5 anni per guidare l’auto. Ma nei momenti di carestia, va bene tutto. Ovviamente – ci avrei scommesso – non viene accettato perche’ il debito e’ recepito solo se proveniente da banca americana. Bene. Sono in un oceano di merda. Ripenso alle spese che ho fatto con la seconda carta di credito – fra i vari, il biglietto aereo per la Svezia 2 giorni prima di partire, maledetto me – ma piu’ che altro penso al dannato motivo per cui la prima carta non sia utilizzabile. Consulto il ceffo (lo chiamo cosi’ solo perche’ mi piace il nome, in realta’ e’ un gentile signore di origine messicana sulla trentina) e lo convinco a prestarmi il telefono e a farmi chiamare la VISA. Dopo minuti e minuti di attesa, dopo minuti e minuti per capire che diavolo di tasto devo schiacciare, arrivo a parlare con una ragazza moldava ho idea, che altro non sa dirmi che contattare la banca, perche’ loro hanno le mani legate. Ora, due cose. La prima: ho una bassa considerazione dei call center delle piu’ grandi compagnie che operano worldwide. La VISA, ad esempio. Ti trovi, tu italiano, pronto ad impiccarti di fronte al desk di un car rental a Seattle, a parlare della tua cazzo di carta che non funziona con una ragazza che pronuncia le parole in inglese peggio di te e che di sicuro si trova a meno di 3-400 kilometri da Chernobyl! Ma fatemi il piacere. Cosa numero due: siete voi, cari amici moldavi/indiani/puerto ricani o qualsiasi altra nazione soggetta a questi internazionali malfattori, consci del fatto che esistono delle cose chiamate FUSI ORARI che fanno si che nel mio paese, ora come ora, la mia maledetta banca sia chiusa?! Forse no. E la VISA dovrebbe formarvi su cio’, prima di darvi il telefono e le cuffiette per rispondere alle mie telefonate! Metto giu’ il telefono e vengo fatto accomodare in attesa di un secondo ceffo che, mi viene detto, potrebbe sapere un codice per farsi comunque autorizzare la transazione. Mi si accende un flebile barlume di speranza, e con questo mi accomodo sulle seggiole, as aspettare una lunga, infruttuosa, interminabile ora. So cosa fare, nel frattempo: scrivo a mia madre affinche’ scuota il mondo per questo problema, e scrivo alla mia banca, affinche’ si dia una scossa a meno che non voglia che la scuota io al mio ritorno (con mezzi e termini meno appropriati). Ammazzo il tempo. Anzi, a dire il vero e’ lui che ammazza me. Sono a due passi dai posti dove sognavo di essere da mesi ma sono legato ad un marcio di desk senza veloci vie d’uscita. Nella mia mente scorrono film: vedo – come in quei filmati velocizzati – decine e decine di persone che camminano davanti a me, si fermano a far due parole, prendono una macchina e vanno via. Lo fanno per decine di minuti. Io sono l’unico che rimane seduto sulle panche per tutto il tempo. Triste da morire. Ma anche gli ultimi prima o poi vengono ricordati, e viene anche il mio turno. Senza buone news a quanto pare. Il ceffo arrivato non e’ il risolutore, il messia che aspettavo, anzi pare piu’ ignorante del suo collega, ed io rimango con un pugno di mosche in mano. E’ sabato, la banca non aprira’ prima di domenica alle 23, ora locale. Mi viene proposta la seguente soluzione: a meno che io non decida di pagare l’intero noleggio con cash (cosa che non faro’, perche’ mi fumerebbe il 90% dei 1500$ che porto con me, deposit incluso) posso pagare un mini-noleggio di 3-4 giorni, il tempo necessario per contattare la banca e sistemare la grana. E a me, a quanto pare, utile per completare il giro dell’Olympic Peninsula che ho programmato. Mi pare sia l’unica cosa da fare, tutto sommato – orma la tragedia e’ avvenuta – non mi rovina troppo i piani. Accetto, esborso – chissa’ che sifonata mi avranno tirato, non ho nemmeno guardato i dettagli da quanto arrabbiato e assonnato sono – e me ne filo via ai mille all’ora. Non ne voglio piu’ sentir parlare. Sono due ore e mezza della mia vita che ho passato davanti al desk di una compagnia di autonoleggio, pazzesco. Scappo. Raccatto la mia scassarola, al solito controllo i danni preesistenti (pare che sia finita dentro la gabbia di un leone, ha graffi dovunque e sono tutti segnalati. Dovro’ porre attenzione) e sgaso a tutta verso Port Orchard, al WalMart, dove prendero’ l’ordine fatto a suo tempo da casa per tutto il materiale da campeggio. Ho un sonno becco. Non so nemmeno che macchina sto guidando, non l’ho ancora realizzato e sinceramente non me ne frega una mazza. Devo ancora sbollire l’incazzatura. Mi sento un po’ come Giovanni (del trio, Aldo Giovanni e Giacomo) quando gli rigano la macchina e rimane minuti e minuti in silenzio con lo sguardo fisso nel vuoto. Ecco, mi descrivo bene cosi’. Sono all’inizio del viaggio e ho gia’ finito le imprecazioni possibili immaginabili. Sto zitto, ed e’ meglio. Guido assorto nei miei inenarrabili, sproloquiosi pensieri.

Nessun commento: