19 MAGGIO – Seattle-Port Angeles
Mi hanno sempre detto che nella vita “Chi dorme non piglia pesci”. E’ con questo spirito che il 19 maggio affronto una traumatica sveglia alle 2.30 della notte, pensando che in effetti dormire non avevo dormito una mazza e di pesci dunque avrei dovuto prendere a quintali, nei giorni a seguire. Faccio colazione con ancora la cena che finisce il suo percorso digestivo, mi lavo i denti prima di mettere lo spazzolino in valigia e far fagotto verso l’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna, dove arrivo alle 4.45. Un’ora dopo, l’alba. Mentre il sole si fa coraggio e sale oltre l’erba, oltre gli edifici che contornano la pista di decollo, e l’aereo mette in movimento i suoi potenti motori, io trovo interessante argomento di riflessione in: “Ma poi, che cazzo ha fatto Marconi Guglielmo per meritarsi un aeroporto in suo nome?”. Giungo a soddisfacente conclusione pensando che la radio sia una risposta perlomeno sufficiente, e chiudo la questione. Se decollo con questi interrogativi, non oso nemmeno pensare di cosa staro’ discutendo con la mia psiche al ritorno. Dei bruchi, forse.
Mi hanno sempre detto che nella vita “Chi dorme non piglia pesci”. E’ con questo spirito che il 19 maggio affronto una traumatica sveglia alle 2.30 della notte, pensando che in effetti dormire non avevo dormito una mazza e di pesci dunque avrei dovuto prendere a quintali, nei giorni a seguire. Faccio colazione con ancora la cena che finisce il suo percorso digestivo, mi lavo i denti prima di mettere lo spazzolino in valigia e far fagotto verso l’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna, dove arrivo alle 4.45. Un’ora dopo, l’alba. Mentre il sole si fa coraggio e sale oltre l’erba, oltre gli edifici che contornano la pista di decollo, e l’aereo mette in movimento i suoi potenti motori, io trovo interessante argomento di riflessione in: “Ma poi, che cazzo ha fatto Marconi Guglielmo per meritarsi un aeroporto in suo nome?”. Giungo a soddisfacente conclusione pensando che la radio sia una risposta perlomeno sufficiente, e chiudo la questione. Se decollo con questi interrogativi, non oso nemmeno pensare di cosa staro’ discutendo con la mia psiche al ritorno. Dei bruchi, forse.
Lascio i
picchi innevati delle Alpi – che mai mi saziero’ di osservare, nel loro bianco
splendore – mentre la KLM mi propone uno spuntino che alla vista fa vomitare i
maiali. Credo si tratti di una specie di sandwich al formaggio. Anzi, formaggio
e granaglie, visto che il pane e’ composto da una ventina di varieta’ di semi. Tutto
sommato pero’, non e’ poi tanto male, e mi viene servito accompagnato da una
buona fetta di semi-strudel. Dai, la KLM viene promossa per ora. Il pranzo
sara' la prova del nove. Il tempo di atterrare e di trovare il gate giusto, che
vedo il momento del pranzo clamorosamente defilarsi. Pare proprio che il
check-in stavolta durera’ una vita. Ora, non so se i miei amici americani
abbiano cambiato qualcosa in materia di entrata nel loro paese – il che e’
probabile, visto che la cosa ha la frequenza di un aumento della benzina in
Italia – ma sembra che ogni passeggero venga interrogato anche prima
dell’imbarco. Vedo formarsi di fronte a me una coda lunga almeno 50 persone,
ognuna delle quali viene fermata da uno dei 4 ispettori presenti, portata di
fronte ad una specie di leggio dove vengono formulate diverse domande. Quando
per grazia divina arriva il mio turno, vengo tartassato di domande. La piu’
idiota e’ “E’ tutta di tua proprieta’ la roba che hai in valigia?”. Avrei tanto
voluto risponderle che stavo semplicemente riportando indietro dei vestiti ad
un amico che li aveva dimenticati in Italia, ma dubito mi avrebbe preso sul
serio. Mi riguardo alle spalle, dove la coda continua e altra gente passa sotto
le forche. Sembriamo un branco di criminali al primo giorno di gabbia. Mi
immagino di li’ a poco ordinato di denudarmi, indossare un camice arancione e
un paio di manette, e camminare sotto sorveglianza fino al mio posto in aereo.
Fortunatamente la mia immaginazione viaggia anni luce piu’ della realta’, ed io
posso semplicemente salutare sorridendo (e mandandola a fare in culo col
pensiero) la mia interrogatrice e prendere regolarmente posto di fianco al
finestrino. Mi aspettano 9 ore e 30 di volo.
Quest’ultime passano piu’ in fretta del previsto,
grazie ad esempio ad una sola pisciata (con unico conseguente disturbo
passeggero a fianco) e a del cibo di buona qualita’. Nel menu ovviamente
compare il solito “pollo a qualcosa”, nel senso che qualche condimento c’e’, ma
non sarai mai in grado di capire di cosa si tratta. Le verdure possono essere
benissimo carne coperta di una patina verde. Tutto sommato comunque, la “cosa”
e’ mangiabile. I bicchieri poi, sono gia’ di taglia americana (ovvero circa il
doppio di un bicchiere dato che so, da Lufthansa, British Airways e via
dicendo). A pranzo poi osservo letteralmente disgustato il mio vicino tedesco
che prende il panetto di burro nel vassoio e lo adagia intero su un misero
cracker. E lo ingolla. Brrr. Mangia tutto, come un’anatra. Non lascia avanza
nemmeno la poltiglia di simil-verdure che anzi condisce con generosa mayo. Non
c’e’ mai limite al disgusto a quanto pare. Giro lo sguardo al finestrino, per
vedere se lo spettacolo offerto e’ migliore. Migliore lo e’, assolutamente:
sono ormai sopra le Rockies canadesi, montagne meravigliose, ma ora come ora
innevate. Vedo piu’ bianco che altri colori. Controllo l’orologio: ancora, 19
maggio. Ripenso alle mie montagne, le Alpi, le Dolomiti. A quest’ora, mi dico,
credo che ci sia ancora neve dai 2500 in su se tutto va bene. Non avrei
problemi a camminare quasi da nessuna parte. Qui a quanto pare, le cose
cambiano di gran lunga. Sebbene in quanto a latitudine tra Bolzano e Vancouver
non passi granche’, sembra di confrontare l’appennino toscano con la Marmolada.
Convegno che avro’ pane per i miei denti con questa frase che annoto: “I’ll
have my business on the trails out there”. In poco tempo atterriamo. Il momento
piu’ emozionante e’ l’arrivo sopra Seattle. La citta’ – apparte il groviglio di
canali ed isol che gia’ si intravvede – non dice nulla, la cosa che spicca come
un enorme brufolo giallo sulla faccia di un 14enne.. anzi no, come similitudine
e’ un po’ vomitevole.. diciamo che spicca possente all’orizzonte, e’ Mount
Rainier. Magnifico. Magnetico. Calamita la mia attenzione finche’ il pilota me
ne consente la vista, prima di virare. Mount Rainier – che e’ una montagna ma
anche un parco nazionale dal 1899 – sarebbe un vulcano, e un gran pezzo di
vulcano per giunta (4392 metri), anche se attivita’ vulcanica in loco non si
registra da tempi piuttosto lunghi. E’ possente, troneggia –quando le nuvole
onnipresenti consentono la sua visione – su gran parte del WA occidentale,
tant’e’ che gli abitanti delle citta’ piu’ vicine (Seattle – Tacoma) si
riferiscono ad esso come “The Mountain”. Questo e’ possibile perche’, se ne vedete
una foto, noterete che e’ l’unico rilievo nel raggio di decine di miglia. Non
fa parte di una catena montuosa – cosa verosimile nel caso di vulcani – ma
proprio come un grosso brufolo giallo spunta fuori gagliardo dalla terra,
potente. Mi e’ stato detto che e’ possibile vederlo chiaramente, nei giorni di
estrema limpidezza, anche da Portland, Oregon (OR) che sta circa 180 kilometri
a sud, in linea d’aria. Penso a tutto questo, ai racconti che ho letto
sull’attrazione magnetica che ha esercitato nei secoli verso innumerevoli
popoli e persone – dai primi nativi ai contemporanei visitatori del parco –
mentre lo vedo piano piano scomparire dietro le ali dell’aereo. Ormai, e’ tempo
di posare le ruote a terra, e con le ruote, finalmente anche i miei piedi. Recupero
a tempo di record la valigia, passo velocemente e per fortuna inauspicata i
controlli (un gentile signore apre un gate che era chiuso proprio davanti a
me!) e sono davanti al desk della compagnia di noleggio auto in men che non si
dica. Sono in vantaggio di 30’ sulla mia tabella di marcia e con una giornata
del genere, rifletto, credo proprio non mi lascero’ scappare una guida fino ai
piedi del Rainier. Ma Napoleone diceva “Bisogna considerare l’eventualita’ che
tutto vada al peggio, e solo dopo averlo fatto si possono studiare le altre
possibilita’”. Mai parole furono piu’ sagge. E mi ero tenuto largo apposta, in
fase di preparazione della mia tabella di marcia. Semplicemente, non mi sarei
mai aspettato quello a cui stavo andando incontro. Formalizzo gli ultimi
dettagli del mio contratto con la compagnia di noleggio, mi faccio anche
appioppare un’assicurazione che fatalita’ nello stato di WA e’ obbligatoria (e
giu’ altri 11$ al giorno), ed estraggo a mo’ di Colt 45 la cartadi credito per
pagare il ceffo. Strisciata, attimi d’attesa e.. la carta non e’ accettata.
Provenendo mia sfortuna dal mondo bancario, invito il ceffo a riprovare – si
sara’ trattato di un disallineamento temporaneo. Secondo tentativo.. ma il
risultato e’ lo stesso. Diamine. La carta che sto usando mi e’ stata recapitata
in ufficio 3 giorni prima della partenza, ristampata in seguito ad un tentativo
di clonazione che qualche bieco individuo aveva messo in atto nei miei
confronti tramite il web. Il plafond e’ ovviamente al massimo, la carta
dev’essere per forza d cose attiva, quindi non mi capacito del motivo
onestamente. Ma ho altre armi. Estraggo un revolver, la mia seconda carta di
credito, quest’ultima con un plafond leggermente inferiore ma che reputo – al
netto delle spese gia’ fatte – sufficiente alla bisogna. Strisciata numero tre,
e.. funziona, ma il plafond non e’ sufficiente. Nella mia mente, nuvole,
nuvoloni, cumulonembi carichi di tempesta, fulimini e grandine si addensano.
Foschi pensieri affollano il mio cervello. Fra la tempesta che monta, come un
nostromo che tenta di governare una nave nel mezzo di una burrasca, provo a
giocare la carta della disperazione ed estraggo l’ultima arma, una rivoltella:
il bancomat. Sinceramente, ci faccio affidamento quanto un padre farebbe affidamento
sul figlio di 5 anni per guidare l’auto. Ma nei momenti di carestia, va bene
tutto. Ovviamente – ci avrei scommesso – non viene accettato perche’ il debito
e’ recepito solo se proveniente da banca americana. Bene. Sono in un oceano di
merda. Ripenso alle spese che ho fatto con la seconda carta di credito – fra i
vari, il biglietto aereo per la Svezia 2 giorni prima di partire, maledetto me
– ma piu’ che altro penso al dannato motivo per cui la prima carta non sia
utilizzabile. Consulto il ceffo (lo chiamo cosi’ solo perche’ mi piace il nome,
in realta’ e’ un gentile signore di origine messicana sulla trentina) e lo
convinco a prestarmi il telefono e a farmi chiamare la VISA. Dopo minuti e
minuti di attesa, dopo minuti e minuti per capire che diavolo di tasto devo
schiacciare, arrivo a parlare con una ragazza moldava ho idea, che altro non sa
dirmi che contattare la banca, perche’ loro hanno le mani legate. Ora, due
cose. La prima: ho una bassa considerazione dei call center delle piu’ grandi
compagnie che operano worldwide. La VISA, ad esempio. Ti trovi, tu italiano,
pronto ad impiccarti di fronte al desk di un car rental a Seattle, a parlare
della tua cazzo di carta che non funziona con una ragazza che pronuncia le
parole in inglese peggio di te e che di sicuro si trova a meno di 3-400
kilometri da Chernobyl! Ma fatemi il piacere. Cosa numero due: siete voi, cari
amici moldavi/indiani/puerto ricani o qualsiasi altra nazione soggetta a questi
internazionali malfattori, consci del fatto che esistono delle cose chiamate
FUSI ORARI che fanno si che nel mio paese, ora come ora, la mia maledetta banca
sia chiusa?! Forse no. E la VISA dovrebbe formarvi su cio’, prima di darvi il
telefono e le cuffiette per rispondere alle mie telefonate! Metto giu’ il telefono
e vengo fatto accomodare in attesa di un secondo ceffo che, mi viene detto,
potrebbe sapere un codice per farsi comunque autorizzare la transazione. Mi si
accende un flebile barlume di speranza, e con questo mi accomodo sulle
seggiole, as aspettare una lunga, infruttuosa, interminabile ora. So cosa fare,
nel frattempo: scrivo a mia madre affinche’ scuota il mondo per questo
problema, e scrivo alla mia banca, affinche’ si dia una scossa a meno che non
voglia che la scuota io al mio ritorno (con mezzi e termini meno appropriati). Ammazzo
il tempo. Anzi, a dire il vero e’ lui che ammazza me. Sono a due passi dai
posti dove sognavo di essere da mesi ma sono legato ad un marcio di desk senza
veloci vie d’uscita. Nella mia mente scorrono film: vedo – come in quei filmati
velocizzati – decine e decine di persone che camminano davanti a me, si fermano
a far due parole, prendono una macchina e vanno via. Lo fanno per decine di
minuti. Io sono l’unico che rimane seduto sulle panche per tutto il tempo.
Triste da morire. Ma anche gli ultimi prima o poi vengono ricordati, e viene
anche il mio turno. Senza buone news a quanto pare. Il ceffo arrivato non e’ il
risolutore, il messia che aspettavo, anzi pare piu’ ignorante del suo collega,
ed io rimango con un pugno di mosche in mano. E’ sabato, la banca non aprira’
prima di domenica alle 23, ora locale. Mi viene proposta la seguente soluzione:
a meno che io non decida di pagare l’intero noleggio con cash (cosa che non
faro’, perche’ mi fumerebbe il 90% dei 1500$ che porto con me, deposit incluso)
posso pagare un mini-noleggio di 3-4 giorni, il tempo necessario per contattare
la banca e sistemare la grana. E a me, a quanto pare, utile per completare il
giro dell’Olympic Peninsula che ho programmato. Mi pare sia l’unica cosa da
fare, tutto sommato – orma la tragedia e’ avvenuta – non mi rovina troppo i
piani. Accetto, esborso – chissa’ che sifonata mi avranno tirato, non ho
nemmeno guardato i dettagli da quanto arrabbiato e assonnato sono – e me ne
filo via ai mille all’ora. Non ne voglio piu’ sentir parlare. Sono due ore e
mezza della mia vita che ho passato davanti al desk di una compagnia di
autonoleggio, pazzesco. Scappo. Raccatto la mia scassarola, al solito controllo
i danni preesistenti (pare che sia finita dentro la gabbia di un leone, ha
graffi dovunque e sono tutti segnalati. Dovro’ porre attenzione) e sgaso a
tutta verso Port Orchard, al WalMart, dove prendero’ l’ordine fatto a suo tempo
da casa per tutto il materiale da campeggio. Ho un sonno becco. Non so nemmeno
che macchina sto guidando, non l’ho ancora realizzato e sinceramente non me ne
frega una mazza. Devo ancora sbollire l’incazzatura. Mi sento un po’ come
Giovanni (del trio, Aldo Giovanni e Giacomo) quando gli rigano la macchina e
rimane minuti e minuti in silenzio con lo sguardo fisso nel vuoto. Ecco, mi
descrivo bene cosi’. Sono all’inizio del viaggio e ho gia’ finito le
imprecazioni possibili immaginabili. Sto zitto, ed e’ meglio. Guido assorto nei
miei inenarrabili, sproloquiosi pensieri.
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