venerdì 25 gennaio 2013

Reality cheque. I sogni finiscono, sempre

A volte mi domando a cosa serva scrivere tutto questo, che senso ha. Non cambia le cose. Non mi da conforto. Non mi aiuta. Mi verrebbe piuttosto da tirare un pugno sul muro, ma se lo faccio, con il nervoso che ho in corpo, faccio venire giu’ le pareti di cartongesso di sto ostello merdoso. Certe volte dovrei essere un po’ piu’ razionale, egoista, cattivo, ma non ci riesco. E’ piu’ forte di me. Avete presente, quando in quelle situazioni un po’ tese, un po’ conflittuali, rispondiamo indietro solo per poi pensare, tipo mezzo minuto dopo “Cazzo, questo dovevo dirgli. Perche’ diavolo le risposte migliori mi vengono in mente sempre troppo tardi?!”. E io, oltre ad essere cosi’ scemo da rispondere perennemente in modo errato, do anche sempre una prima risposta troppo buona, troppo malleabile, troppo accomodante. Non scatto, non alzo il tono, non penso a me stesso prima, non offendo, non ridicolizzo. E finche’ si tratta di “liti” fra amici, o qualche rissa da bar a cui peraltro non ho mai assistito, tutto cio’ puo’ andare bene o addirittura contribuire a salvarmi la pellaccia. Se invece si tratta di cuore.. beh, si fotta. Ne ho fin sopra la testa. Sono stanco, stanco di essere sempre il buono – perche’ i buoni nella realta’ perdono (quasi, diciamo 99%) sempre. Questo sto capendo. I film sono film. Il colpo di fulmine esiste per una persona, e fatalita’ l’altra e’ tipo l’ultima persona sulla faccia del pianeta a cui potresti anche lontanamente interessare. C’e’ chi riesce a tagliare subito, mandare a fare in culo al momento giusto, preservando la sua salute fisica, mentale, e finanziaria. Quello e’ un grande uomo, lo stimo moltissimo. C’e’ chi come il sottoscritto purtroppo – me misero – prova a credere nei sogni, in qualcosa di difficile, di lontano, crede nel sacrificio in tutti i sensi, nello sforzo per venire incontro, nei sentimenti. Balle, cagate.               
Scordatevi mazzi di fiori, lettere, passeggiate e schifezze simili. Risparmiate le parole, almeno non vi si secchera’ la lingua. La maggior parte delle volte – anche se devo dire, a volte apprezzate in un modo terribilmente simile all’autentico – sono buttate nel cesso. Conservate qualche parola nobile per vostra madre o vostro padre, vostro fratello o vostra sorella, qualcuno che vi da un passaggio per strada, qualcuno che vi sfama quando siete affamati. Non per una cazzo di ragazza. Almeno, fino a quando non ha al dito lo stesso anello che fatalita’, ti trovi a portare anche te per un qualche losco motivo a te ignoto.

E’ giovedi’, pochi giorni fa ho parlato con lei via skype, ho una voglia maledetta di vederla. A lavoro vedo il roster, ho 3 giorni di fila di ferie non richieste. Se rimango qui mi lego una pietra alle gambe e mi butto in lago, no way. Se prendo la macchina ed inizio a guidare senza meta, uno spendo valanghe di soldi in benzina, due va a finire che mi ritrovo sul cucuzzolo di una montagna a pensare a lei e a quanto lontano le sono. Mi viene un’idea. Tanto vale provare, a sto punto. Il giorno dopo a lavoro, chiedo un quarto giorno di ferie, se possibile. Impresa facile, visto che sono l’ultima ruota del carro. Con 4 giorni di fila, posso permettermi di provare ad organizzare una sorpresa in grande stile. Ovviamente, per lei. Non c’e’ altro posto al mondo dove vorrei essere in questo momento, quindi inizio a cercare voli su voli, a mandare sms, email, mettendo in moto la mia rete di amicizie kiwi, cercando di realizzare il mio piano. Anzitutto, trovo un volo: Queenstown – Wellington, andata martedi’ ritorno sabato, giusto in tempo per guidare ad una velocita’ compresa tra i 90 e i 120 all’ora su una strada tortuosa e a strapiombo su un lago, per arrivare a casa, stirarmi in circa 35 secondi t-shirt e camicia, filarmela di nuovo in macchina (lasciata prudentemente accesa per la bisogna) e farla a tutta fino a lavoro, sudato come una capra alpina in estate e con il volto sfigurato come fossi stato appeso ad una croce per un paio di giorni. Beh, l’inizio non sembra tuttavia cosi’ impossibile.

Prenoto il volo, poi impreco copiosamente. Non mi sono premurato di controllare la disponibilita’ di posti letto in ostello. Gravissimo, gravissimo errore. Corro sul sito, inserisco i dati, attendo. Sono fortunato, c’e’ posto. Prenoto per 3 notti, martedi’ compreso. Come si dice qui, “rolling the dice”, perche’ arrivando martedi’ alle 15.30 a Wellington, avrei al massimo 6 ore per coprire la distanza che mi separa da National Park (non ricordo in km, ma circa 4h 30’ in macchina). In autostop. Piano in realta’ molto, molto ottimistico. Sono incrollabilmente ottimista io, credo la gente ormai lo sappia. E questo spesse volte me lo mette nel didietro, cosa che comunque non imparero’ mai. Ad ogni modo, prenoto 3 notti. Continuo a programmare. Mobilito un amico di Queenstown per avere un parcheggio free piuttosto che lasciare la macchina in aeroporto. Ne rimedio uno lungo il viale dell’aeroporto stesso, a 5 minuti a piedi. Non e’ il suo parcheggio, non e’ il parcheggio dell’aeroporto, e soprattutto al tempo in cui scrivo devo ancora appurare se sia legale lasciare in tal posto una macchina per 5 giorni o no. Verosimilmente non trovero’ alcuna macchina al mio ritorno, ma sono ormai avvezo a tali, spiacevoli situazioni. Mando una mail ad una amico a meta’ strada fra Welly e National Park per avere un letto al ritorno, venerdi’ sera. Ovviamente, non mi nega tale favore. Ma faccio di piu’. Gli chiedo se fosse disposto – sotto pagamente della benza – a darmi un passaggio da casa sua a destino, circa 250 km andata/ritorno tanto per gradire. Con ritorno alle 11 di sera. Il mio amico e’ attorno ai 70. Non male eh? Ebbene, non mi nega nemmeno quello. Non per esagerare, ma credo sia la persona piu’ generosa che abbia mai avuto il piacere di conoscere. Mi sorprende sempre.

La trama e’ posata, i dettagli quasi, non vedo l’ora di partire. Non vedo l’ora di riabbracciarla. Con la carica che ho in corpo, sento che potrei camminarli i km che mi separano da lei. Credo non ci sia forza piu’ grande del sentimento puro che si puo’ provare verso una persona. Sarebbe capace di farti fare cose che non avresti mai pensato di fare. Non avresti mai ritenuto possibili. Eppure. Inizio a prepararmi lo zaino, avendo il buon senso di cacciarci dentro, anzitutto, la mia amata palla da football. Se fosse pesata 20 kg, avrei pagato i kg extra per portarla via. Salvo poi non usarla mai, pena rompermi un braccio al primo tentativo di lancio. Caccio dentro cibo, vestiti come partissi per un weekend d’alta moda a Firenze (ma con un po’ di Glenorchy-style – mado’, quanto mi manca una camicia, una cintura diversa da quella che uso da 3 mesi a sta parte, e magari un cravattino ogni tanto! Papa’ appena torno sono da te in negozio) e il pc, inseparabile. Installo Wormux prima di partire. Un giochetto mi sara’ utile. Tutto sommato, essendo una sorpresa, non sono certo di nulla. Lei potrebbe essere ovunque, anche in Giappone, per quanto mi riguarda. Potrebbe non avere neanche un minuto di tempo libero in quei giorni, quindi avere un passatempo sembra cosa saggia. Certo che, sarebbe interessante arrivare, non trovarla, e domandare “Dov’e’ lei?!” ed avere in tutta risposta “E’ partita l’altro giorno per il Giappone!”. Uhm, sweet as. Credo che dalla mia bocca uscirebbe qualcosa che farebbe fuggire gli scoiattoli e i conigli, volare via gli uccelli da ogni albero e far cadere le foglie nel giro di una cinquantina di km. Io pero’, ricordatevelo, sono ottimista. Non contemplo la sconfitta. Da Napoleone, non ho imparato un cazzo. Cioe’, ho imparato che sono io il padrone del mio fato, che devo fare i conti su me stesso e sul mio cervello, sulle mie capacita’, non sugli altri. Quel che non ho imparato e’ che devo avere un piano B. Oppure, spesso ce l’ho, ma lascia parecchio a desiderare. Talvolta mi sarebbe molto, molto piu’ semplice alzare direttamente bandiera bianca.

Il giorno della partenza, sono carico a mille. Genero energia termica. Mi mettessi la presa dell’aspirapolvere nel culo potrei pulire casa senza l’assillo di allungare il filo o di intralciarlo sotto sedie, divani o oggetti con gambe di qualsiasi tipo. Il task del mattino e’ di approntare lo zaino per la spedizione aerea. Non che abbia valori dentro, ma sai, la prudenza non e’ mai troppa. Tiro fuori il rotolo non mio di pellicola da cibo, ed inizio ad avvolgerci meticolosamente tutto lo zaino. Con il mio utilissimo, multiuso nastro isolante faccio un paio di giri tanto per assicurare la pellicola allo zaino in modo ancor piu’ sicuro. Tra me e me penso, “Quei  5 dollari di nastro isolante sono stati la meglio spesa finora!”. Ci ho riparato una scarpa, una macchina, ed ora ci chiudo lo zaino. E chissa’ cos’altro mi saltera’ in mente, eh?! Probabilmente dovrei chiudermici la bocca ogni tanto con quell’affare anche. Finita l’opera, il mio zaino sembra un bel bozzo di farfalla. Un farfalla enorme, preistorica, con superpoteri. Credo potrei volarci sopra quel coso se mi ritornasse una farfalla. Sarebbe fico. Ed economico. Caccio il bozzo sul sedile posteriore, zainetto davanti, cappello&occhiali da sole, e via. Rock&Roll. Corro in citta’ ad un tempo record – se avessi la mia Bravo mi divertirei un macello su questa strada, sul serio! Anche se avere una macchina come questa ti lascia il brivido di poter finire di sotto ad ogni curva! E’ un brivido a cui, ragazzi, non si puo’ rinunciare! – prelevo un po’ di grana, e mi avvio in aeroporto. Fa un caldo assassino. Impreco contro me stesso per non aver portato via la crema solare. La lozione solare (suona bene LOZIONE, vero?!). Altro gravissimo, potenzialmente mortale errore. Cammino sotto il sole con lo zaino sulla schiena e lo zainetto davanti. La pellicola non fa altro che aumentare piu’ o meno di 14mila volte il tasso di sudorazione, mentre davanti non so per qual motivo, dopo 30 secondi di cammino si e’ gia’ formata una cospicua chiazza di sudore, approssimativamente delle dimensioni del lago di Garda. Continuo ad imprecare in due lingue, tanto sono incazzato. Ora so davvero come si sente un negro che vende tappeti o asciugamani a Sottomarina in un caldo, secco giorno d’estate: sudato ed incazzato. Appena giungo all’ombra dell’aeroporto, esulto braccia alzate come avessi vinto il Super Bowl. Peccato che davanti a me ci siano un paio di signore asiatiche che mi guardano con faccia straniata. Bella figura, indubbiamente. Quantomeno mi fa tornare il sorriso, anche se non mi piace molto l’idea di ridere sulle mie stesse figure barbine. Al gate va tutto liscio, sono veloce come la luce, mi avvio a prendere l’aereo. Mi rilasso un po’, mi sembra incredibilmente presto, il mio volo parte alle 14.05 e sono le 13.20. Vedo che al mio gate chiamano per un volo su Welly, ma la mia mente corrotta pensa “Non puo’ essere il mio, troppo presto”. Cosi’, mi seggo, leggo, sfrutto il wifi gratuito. Passano venti minuti. Mi alzo proprio per curiosita’, quello scopo leggermente scientifico che mi incita a controllare se il volo precedente e’ partito. Vedo un enorme segno rosso che lampeggia con la scritta “LAST CALL”. Mi corre un brivido dietro la schiena. Mascherando un fottuto terrore con una calma apparentemente olimpica, mi avvio diligentemente al mio zainetto per controllare il numero del volo. Perbacco, coincide! (non ho detto perbacco quel giorno, potrete ben immaginare) Perdo sciaguratamente la mia calma olimpica e con una faccia come il culo mi presento al check-in che sta per chiudere. Ho salvato le chiappe anche stavolta. Monto in aereo, e sono pronto finalmente. Un’altra avventura delle mie e’ alle porte. Anche se per come stava per iniziare, non ho grandisssimi auspici in tutta onesta’.

Arrivo a Welly terribilmente in orario, inaspettatamente. Scendo di corsa, nessuno mi domanda passaporti o cose del genere – che paese la Nuova Zelanda! Se arrivo con un insetto in tasca potrei finire in gabbia a vita, se provo a ricevere del formaggio senza etichetta d’origine esso viene inesorabilmente distrutto, ma potrei chiamarmi anche Osama Bin Laden II e avere una lunga barba grigia ed un turbante, e nessuno mi cagherebbe il cazzo in aeroporto! Fantastico! Mi dirigo verso il parcheggio, luogo ove la mia prolifica mente mi suggerisce potrei avere maggiori chance di ottenere un passaggio. Inizio a molestare ogni passante munito di chiavi che potrebbero essere di una macchina come di una casa o di un lucchetto per biciclette, fino a quando, dopo circa 2,5 minuti, trovo due vecchietti che mi danno uno strappo fino in stazione. Mi dicono che li potrei prendere un treno fino a piu’ a nord lungo la costa, raggiungendo la highway dove potrei avere ancor piu’ chance di avere il passaggio giusto. Dopotutto li la strada sarebbe praticamente tutta dritta, salvo una deviazione ad est. Andata. Giriamo per Welly per circa venti minuti. Mi viene il sangue da naso per quanto piano guidano. Vorrei quasi colpirli in testa, prendere il controllo della macchina e sgasare un po’ fino in stazione. Pur non avendo la minima idea di dove la stazione si trovi. Anche se subito dopo, mentre ci fermiamo 100 metri prima di un passaggio pedonale deserto per far passare qualche balla di fieno rotolante, medito il suicidio tramite “leggera” tensione delle cinture di sicurezza attorno al collo. Passo il tormento, arrivo in stazione, ringrazio gli amabili vecchietti e corro verso la biglietteria. Al solito, c’e’ il rompicoglioni con la rogna infinita davanti a te. Ed ora che non lavoro piu’ nel posto piu’ rognoso al mondo – la banca – e mi trovo ad essere dalla parte sbagliata dello sportello, impreco copiosamente. Non che dalla parte giusta dello sportello non lo facessi, per dover di cronaca. C’e’ il solito negro (non sono razzista, e’ che dicendo “nero” mi sembra di indicare un pennarello, e “persona di colore” e’ troppo lungo, scordatevelo. Di colore poi e’ estremamente generico, potrei anche alludere ad una persona blu ad esempio) con un macigno grande sempre. Impiega 10 minuti per salutare l’impiegato e andar fuori dalle palle. Io sbuffo piu’ di un treno del 1858. Quando e’ il mio turno, pago il mio biglietto per un’oscura quanto ignota localita’ a nord, sotto consiglio dell’impiegato, e me la filo. Arrivo ai binari, e scopro con discreta soddisfazione che il mio treno e’ in partenza tra 5 minuti. “E questo e’ bene!”, come direbbe Homer al venditore di Congurt. Salgo su, e come per magia, prendo sonno con la testa appoggiata alla barra di ferro che mi sta di fronte. Cosa che al risveglio, seppur senza uno specchio, posso intuire mi comporti l’avere un tangibile segno orizzontale profondo circa 2 centimetri stampato in fronte. Potrei fissarci un pennarello, nero, in quel segno. Appena messo piede fuori dal treno, apro lo zaino ed estraggo il mio cartello per l’autostop. Recita “Levin/Bulls/Wanganui”. Wanganui in realta’ si scrive “Whanganui”, ma credo che si capisca lo stesso, dopotutto. Credo che nemmeno i locali siano tanti sicuri di come si scriva esattamente. C’e’ una scienza credo dietro l’autostoppismo. E io faccio i miei calcoli. Faccio per piazzarmi davanti ad un supermercato (discreto flusso di macchine), poco oltre un semaforo (le macchine riducono la velocita’ ed hanno piu’ tempo per leggere il mio cartello), perdipiu’ all’ombra (non mi brucio ogni singolo pelo), ed iniziare a sventolare il mio cartello, quando mi accorgo che davanti a me ho due macchine della polizia. Con spudorata quanto falsissima disinvoltura fischietto chiudendo il cartello in 0,03 secondi, come fosse un pezzo di cartone da gettare via. Quando accendono le sirene e si fiondano all’inseguimento di qualche kiwi poco rispettoso della legge, finalmente srotolo il cartone e tirando un sospiro di sollievo, riprendo la mia professione. Mi sento una bagascia. Ma, ma, fortunatamente una gentile signora di mezz’eta’ mi tira su dopo 2 minuti e mi  porta, dice, fino a Levin. Beh, meglio che niente. Sono tutt’ora in discreto orario sulla mia tabella di marcia, e se a Levin riesco ad avere un passaggio fino a Wanganui in poco tempo, sono a cavallo. Smontato dalla macchina, tiro su i miei bagagli, sorrido al figlioletto dalla signora – attorno ai 7 anni – gli dico “Bel cappello, ne avevo uno simile!”, dandogli un buffetto in testa, e guadagnandomi un sorriso gentile e un “Thank you, goodbye!” nel tono che solo i bambini sanno donarti. Faccio due passi fino ad un benzinaio (altro luogo con supposto discreto flusso di macchine) e riprendo il mio sporco mestiere. Mi risento una bagascia. Sorrido a tutti. Qualche ragazzaccio in pick-up mi manda a fare in culo. Io, da buon samaritano con un briciolo di cervello (vedi inizio post) anziche’ ricambiare ed alzare la posta sorrido. Dopotutto sono in cerca di un passaggio, non di rogne. Il tempo passa, troppo velocemente. Inizia anche a venirmi un discreto sonno. Il vento mi spira negli occhi e mi rende difficile tenerli aperti, mi fa lacrimare. Provo a importunare qualcuno che fa benzina nel tentativo di beccare la persona giusta, quella che sta guidando verso nord per piu’ di un isolato. Niente da fare. Passa un’ora e mezza, decido di andare avanti. Un “fella” per strada, seguito poco dopo da una gentile vecchietta (anche le vecchiette) mi suggerisce di andare alla fine del paese,perche’ qui in mezzo c’e’ troppo rischio di beccare solo gente in giro per il paese. Manco fosse New York! Ci saranno tre isolati in questo buco schifoso, non so spiegarmi quale sia lo scopo di girare in macchina per 3 isolati. Comunque, un consiglio e’ sempre un consiglio, e lo seguo di buon grado. Cammino tenendo alzato il mio fido cartello. Lungo la via, essendo assetato come un cane del deserto, mi fermo dallo zio Mc per un soft cone. Scopro con piacere che il prezzo e’ diminuito da 1$ a 70 cents, non male. Se l’avessero fatto all’inizio, con tutti quelli che ho comprato avrei potuto acquistare una villa in Florida con tanto di servitu’ annessa. Giungo infine al termine del paese-fogna, e riprendo ad autostoppare. Il vento gira a mio favore e si ferma quasi subito un pick-up con sedili che sembrano essere di lana di pecora. O forse sono due pecore che fungono da sedili, non so. Ci vedo poco. Apro la portiera, il tipo mi chiede dove vado, gli dico Wanganui, mi dice che va proprio li. Metto i bagagli sul tailgate, dove trovo una discreta motosega. E’ quel genere di tipo, quello che rapisce gli autostoppisti, li porta in un’oscura strada di campagna, li stordisce con un martello e li fa a pezzetti con la motosega, penso fra me e me. Ormai ho un piede nella fossa. E’ la fine. Lui e’ chiaramente quel tipo: stivaloni da campagna, mani sporche di smorcia, annerite e incallite dal duro lavoro del carnefice. L’unica amica fidata e’ la scure. Sono fottuto. Si rivela invece essere un amabile “forestale” che lavora per salvaguardare la flora locale. Piuttosto loquace anche, oserei dire. Parliamo di tutto, dalle specie di flora che stanno scomparendo (livello d’interesse -3547) a Berlusconi. Un po’ di barzellette non fanno mai male. Mi ricorda il clima rilassato che c’e’ nella mia terra natia. Durante il tragitto, assisto ad uno splendido tramonto sulle campagne. Peccato che cio’ significhi anche che non passero’ mai la notte a destinazione. 24 dollarozzi buttati nel cesso. Fa niente, saranno ben spesi, lo faccio per un motivo che va oltre i soldi, oltre la stanchezza, oltre il sonno. Allerto il mio amico di Wanganui: ho bisogno di un letto per stanotte. Quando mi presento alla porta di casa sua, integro, senza nemmeno una goccia di sangue (la motosega e’ rimasta sotto il mio zaino) lui non mi nega il posto letto, e nemmeno un pasto caldo. Anche se ormai non mi sorprendo piu’ – dovevo vederlo una volta in vita mia, e’ finita col vederlo 3 volte con l’opzione per una quarta, con annessi pasti e quant’altro, pazzesco – e’ una persona fuori dal comune.

La notte passa in modo abietto. Non chiudo un occhio neanche per sbaglio. Mi servirebbe della colla per chiudermi le palpebre, ma non saprei come spegnere il cervello. Beh, capita quasi sempre in quelle notti in cui sei piu’ teso della corda di un arco, quelle notti in cui potresti caricare il tuo cellulare infilandoti la presa su per il naso da quanto carico sei. Capita prima di un esame (non a me, non sono il tipo), capita prima di partire per un lungo viaggio (si, a me), capita quando pensi solo e sempre ad una persona. Non riesci a chiudere. Ho pensato per tutta una notte a come prensentarmi, cosa dirle, che sorriso farle, SE farle un sorriso, se inventarmi qualche balla, se buttarla sul ridere o stare seri. Qualsiasi cosa. Sono un cretino emerito. 110 e lode peraltro. Mi sveglio alle 6 e 30 che sono piu’ straccio di quando sono andato a dormire. Il latte anziche’ berlo dovrei tirarmelo in faccia per darmi una svegliata. Invece, faccio colazione con dei muesli, salgo in macchina col mio amico, il quale mi da un passaggio fino a fuori citta’, e torno al mio mestiere di bagascia stradale. Attendo 20 minuti (il traffico da Wanganui verso National Park alle 7 del mattino non e’ esattamente quello che c’e’ a L.A. all’ora di punta, se volete saperlo), ed ecco che mi si fa sotto un altro pick-up (e daje!) con all’interno un nerboruto signore con due braccia da wrestler, tatuate, possenti. Mi avventuro in macchina chiedendo fino a National Park ed avendo in risposta un “SI, ti posso portare fino a li!”. Beh, abbiamo fatto 30, facciamo 31! Cosi’, salgo e mi avvio a rischiare la pellaccia per mano di un pazzoide potenzialmente ex-detenuto ora rider della piu’ bieca specie. Con un solo braccio potrebbe farmi saltare le cervella credo. Si scopre essere un simpatico omaccione che lavora in un penitenziario come drug-tester, una delle figure piu’ odiate della prigione mi dice. Capisco la taglia delle sue braccia. Io inizio a ruota libera con le mie scene migliori: “Quando ero a casa seguivo una serie sulle carceri americane.. gang, droga, armi..” e via di seguito. Come parlare con un bambino di 5 anni. Ma la conversazione e’ interessante, e nonostante ogni tanto susciti qualche risata, scopro diverse cose. Una delle varie, recita tipo “Confrontate alle gang americane, quelle locali sono bande di bambini. Se le metti in America, il giorno dopo sono tutti fottuti”. Haha. God bless America!

Arrivo a National Park con un clima da panico: il sole c’e’ ma non scotta troppo, l’aria e’ fresca, si vedono tutte le montagne circostanti (3), e si sta di un bene dell’anima. Anche se onestamente credo che ora come ora starei bene anche nella Death Valley con un maglione di lana o al circolo polare artico in canottiera. Niente mi butterebbe giu’ ora. Mi faccio lasciare al benzinaio locale dal pazzoide ex-detenuto, e inizio a camminare i 150 metri che mi separano dall’ostello, dal suo profumo, dalla sua voce, da lei. Ad ogni passo il mio battito aumenta a dismisura. Iniziano a tremarmi le mani. Odio queste cose, mi fanno sembrare un fottuto vecchio con l’Alzaimer. Sono maledettamente contento, emozionato, curioso, indeciso allo stesso tempo. Arrivo all’ostello, mi nascondo dietro ad un pullmino, e mi viene un’idea: non essendo certo della sua presenza in reception, la chiamo. La chiamo, si, grande idea. “Hey, ciao sono Manu, volevo solo dirti che dovrebbe esserci un pacci giu’ che ti aspetta, vai a controllare e sappimi dire! Ciao”. E metto giu’. Aspetto un minuto, e mi avvio alla porta. La vedo mentre legge un cartello affisso in reception, mi da le spalle. La attendo per qualche secondo, forse 5-10, mi sembrano ventisette anni. Credo nel frattempo mi siano venuti i capelli bianchi. Poi si gira, finalmente. I capelli tornano castani. Io ho le mani in tasca, sono appoggiato con una spalla alla porta, le gambe accavallate. Quando si gira e mi vede, sfodero un sorriso intenso, ma discreto. Di quelli “Si, sono qui. Stupita eh?!”. Lei fa una faccia che dice “Non ci credo”, poi mi si avvicina, io faccio altrettanto, e mi abbraccia.

Usciamo per fare due parole, le spiego la mia idea, il mio pellegrinaggio, tutto questo per lei. Qualche occhio lucido si intravede, forse piu’ per il sole dritto negli occhi che per il mio gesto in realta’. Passiamo un’oretta a parlare del piu’ e del meno, poi riprende a lavorare. La sera e’ via ad una serata “solo girls”, no way di intrufolarmici. Credo nemmeno vorrebbe tutto sommato. E via quindi, il giorno uno. Tutto per ora si e’ risolto con un abbraccio e un di dubbia causa occhio lucido.

Son partito senza alcuna aspettativa. Non mi aspettavo pianti a dirotto, baci a non finire, e via dicendo. Non e’ la tipa, credo. E comunque non credo sarebbe il luogo, il momento. Non mi aspettavo nulla del genere punto e basta. Ma di qui a ricevere un abbraccio e un’ora di chiacchiere, un po’ ne passa. Non sprizzo certo felicita’ da ogni poro, ma mando tutto a fanculo, al solito, prendo la mia football e me ne vado in campo a fare due lanci e a prendere il sole.

La sera potrei essere in due posti con l’umore che ho: qui, o ad un funerale. Aspetto fino alle 21, quando lei finisce di lavorare, per almeno accompagnarla al posto dove si svolge questo mini-party. Passo il tempo con una simpatica ragazza inglese nel mentre. Conosco un ragazzo californiano con cui si va d’accordo subito, e lo invito a passare a trovarmi a Glenorchy, visto che programma di visitarla. Magari mi ci scappa un’altro invito in Cali, gia’ che ci siamo! Arrivano le 21, inizio a girare senza meta per l’ostello, come un cazzo di cimice che non riesce a capire che c’e’ un vetro tra lui e la liberta’. Alla fine mi siedo fuori, davanti alla porta, ad aspettarla. Arriva in 2 minuti, tirata come non avevo mai avuto la fortuna di vederla prima. Un angelo dai capelli biondi e gli occhi azzurri. Anziche’ avere le ali e una veste bianca, ha una giacca nera e dei pantaloni verde chiaro. La faccia promette merda. Almeno, quello che immagino. Gran partenza peraltro. Le chiedo se posso accompagnarla al posto. Mi dice che le ragazze stanno arrivando verso di qua e che prima si fermano al bar di fronte. Tra me e me penso “Sta roba non ha senso. Cazzo vuol dire?! Mi fermero’ dove vi trovate, no?!”. Evidentemente il cervello di una donna viaggia su altre dimensioni, a me tutt’ora decisamente oscure. Le rispondo, intuendo cosa volesse in realta’ dirmi, “Quindi e’ meglio che me ne stia qui vero?”. La risposta, ovviamente, un SI con un’espressione come a dire “Mi spiace, ma e’ proprio cosi’”. Mi alzo, e mentre io le do un bacio sulla guancia, lei credo si senta come me quando a 10 anni mia nonna si avvicinava per baciarmi. Ho dentro di me una sensazione che mi porterebbe prima a spaccare il muro con un pugno, poi a vomitare per il ribrezzo. Torno mestamente dentro, con l’aria di un quarterback che ha perso il Super Bowl per un intercetto a 5 yards dalla end-zone, 10 secondi dalla fine. Provo a rifugiarmi in uno dei libri piu’ divertenti che abbia mai letto (Bill Bryson, Life and times of the Thunderbolt Kid, altamente consigliato), ma fa cilecca di brutto. Leggo due pagine, non rido neanche per sbaglio, chiudo tutto e mi caccio sotto le lenzuola. Fossi ad un funerale avrei la faccia giusta.

Anche se, ora che ci penso, potrei essere in un terzo posto: fossi nel mezzo di una rissa da bar, spaccherei tanti di quei culi che finirei agli annali.

Mi semi-addormento nel giro di 3 minuti stavolta. Forse il nervoso, la delusione, il dolore soffocano la tensione. Sembro avviato verso una dolce notte di riposo quando parte una segheria. Uno scemo dalla parte opposta della camera, letto superiore, inizia a russare ad un livello ridicolo. Io ho una tecnica in questi casi: attendere imprecando. Solitamente dopo 3-4 minuti e 3-4mila imprecazioni, la segheria smette. Non stanotte. Ad un certo punto inizio ad imprecare ad alta voce in italiano, tanto per rendere tangibile al resto della camerata (tutti ragazzi ovviamente) che c’e’ qualcuno che si e’ rotto il cazzo di questa cosa. Sono seguito da altri 3. Inizio a parlare in inglese. “C’e’ nessuno che puo’ tirargli un calcio nel culo?”, domando. Via qualche risata. “No sono serio io!! Svegliatelo per favore!”. “Seems a fuckin’ chainsaw!”, una cazzo di motosega, dico. La camera piegata dal ridere. Come al solito, ho coniato un soprannome. Partono urla dalla camera “Hey chainsaw!”. C’e’ dello spasso in tutto questo obbrobrio. Con la carica nervosa che ho indosso credo potrei incenerirlo con lo sguardo, il fellone. Ho anche parecchio sonno tutto sommato, e non mi va di sprecare tempo in imprecazioni o in motoseghe. Un tipo dalla parte bassa della camera, mio lato, mi segue con coraggio ed entusiasmo. “Hey buddy!” inizia ad urlargli dietro. Mi fa divertire, il fella. E ancora, “Hey buddy! Stop the chainsaw!”. Tutti a ridere. I risultati pero’, risate a parte, fanno piangere. Il fellone continua a russare, in tutta risposta, ancor piu’ forte. Fa paura. Ricordo i tempi dell’abo cinghiale. Paura fottuta la notte, a quei tempi. Ad un certo punto pero’, la mia pazienza finisce. Con un gesto che dire teatrale e’ dir poco (credo sarei un attore di successo), mi levo le lenzuola di dosso, e dico “Ragazzi, mi sacrifico per salvare la vostra nottata – e anche la mia dopotutto”. Gente a ridere, che scoppia quando sente i miei piedi rimbombare al suolo dopo un tuffo dal primo piano del letto a castello. E’ tempo di agire, ed i ragazzi lo capiscono. Partono urla di incitamento miste ad applausi. Arrivo al letto del badass, gli do una bella scrollata, non sapendo in realta’ quale parte del corpo andavo a scrollare, nell’oscurita’, e lo sveglio. “UH, EH, WHAT’S ON?”. “Hey, stai russando un pelo troppo sai, siamo tutti svegli”. “Ah, ok”, in tutta risposta. Fanculo pezzo di merda. Dormi e non rompere le palle, la prossima volta sei giu’ dal letto con una scrollata, promesso.

Il mattino mi sveglio male, e svegliarsi male non porta mai bene. Un cretino sotto di me, un asiatico di dubbie origini che sembra vivere in quel letto da mesi a giudicare dalla biancheria appesa agli assi del mio letto, apre le tende alle 6.30. Ricordando un film di Bud Spencer, io le chiudo con fare seccato quasi all’istante. Passano 10 minuti, e il cretino le riapre. Apro gli occhi, sbuffo rumorosamente, e le richiudo con violenza. Il muso giallo e’ domo, ma ormai il danno e’ fatto. Riprendo a sonnecchiare, ma non a dormire. Riesco in qualche modo a tirarla avanti fino alle 8, quando poi mi alzo. Lei pare al lavoro. La vedo girare qua e la, mentre mangio i miei schifosi (senza cioccolata) oatmeals con raisins e coconut powder. Forse non mi vede - anche se dubito, cacchio! - ma non mi degna di un saluto. Io faccio altrettanto. Un po’ di orgoglio ogni tanto fa solo che bene. Devo cacciarmelo bene in testa, perche’ nonostante sia una delle persone piu’ orgogliose sulla faccia del creato, sono anche una delle persone che piu’ se lo mette in tasca, il suo orgoglio. Troppo, troppo. Cosi’, passo la colazione a ruminare pensieroso, fino a quando la mia amica inglese mi invita fuori per il te’. Almeno c’e’ aria fresca. Almeno non la vedo girare intorno. Ma, quando rientro per andare al cesso, faccio per girare l’angolo e praticamente le sbatto contro. “Buongiorno”, io. “Buongiorno”, lei. “Come stai”, le chiedo. Mi risponde con una faccia e con una parola che sono tutto un programma: busy, impegnata. A postolo. Mi sembra di leggere nella sua faccia un sentimento, uno stato d’animo, del tipo “lasciami andare, non vedo l’ora”. Prima di lasciarla, le dico “Tutto bene?”. “Si”. E via, con uno di quei sorrisi perfettamente tagliati a meta’, frettolosi, insulsi. Piu’ uno schiaffo che un sorriso, a dire il vero. Il giorno di merda si vede dal mattino. E visto che questa sara’ l’ultima sera qui, l’ultima chance che avro’ di parlare e di chiarire il mio gioco, gia’ pregusto i quintali di merda che dovro’ inghiottire prima di posare la testa sul cuscino, incazzato, deluso, maledettamente triste. Quintali di merda. Merda a palate. Uragani di merda.

Ad un certo punto della giornata, prendo la mia football e vado fuori. Infradito, jeans, cintura, canotta senza maniche bianca infilata nei pantaloni. Stupendo, un quarterback d’altri tempi. Starei benissimo in un lungomare del Sud Italia a urlare “Ueee pische’” a qualsiasi tipa decente che passa. Senza football ovviamente. Ad ogni modo, mi dirigo in giardino, faccio su per strada la mia amica inglese, forse non molto convinta di giocare a football – ma io sono cosi’, c’mon, ormai sei della truppa – e faccio due lanci. Sono momenti strani. Possibilmente non me ne frega niente di qualsiasi cosa stia al mondo. Di me, degli altri, delle cose, del tempo, dei soldi, della pace, di niente di niente. Ho il cervello annullato. Da cosa? Non so dargli un nome. Rabbia? Tensione? Ira? Delusione? Carica? Per la maggiore comunque, sono cose con un connotato negativo. Forse sono abbastanza deluso, finora. E la cosa piu’ brutta e’ che secondo le mie previsioni lo saro’ ancora di piu’ a breve, incredibile. E la delusione mi fa cambiare, eccome. Voglio solo lanciare una palla, nel miglior modo possibile, piu’ lontano possibile, rincorrerla, riprenderla e rifarlo ancora. Finche’ non mi stanco. Cerco di perfezionare i movimenti, le pose, l’esecuzione del lancio. Mi sento un Tom Brady da campeggio e con i jeans. Curioso. Ma mi sento come se nessuno potesse diturbarmi, irritarmi, infastidirmi, interrompermi. Se mi sparassero il proiettile rimbalzerebbe. Sono in una specie di choc pompato dalla rabbia, dalla delusione. E’ una sensazione stranissima. A volte pero’, terribilmente bella, appagante. Da una specie di senso di invincibilita’. Non me ne frega piu’ un cazzo. Di niente, soprattutto di lei e di quel che pensa e di quel che fa. Forse e’ solo un modo maldestro per evitare, fuggire, dimenticare il presente che cazzo, ti sta a dieci metri di distanza. Ma va bene lo stesso. Non me ne frega niente. Sono invincibile, intoccabile ora.

Fino a quando mi arriva un lancio diretto sui maroni, che grazie al mio cervello slow motion e ai miei pensieri di immaginaria onnipotenza non riesco a fermare in tempo. Quantomeno un po’ di male alle palle mi fa tornare al pianeta terra, alle mie pene amorose, e alla fine, dentro all’ostello del cazzo, dove mi concedo un paio di vitaminici kiwi.

Sono le due, e a quanto pare ho rimediato un invito a pranzo. Da chi? Da un idiota giapponese che ha visto qualche mia foto e vorrebbe parlare un po’ di piu’ di queste cose con me, approfondire un po’ il discorso. Patetico.

No dai, sto scherzando. A parte che non accetterei mai un invito del genere. L’invito vero e’ suo, e lo accetto volentieri. Appena smette di lavorare, ci dirigiamo al caffe’/ufficio postale/edicola locale, un posticino discreto, carino, con annessa sala lettura. Potrebbe essere Buckingham Palace come la stamberga piu’ obbrobriosa che abbia mai visitato, ma starebbe benissimo. Ho occhi solo per lei. In pratica, potrebbero scipparmi anche l’anima, credo non me ne accorgerei. Parliamo, parliamo, parliamo. Le chiedo di insegnarmi qualche parola in estone – decisione che, dopo la prima parola, rimpiango amaramente – e ovviamente, la parola che voglio sapere non puo’ che essere diversa da “I love you”. Io ovviamente non ho la benche’ minima idea di come possa dirsi in estone. Lei sa come si dice in italiano, piu’ o meno. La conversazione e’ piacevole, e prosegue fuori dal locale, verso il giardino dell’ostello. Ci stendiamo sull’erba a prendere un po’ di sole. Io sono un cretino senza limiti. Semplicemente non c’e’ fine alla mia stupidita’. Mi metto a petto nudo, senza crema, alle due e mezza del pomeriggio. Credo la mia pelle piuttosto bruna sia ormai invincibile, dopo due squamazioni ormai alle spalle. Bummer. Ad ogni modo, continuiamo a parlare. E dopo un po’ di trash-talking, non nel senso di parlar male, ma nel senso di parlare di cose un po’ a caso, arriviamo dove, forse, tutti e due volevamo arrivare: noi stessi. Il discorso si fa interessante, serio. E mentre parla, mi vengono i brividi. Come le faccio notare, dando ancor piu’ una svolta al discorso, deve ancora uscire una parola, un pensiero da quella bocca che non mi piaccia. E’ incredibile. Mi fa impazzire. E cosi’, piano piano prendo coraggio e parto. Sto per scrivere pagine di storia. A pancia ingiu’, strappando un po’ di erba qua e la, gli occhi rivolti al terreno, un tono di voce rilassato ma fermo e deciso, inizio a parlare, a dirle tutto quel che penso e provo. Non so per quanto ho parlato, forse per 5 minuti di fila. Che sono un tempo piu’ o meno pari a infinito in questi casi. So che ho parlato come mai avevo parlato prima d’ora. Avrei fatto venire le lacrime agli occhi a non so quante passionevoli ragazze. Se avessi parlato alle Nazioni Unite, alla fine mi avrebbero applaudito per minuti interi. Non mi e’ mancata una parola, il mio inglese e’ stato impeccabile. Non ho mai vacillato, il filo del discorso non l’ho mai perso. Alla fine, mi son sentito benissimo. Sembrava di essere in un film, ed io avevo recitato la mia parte alla grandissima. Per fortuna pero’, mi vien da dire, non era affatto un film. Anche se il finale lo sarebbe. Finisco di parlare, mi alzo e mi rimetto la maglietta, poi mi inginocchio di fianco a lei, ancora seduta, sguardo un po’ perso nel vuoto. Un bacio sulla guancia. Un sorriso. “Ehi, ti aspetto per cena allora. A dopo.”

Il tempo trascorso a cena e’ da incorniciare. Va tutto cosi’ bene, sembra tutto cosi’ troppo bello. Cucinare insieme, dividere tutto, sorridersi mentre si mangia una pasta che piu’ international di cosi’ si muore. Uno di fronte all’altro. Iniziare ad ascoltare un po’ di musica, finire – a dire il vero, iniziare e finire – con canzoni che piu’ romantiche di cosi’, si muore. Lei mi chiede se voglio vedere dei video in cui lei balla. Ovviamente, la mia risposta e’ si. E anche se non capisco una bega di ballo, anche se a mia volta non saprei muovere neanche un braccio, starei per ore a guardarla. Mi viene anche una leggera voglia di iniziare a prendere qualche dritta sul ballo. Siamo in una cucina deserta, solo per noi, da un ora e mezza ormai. O forse piu’. Le chiedo se vuole fare due passi. E mi dice di si. E’ il momento, quello dell’all-in. All-in, o pugno di mosche. Anzi, nemmeno quelle, almeno sentirei il rumore di qualcosa. Senza di lei, sarebbe un vuoto, un silenzio totale.

Dopo qualche centinaio di metri di discorsi del cazzo – del tipo il muso poco sorridente della padrona dell’ostello – io mi muovo. Scopro le poche carte che non avevo ancora scoperto. In realta’ nulla di nuovo, solo un altro monologo. Il fatto e’ che sento che potrei parlarle per ore dei miei sentimenti, di cos’e’ per me, di cosa farei per lei. E non mi mancherebbero mai ne’ fiato, ne parole.

Evidentemente, certe volte non e’ abbastanza. Certe volte puoi spingerti al 101% delle tue possibilita’, e non essere sufficiente. Certe volte combatti col fisico e con la mente, ti stresssi, ti distruggi, per avere nulla indietro. A dire il vero qualcosa indietro l’hai: si tratta di tanta sofferenza, dolore, tristezza. A volte mi domando se serva, a cosa serva, combattere per tutto questo. A volte penso che se me ne stessi con le mani in tasca e mi facessi gli affari miei, avrei solo da guadagnarci. Peccato non ci pensi mai prima di cacciarmi in queste situazioni. E onestamente, ora mi sento stanco. Sono stanco di soffrire per nulla. Stanco di dare, dare, dare, e dare ancora per ricevere nulla. Sia chiaro, non sto parlando di familiari, parenti, amici. Parlo di lei. Lei e le altre prima di lei e verosimilmente, seguendo il trend, diverse altre a venire. Io sono sempre quello che da, quello che venderebbe il culo per farla felice. Ma non c’e’ mai ricompensa per tutto cio’. Forse bisogna veramente imparare ad essere egoisti nella vita, a seguire la strada che porta al bene tuo personale, seguire i propri interessi senza troppo farsi pare per gli altri. Soprattutto, soprattutto, in queste situazioni. Lei era speciale. Lo e’ ancora. Nonostante camminando temesse che avrei cambiato la mia opinione su di lei, dopo questo dialogo, io non la cambio la mia impressione. Lei e’ come un angelo, con i capelli biondi, degli occhi blu dove potrei perdermi a vita, una voce che riconoscerei fra mille. Io non posso dimenticare nulla di lei. Ho passato la notte a girarmi sul letto a pensare a chissa’ quante cose. Il pensiero piu’ orrendo era quello di perderla.

E’ quel che e’ realmente accaduto, dopotutto. L’ho persa, per sempre.

Nella notte, quando lo pensavo, un brivido mi correva lungo la schiena. Non ho mai provato questo dolore per fortuna, ma mi sapeva tanto da perdere una persona cara. Mi sembrava, nel sonno, di aver perso un familiare. Era come un incubo. E il mattino, la musica non cambia. Mi sveglio, e appena realizzo che sono vivo, sto bene fisicamente, il mondo e’ ancora la fuori e c’e’ anche della gente che lo popola.. penso poi a cos’e’ successo poche ore prima. L’ho persa. Mi vengono i brividi. Mi sento terribilmente solo. La fuori in realta’, e’ come non ci fosse piu’ nulla. In un secondo realizzo che in una notte ho perso tutto, qualsiasi voglia, qualsiasi interesse, qualsiasi motivazione. Non ci sono piu’ Nord America, Asia e Australia. Non ci sono piu’ voli in elicottero o bungy. Non ci sono piu’ amici, piu’ gente caritatevole. Non c’e’ piu’ il sole. Mi sento morto. E’ una sensazione che non avevo mai provato prima. E spero di non dover provare piu’ tante volte in vita mia. Io sono stanco di questo. E stavolta, e’ arrivato ad un punto insostenibile. Non ce la faccio a reggerlo. Vorrei tornare a casa, per magari finire chiuso in camera a piangere su come sono andate le cose. Vorrei filarmela nel posto piu’ lontano da qui col primo volo possibile. Ma so gia’ che per i prossimi mesi, sarebbe solo un raggiungere cime per trovarmi alla fine, piu’ solo di prima. Per realizzare ancora una volta cio’ che avevo, cio’ che pensavo di avere, cio’ che volevo avere.. e che non ha mai avuto. Mi ucciderebbe. Ed ora capisco, credo, che qualcuno ogni tanto la faccia finita in certe situazioni del genere. Non credo io arriverei mai a tanto, spero di non arrivare mai nemmeno a pensarlo, ma posso capire che qualcuno decida che ad un certo punto, e’ troppo. A volte e’ un dolore che anche il piu’ forte degli uomini puo’ vedersi in difficolta’ a sopportare.

Io accetto la sua volonta’. Lei non vuole, semplicemente, avere una relazione. Non con me, non con altri. Vuole essere ancora libera, di fare cio’ che vuole. A puttane qualsiasi discorso possa farle, e di certo le argomentazioni non mi mancano. Mi accorgo che in fin dei conti, non e’ come sbattere contro un muro (praticamente lo e’), ma piu’ semplicemente, questo e’ cio’ che vuole. E io non sono nessuno per farle cambiare idea. E certamente, non ci riuscirei.

Mi piange il cuore a lasciarla, ma glielo dico, prima di andare dentro. Non mi vedrai mai piu’. Non sentirai mai piu’ il mio nome ne’ lo leggerai in un sms, una mail, su Facebook. Non saprai piu’ nulla di me perche’ io non vorro’ sapere piu’ nulla di te. Non per cattiveria, quanto perche’ mi ucciderebbe, sul serio. Mi ci vorra’ tanto di quel tempo per dimenticare che non so quanti altri aerei dovro’ prendere nel frattempo. Prima di entrare in un ostello ormai deserto, solo noi due in piedi, le dico tante altre cose. Io non cambiero’ la mia idea su di te. Tu non cambiare la tua su di me perche’ se ora scompariro’, e’ solo per il mio bene. Mi hai insegnato te ad essere egoista (anche se tu lo sei un po’ troppo. E non capisci che a volte, in due, si puo’ essere egoisti a volte, ma amati all’inverosimile allo stesso tempo. E non c’e’ paragone). Anche se a te piacerebbe, e sarebbe molto bello perche’ la tua compagnia e’ fantastica, non voglio viaggiare con te quando riprenderai. Sarebbe vivere su due mondi diversi, io che vedo in te una cosa, tu che forse qualcosa vedi in me, ma che per qualche motivo, ti sei imposta a prescindere di non approfondire.

Non capiro mai, dico mai, questo tuo diktat auto-imposto, “non voglio avere una relazione”. Ti voglio un bene dell’anima, ma non ti capiro’ mai per questo.

Mi lasci un vuoto che non so se potro’ colmare. Con te ero in un mondo bello, sereno, il sole splendeva e io avevo sempre il sorriso. Mi lasci da solo, in un mondo deserto, ostile, senza alcuna ragione per continuare a vivere come facevo prima, senza alcun motivo per tirar fuori un altro, singolo sorriso.

Ti auguro tutto il bene del mondo. Mi avresti reso l’uomo piu’ felice e orgoglioso sulla faccia della terra, a stare con te. Ora tutto, nel giro di una notte, non ha piu’ senso.

Addio

martedì 15 gennaio 2013

Photostory: The world up here, Heather Jock hut.


Era da tempo che guardavo quella valle un po’ oscura, tetra, formata da una roccia grigio scuro, simile alla graphite. Era da tempo che ponderavo l’opportunita’ di avventurarmi lassu’, persino di dormire in un bivacco per una notte. Lo meditavo nonostante le ginocchia doloranti e assolutamente da curare a questo punto. Ed era ormai tempo, visti i 3 giorni di riposo non richiesti ma previsti, di lanciarsi anche in quest’avventura. Di sicuro conscio del fatto che sarebbe stata la mia ultima camminata, almeno per un bel po’.

Abbandono abbastanza presto i miei piani di essere sul sentiero all’alba. Uno, l’idea di raggiungere il bivacco in tarda mattinata con la prospettiva di dover passare da solo senza uno straccio di passatempo tutta la giornata, non mi attira per nulla. Due, voglio vedere come evolve il meteo. Tre, ci sono due partite dei playoff NFL. Alle dieci, mi cade la linea internet, senza possibilita’ di recupero, nonostante i miei sforzi titanici. Addio NFL. Mi concentro sul meteo. Sebbene sia prevista della pioggia quaggiu’ attorno alle 14, non mi sembra proprio il caso: c’e’ abbastanza sole, e le nuvole presenti non sembrano minacciose. Dopo aver mangiato una delle favolose mele cotte da me preparate, salgo in macchina, lo zaino gia’ pronto dalla sera prima, e via alla volta della Whakhaari conservation area, a circa 1 km da casa mia. Tanto per confrontare, se da casa mia mi muovo nel raggio di 1 km, il tratto geo-morfologico di massimo interesse che posso trovare e’ il Muson. Nel suo tratto peggiore poi. Ho detto tutto.

La meta di giornata e’ McIntosh hut, su a Mount McIntosh appunto. Una struttura che noi chiameremmo bivacco, che qui e’ chiamato rifugio come tanti altri. Non c’e’ differenza tra elettricita’, acqua, materassi o meno, posti letto. Tutti rifugi sono. L’itinerario prevede la partenza dal parcheggio verso una valle, e ad un certo punto, l’arrivo alla giunzione: le possibilita’ sono due. Dirigersi verso Mount Judah ed eventualmente Mount Alaska (del quale mi piacerebbe dannatamente guadagnare la cima, ovviamente, nonostante i “soli” 1930 metri), oppure verso Mount McIntosh ed anche qui, eventualmente, Black Peak. Studiata attentamente la mappa – rigorosamente quella formato cartellone all’inizio del sentiero, non sono uno da mappe nello zaino io – parto sotto la candela. E’ infatti mezzogiorno e mezzo, ed e’ come se fossi a Jesolo il 5 agosto, decidendo di mettermi uno zaino da 15 k in spalla e camminare per una ventina di km sotto il sole. Non proprio il piu’ saggio dei programmi, per dirla con un eufemismo. Inizio tranquillo, e’ da 3 settimane che non faccio nulla di nulla, nemmeno una passeggiata col cane che non ho, e uno zaino cosi’ pesante non lo porto da secoli – diciamo dalla Milford. Per la prima volta in vita mia credo, lascio passare qualcuno su un sentiero: un ragazzotto dal fisico atletico che sale spedito. Con uno zainetto di quelli “solo acqua”. Rimugino che, fossi al pieno non delle mie forze, ma delle mie ginocchia, anche con uno zaino decisamente piu’ grande la storia sarebbe diversa. E inizia cosi’ una giornata che si sarebbe rivelata all’insegna dell’imprecazione, della maledizione, dell’odio verso le mie ginocchia ormai malsane. Da curare. Ma le mele non erano ancora mature, cosi’ vado avanti verso Turnoff Junction, deciso a proseguire verso il monte alla mia sinistra. Come al solito pero’, la montagna sorprende sempre. E spesso in questi casi, non proprio in positivo. Avete presente quando si arriva in un punto di favore, dove si puo’ vedere la pista che sale, che porta all’obiettivo? Avete presente la sensazione di immenso sconforto, di fatica anche solo al pensiero, di scoramento che si prova in quell’istante in cui si fissa il sentiero che si inerpica e si perde lassu’, anni luce di distanza da voi? E’ come stare fermi ma aver fatto una maratona, in quell’istante. Ne senti tutta la stanchezza. Ti ammazza. Ecco, la sensazione che provo ancora. Devo recarmi quasi in cima a questa montagna (PIC 1), per raggiungere il rifugio.
Pic 1. Mt McIntosh from Turnoff Junction.
Volessi proseguire per la vetta, eccomela servita. Volessi strafare e guadagnare il Black Peak, beh.. me lo tolgo dal cervello all’istante. Impossibile, impensabile. Non nel mio misero stato di forma. Cadrei a pezzi. Mi avvio dunque, carico di stanchezza non guadagnata sul campo, verso il basso, oltre un cancello che non promette nulla di buono (se il sentiero fosse trafficato o almeno, adoperato, non ci sarebbe un cancello cosi’ stupido e poco pratico!), oltre un torrente dove mi inzuppo un piede per attraversare. Ecco, il momento. Avevo letto da qualche parte che il tracciato prevede l’attraversamento di un ruscello, un torrente, prima di inerpicarsi sul monte. E la descrizione corrisponde: ripida discesa, torrente, ascesa. La cosa pero’ mi puzza un po’. Possibile che – da quanto ricordo – scrivessero “river fording skills required” per questa schifezzina?! Secondo gli standard canadesi (mi perdonino i miei amici canadesi, li prendo sempre a modello per eccessiva prudenza, ma come dice il detto, “la prudenza non e’ mai troppa”!) potrebbe starci, manco fosse lo Yukon, ma qui mi puzza. E infatti, poco dopo casca il palco. Mi trovo di fronte al “vero” ruscello. Che ruscello proprio non e’ ora, lo direi piu’ un torrente in piena. Quasi un fiume. Ad ogni modo, qualcosa di veramente difficile da passare. Cerco i segnapista, e vedo tra i due un muro d’acqua impossibile da valicare.

Ne’ a destra.
Pic 2. Flooded creek, looking up.
Ne’ a sinistra.

Pic 3. Flooded creek, looking down.

No way. There’s no way to ford the flooded stream. So basically, I’m fucked.

Mi sento come uno gnu che deve decider se affrontare il poderoso fiume limaccioso e guarnito di famelici coccodrilli, oppure starsene sull’arido terreno alle sue spalle ma salvare la pellaccia. Forse. Zio gnu. Ma dimostrando di essere un po’ piu’ intelligente di uno gnu, provo a cimentarmi nella ricerca di una soluzione. Sono i momenti in cui tutte le ore passate a vedere Bear Grylls potrebbero tornarmi utili. Cammino un po’ a valle e un po’ a monte per cercare punti in cui la corrente sembra meno impetuosa, il fiume meno profondo, o in cui ci sia qualche appiglio naturale su cui poter contare per l’attraversamento. Niente di niente. Solo un tronco d’albero all’apparenza maledettamente scivoloso che per giunta s’interrompe a tre quarti del fiume, in un punto dove poi mi sarebbe ostico solo rimanere in piedi. Non c’e’ modo. Poi, mi viene in mente un’altro stratagemma. Ricordo che ho una fune nello zaino, la porto sempre con me. Penso che potrei provare a fare due cose in una: legarla ad una pietra di medie dimensioni, lanciarla dall’altra parte del fiume, e provare a guadagnare un appiglio, facendola incastrare su qualche ramo o su altri sassi. In quel modo, potrei aggrapparmi alla fune nel caso qualcosa andasse storto durante il guado. Nel caso non riuscissi a raggiungere l’altra sponda, potrei comunque provare a percepire quanto fondo sia il fondale, per quantomeno decidere se l’impresa sia fattibile o assolutamente proibitiva. Non ci penso due volte, lego la fune, faccio girare la pietra a mo’ di lazo cowboy, e lancio. Nel lancio la pietra parte talmente secca che la corda, allungandosi, mi sega la pelle di un dito, bruciando da matti. E come non bastasse, non venendo mai sole, la pietra non arriva dall’altra parte. Si ferma a tre quarti, poi torna verso meta’ tirata veloce dalla corrente. Provo a recuperare in fretta per tendere la corda e non far impigliare la pietra. Ma e’ troppo tardi. Tiro, me e’ come avessi allamato uno squalo da una tonnellata. Provo a mettere in pratica le mie migliori doti da pescatore disincagliatore, ma niente da fare. Una pietra non e’ un rametto in Brenta purtroppo. Non riuscendo a smuovere nulla nemmeno con tutta la mia forza (non basta neanche una trasformazione in super sayan) mi vedo costretto a guadagnare quanta piu’ corda possibile, e tagliare. Come perdo gli artificiali in Brenta, perdo le corde sul Glacier Burn, a Glenorchy. Poco bel dejavu’. E non mi resta altro che tornare alla junction, e decidere il da farsi. Cercando di limitare le imprecazioni.

Sono appena le 14, e l’idea di tornare a casa dopo due ore passate a imprecare sotto il sole e a tirare una corda in fiume mi da il voltastomaco. Decido quindi di voltare a destra e proseguire sulla Mount Judah trail. Come si puo’ vedere (PIC 4), la mia meta giaceva a sinistra, lassu’.

Pic 4. Panoramic view from Turnoff Junction. (click to enlarge)

Non mi cambia granche’ tutto sommato, anche se ho la sensazione che i panorami migliori stiano dall’altra parte. E soprattutto, cambiare i miei piani e fare qualcosa che non avevo pianificato – ovvero avevo ritenuto meno interessante – non mi va giu’ proprio. Ma cosi’ stanno le cose, mi adatto, e mi rimetto in marcia. Riempio una borraccia (meta’ delle mie riserve idriche per due giorni – 1,5 litri – gia’ andate) ad una cascatella, e salgo su in un sentiero che a tratti diventa parecchio acquitrinoso. Il mio ginocchio sinistro scricchiola, e nei gradoni erbosi che mi fanno raggiungere “The Boozer” hut (PIC 5), faccio parecchia fatica.

Pic 5. Knees rest at "The Boozer" hut (Happy Hour @ 6 PM, Mon-Sun)

Trascorsi 2 minuti di riposo – non sono uno che cincischia tanto la sulle piste – mi rimetto in marcia. Perdo il sentiero dopo pochi segnali. Non vedo un paletto rosso neanche a dipingerlo. Perdipiu’, quel che mi sembra potrebbe essere il sentiero diventa un rigagnolo, un insieme di pozze, una brughiera cosparsa di erba zuppa d’acqua in cui puntualmente affondo ad ogni passo. Non c’e’ una pietra che mi salvi neanche a pregarla. Ricordo – a questo punto della salita – di aver affermato qualcosa tipo “Vei ti se me tocca noare pa rivare in sima a na montagna”. Mi scuso se probabilmente solo i veneti riusciranno a comprendere. In poche parole comunque, mi lamento dell’umidita’ del terreno. Dopo essermi bagnato per bene gli scarponi alla fine riconquisto il sentiero, senza peraltro capire dove l’avessi perso e dove se ne fosse andato. Probabilmente qualche paletto sara’ sprofondato nel pantano. Riprendo a camminare, ma faccio una fatica abnorme. Non ho mai avuto cosi’ male alle ginocchia mentre cammino, una cosa che, ad un certo punto, mi fa addirittura fermare per il dolore. Mentre con un’espressione contratta osservo il ginocchio, lo maledico, e poi guardo l’orizzonte con uno sguardo tipo “Perche’ proprio a me?”, penso a come sono ridotto. Ho le ginocchia di un 80enne, ma ho 55 anni di meno. Sono preso come un residuato bellico, un osso, non posso – sottolineo, non posso – correre, fatico terribilmente a camminare percorsi che prevedano dislivelli. Se li faccio, e’ solo perche’ sopperisco alla forma fisica con tanta forza di volonta’. Penso a un paio d’anni fa, quando potevo scorrazzare correndo per i monti anche con lo zaino in spalla. Ora se lo faccio, dopo 2 minuti sono per terra con un ginocchio rotto e sangue dal naso. Mi verrebbe da prendere a pugni il terreno, ma so che beccherei l’unica pietra nel raggio di un centinaio di metri, ferendomi anche la mano. Scherzi a parte, il pensiero di come sono ridotto sull gambe mi rattrista tantissimo, mi mette di malumore, metti dubbi sul mio futuro. E’ impensabile, per ora, prevedere camminate di 30 km a Grand Canyon, sotto il sole, con 1300 metri di dislivello. O qualche long hike sparsa per il Nord America. O qualche bel tramping in Asia. No, non con queste ginocchia. Mando tutto a fare in culo, e mi decido a proseguire fino al bivacco. So che non manca molto. Lo so, ma so anche che fa un male atroce. Gli ultimi passi mi vedono zoppicare, e quando arrivo, getto a terra lo zaino, e getto a terra anche me stesso. Nonostante abbia camminato circa 9 o 10 km soltanto (conti miei, i deficienti qua danno solo il tempo, non le distanze. Che modo e’ di far le cose in montagna questo, io non lo so!), mi sento come ne avessi fatti 50.
Pic 6. Finally at Heather Jock hut.

Pic 7. Good job, @ Heather Jock hut.

Dopo qualche foto celebrativa dell’impresa (PIC 6 e 7, sopra) e un sonnellino ristoratore, mi desto e guardo l’orologio: le 5 e mezza. Dannazione. Se c’e’ una cosa che odio – si va be’, una.. una delle tante! – e’ dover ammazzare il tempo senza avere un’arma per farlo. Cosa posso fare fino al tramonto – cioe’ le 10! – da solo, (quasi) in cima ad una montagna, e senza un benche’ minimo oggetto che possa ricondurre ad uno svago?! Non ho un libro, un pc, un gioco in scatola, un cellulare, un animale da tormentare, niente. Potrei giocare ad annodare e snodare quel che mi rimane della corda. Oppure giocare a centrare qualche bersaglio con qualche pietruzza. Se. Mi dico che neanche i bambini del 1823 facevano dei giochi cosi’ pallosi. Lascio stare tutto, incredibilmente trovo la forza per rimettermi le scarpe e raggiungo, non senza eslamazioni di dolore lancinante, il promontorio sovrastante il mio sgabbiozzo. Vedo Mount Alaska. Mi viene una voglia matta di andarci in cima, ora. Ci andrei anche il giorno dopo, non sarebbe un problema, nessuno zaino, nessuna distanza. L’unica cosa e’ che so benissimo che dopo 300 metri di salita sarei circa 50 cm piu’ basso a seguito di un improvviso crollo delle mie gambe a livello ginocchia. Non conviene, e lascio perdere anche questo piano. E’ maledettamente triste, sconfortante rinunciare a qualcosa che sarebbe a nostra portata, che vorremmo fare, che potremmo fare, solo a causa di un qualche incidente temporaneo non dipendente da noi, che di fatto ce lo impedisce. Ti abbatte di brutto.
 
Pic 8. Heather Jock hut, inside.

Torno al suddetto sgabbiozzo (PIC 8, sopra). Bivacco, meglio. Altro non e’ che un insieme di lamiere che mi ricordano il vecchio tetto del vecchio pollaio della vecchia casa di mia nonna. Lamiere, un paio di finestre – una delle quali con una delle viste piu’ belle di cui abbia mai goduto da una finestra! – tre posti letto dotati addirittura di materassini (un comfort su cui in realta’ non avevo fatto affidamento, preparandomi ad una scomoda notte sul duro cemento), una stufetta di cui non voglio testare l’affidabilita’, un tavolino ed una mini-panca. That’s it. Il tutto in uno spazio di 3,5x2,5 metri piu’ o meno. Appena mi fermo un attimo e, disteso sul mio sacco a pelo – sempre e comunque sul letto in alto, anche se non c’e’ nessun altro in giro – realizzo in che posto sono, mi sento un soldato della prima guerra mondiale. Mi sento solo, potenzialmente esposto alle intemperie, potenzialmente umido (i miei piedi lo sono ancora), anche se non in pericolo di vita. Mi immagino la notte, piu’ fredda, buia, solitaria. Immagino le sfortune a cui quei poveracci sono andati incontro in condizioni talvolta simili, ma mille volte peggiori. Spazi angusti, luoghi isolati, spesso sperduti. Da paura. Poi, un po’ meno triste, mi sento reincarnato in Chris McCandless, il ragazzo che ha ispirato “Into the Wild”. Solo, nella natura, nel “mio” rifugio. Non c’e’ nessuno, e so benissimo che a quest’ora, nessuno salira’. Colto da quella sensazione, vado fuori, mi siedo sulla minuscola panca adiacente la parete arrugginita di quel che e’ il mio personalissimo “Magic bus”, mi scatto una foto. Lo stile e’ lo stesso. Poi, gia’ che son fuori, mi cimento in qualcosa che non avevo mai provato a fare prima, seriamente: ammirare cioe’ che ho di fronte, con calma, nei minimi particolari. Apprezzare le variazioni della luce, le nuvole che si muovono, le ombre che cambiano. Scrutare la cima di ogni montagna, vedere dove c’e’ ancora la neve, provare a riconoscere posti, immaginare cosa c’e’ oltre. Credo di averci perso dei buoni 45 minuti. Per me, e’ stata una conquista. Se uno mi dicesse “Guarderesti lo stesso posto per 45 minuti?”, credo mi toglierei la vita piuttosto. Ora l’ho fatto. E se sei nel posto giusto, riesce anche quasi facile. Ti fa sentire veramente, parte del posto.

Arriva “ora di cena”, anche se cenare alle 6 e mezza per quanto mi riguarda non e’ propriamente “ora di cena”. Bollo un po’ d’acqua, ci verso della polvere solubile di zuppa di carne, tiro fuori 3 pagnotte e via. La mia cena e’ servita. Mi rifaro’ a colazione domattina. Di contro, ceno in uno dei posti piu’ panoramici dove abbia mai cenato. Non c’e’ un rumore, se non qualche folata di vento e qualche kia qua e la’ che starnazza. Per il resto, tutto tace (PIC 9).

Pic 9. Panoramic view over the Humbolts, Mt. Earnslaw, Mt. McIntosh and Black Peak.

Mi preparo a godere un tramonto fantastico: il sole viene talvolta celato da qualche nuvola passeggera, a sud si profilano nubi bianche, leggere, sfumate dal vento che lassu’ dev’essere parecchio gagliardo. Verso nord, solo qualche nuvola attorno alle cime piu’ alte. Il resto del cielo e’ di un blu intenso, i fianchi erbosi delle montagne iniziano a tingersi di giallo, poi arancione, poi rosso. Attorno alle 9, il sole scompare dietro una coltre di nubi. Non e’ un male, anzi. Faccio a tempo a rientrare, posare un po’ di pentolame, fissare la reflex al treppiede, indossare un abito in piu’, uscire.. e BAM! Lo spettacolo che mi si presenta, e’ da lasciare senza parole. Una luce soffusa, fioca, illumina la scena. Si accendono viola, rossi delicati che circondano le vette innevate. L’aria fresca carica il momento, lo rende frizzante, i brividi di freddo sembrano d’emozione pura. E’ un’incanto. Sono sempre combattuto, in questi momenti. Vorrei gettar via la reflex e sedermi tranquillo sulla mia panca, ad osservare in silenzio. Purtroppo, e’ come essere di fianco ad un personaggio famoso, un calciatore, una persona che ammiri. Non ti viene voglia di avere una foto insieme a lui? Altro che. Ed eccomi qua, a fotografare questo spettacolo, ancora una volta. Cercando di fare il possibile (PIC 10-11).
Pic 10. Sunset from Heather Jock hut.

Pic 11. The last colors before darkness.

E ancora una volta, vado a letto felice. Solo, ma felice. Nonostante la fatica, il sudore, il dolore della giornata. Nonostante non ci sia nessuno a tenermi compagnia, a farmi ridere, ad aiutarmi a passare il tempo. Perche’, si, e’ verissimo che le esperienze sono belle quando c’e’ qualcuno con cui poterle condividere. Concordo appieno. Ma se ci facciamo fermare da questo vincolo – deve esserci qualcuno – ci tarpiamo le ali. Ci togliamo meta’ delle nostre possibilita’. Io so che oggi ho fatto qualcosa di diverso, di emozionante, che mi ha dato parecchio, anche se mi e’ costato qualcosa. E so che un giorno – con diverse persone – potro’ condividere questa mia esperienza, raccontar loro qualcosa del genere. Giusto pochi giorni fa un mio amico mi scriveva “grazie per condividere le tue esperienze con gli altri”. E questo e’ fantastico. Voglio dire, non cio’ che faccio io, ma la condivisione in se’. Se la mia esperienza fosse per me’ soltanto, sarebbe fine a se’ stessa. Condivisa, guadagna mille punti. Questo e’ un dono grande, quello della condivisione, che io ho per fortuna imparato durante il mio cammino. Spero di non dimenticarlo mai. Nel raccontare un’esperienza, nell’affrontare i momenti belli come quelli brutti, nell’aiutare chi ne ha bisogno, spero di non dimenticare mai questo dono.

Vado a letto solo, ma felice, sotto un tetto piccolo, sotto un cielo immenso. Immensamente bello.

Manu, 14.01.2013, Heather Jock hut, Glenorchy, NZ.
 

sabato 5 gennaio 2013

"The Day" in Glenorchy


Ieri, 5 gennaio 2012, a Glenorchy e’ stato “il giorno”. L’evento dell’anno. Il momento in cui tutto in paese diventa frenetico e tutti accorrono anche dai paesi vicini (paesi, parlo di 4 case e un ostello), persino da Queenstown: le horse races.

Quando la gente qua mi parla di races io non so perche’ penso sempre alle macchine. Mi immagino autodromi o piste alla “Fast & Furious” dove ragazzotti del posto un pelo tamarri si sfidano in velocita’ con le loro auto truccate. Invece, hehe, ovviamente sono nel torto. Ovviamente sono infognato in un remoto paesello del sud della Nuova Zelanda – e non a Bari – quindi non si tratta di auto bensi’ di corse con i cavalli (essendo onesto credo che a Bari per strada corrano anche con i cavalli la notte, e non solo con le auto, ma non importa. Spero nessuno si offenda leggendo). Io realizzo la cosa solo il mattino stesso, quando svegliandomi attorno alle 9 e mezza apro le finestre e sento un qualche citrullo che parla tramite altoparlanti in paese. Mi torna in mente la cosa. Butto l’occhio piu’ in giu’, alla strada, e vedo in quell’istante ben 5 auto di fila che si dirigono verso il centro del villaggio: cosa mai vista prima! Il numero massimo di auto direzione Glenorchy che avevo mai visto in vita mia era stato 2 finora – una delle quali era la mia. Capisco che l’affare e’ rilevante, quindi mi vesto e vado a dare un occhio. Porto con me anche il costume, essendo caldo come non mai potrei non disdegnare un tuffo in lago.

Le races prendono luogo nel locale “complesso sportivo” – un campo da rugby con un campo da tennis e tipo 4 buche per il golf. All’interno del campo si trova lo spazio per i camper, le tende, e qualche piccolo stand gastronomico. Il perimetro esterno, in erba, e’ destinato a pista per le bestie (pregasi leggere bestie con la “E” chiusa. Suona molto meglio). Un sacco di gente affolla il luogo, sembra quasi l’atmosfera che c’e’ nei parcheggi degli stadi di football americano prima di un match. Tutti intenti a bere, mangiare, divertirsi assieme, e poi, marginalmente, fare il tifo per l’amico, la mamma, la nonna in gara col proprio cavallo. Vengo a sapere da un’amico che anche un paio di colleghe – parlo di ragazze sui 20 anni – gareggiano. Infatti, non trattandosi di un evento per professionisti, chiunque vi ci puo’ prendere parte. Capita dunque che praticamente in ogni famiglia del paese vi sia un membro di essa in gara. Ergo, tutto il paese si trova qui. Vengo a sapere che qualcuno, in camper, ha addirittura preso posto la notte prima per accaparrarsi i posti migliori. Da non credere. A me comunque viene il voltastomaco a pensare che questo sia l’evento dell’anno. Voglio dire, rispetto il paese e i suoi abitanti, rispetto il fatto che sia isolato, rispetto la cultura del posto. Ma che poi una locale che conosco mi venga a dire – dopo il mio palese disinteresse nella cosa a favore piuttosto di un bagno in acqua – “Non t’interessa delle tradizioni locali?”, questo proprio no. Le ho risposto qualcosa tipo “Non piu’ di tanto, non sono il tipo da cultura & tradizioni”, anche se avrei voluto piu’ risponderle “Persino la piu’ infima sagra paesana in tutto il veneto e’ quasi migliore di sta merda qua – eccetto per il fatto che qui girano cavalli, li no”. Tengo pero’ la mia sarcastica affermazione per me stesso. Non voglio sembrare troppo brontolone. Almeno, non anche qui haha. Assisto alla prima gara, prima e ultima anche visto il caldo atroce che mi soffoca. La gara, niente di che. Veramente non me ne sbatte una mazza di vedere dei cavalli che corrono attorno ad un prato. E’ come vedere una partita di calcetto in patronato, con l’unica differenza che i calciatori non cavalcano cavalli. Pero’, quasi mi commuovo. Perche’? Perche’ quando vedo i cavalli correre a spron battuto, incitati dai loro fantini, mi tornano alla mente gli indiani. Mi si dipingono nella mente immagini di battaglie, di guerrieri indomiti che cavalcano i loro cavalli a pelo, scagliando frecce, tomahawks. Mi viene una voglia matta di tornare quanto prima a Pine Ridge, a Kyle, dove ancora ricordo tenersi in luglio l’annuale gara giovanile di corsa a cavallo. 5 km di competizione tra giovani indiani, tra le colline del Dakota. Non vedo l’ora, di tornare nella mia seconda casa.

Abbandono le races in favore del lago. Non che sia molto meno affollato, ma almeno la ressa si limita alla spiaggia, e al molo. Mentre cammino verso la fine del molo, incontro un amico che passeggia in costume. Gli chiedo che cazzo stia facendo. Mi risponde “Trovo il coraggio per buttarmi in acqua, sara’ gelida”. E citando un comico, “Mo’ gli faccio vedere iooo..” penso tra me e me, appoggio lo zaino, salgo sulla staccionata, e mi tuffo senza pensarci due volte in acqua, esibendo un’ottima capriola perfettamente riuscita. Folla in delirio e palla a centrocampo. Uno a zero. L’acqua non mi sembra in realta’ cosi’ gelida, mi sembrava peggio a Natale. Quando torno su, mi dicono che questo in realta’ e’ il lago piu’ freddo della Nuova Zelanda. Io sinceramente non ci credo, non puo’ essere. Se penso a quel giorno in cui ho fatto il bagno a Marian Lake, mi tornano i brividi. Comunque, lo prendo come dato di fatto, ed ora posso aggiungere alla mia lista anche l’aver fatto il bagno nel lago piu’ freddo del paese! Ottimo. Non domo, prima di avviarmi verso casa per prendere un po’ di sole (si lo prendo a casa, ho dimenticato lo spray anti-insetti e non vorrei essere divorato vivo qui)mi esibisco in altre due capriole acrobatiche. L’avessi mai fatto. Sento, dicendola alla Fantozzi, “un leggero bruciore sulla schiena”. Quando torno a casa, mi guardo allo specchio. Mi manca solo di leggere la scritta “Sei un cretino” stampata in rosso sulla mia schiena altrimenti marroncina. Quelle due capriole troppo poco avvitate mi son costate care. Mandando tutto a fare in culo, mi spalmo crema solare e spray anti-insetti insieme e vado a prendere il sole.

Piuttosto stanco e frastornato, la sera mi reco a lavoro. Una collega mi ha chiesto una sostituzione che ho accettato piu’ che volentieri, dovendo realmente spaccarmi il culo se voglio riprendere i soldi che mi son prefissato di recuperare (cosa peraltro impossibile). Il servizio trascorre liscio, senza intoppi. La parte migliore pero’, al solito, e’ la fine. Quando inizi a vedere che i cuochi lasciano il pane su un vassoio per permettere a chi vuole di portarlo a casa. Quando vedi qualche piatto con qualche leccornia lasciata a disposizione dello staff. Stavolta riesco ad assaporare, nell’ordine: pork belly con romesco sauce (succulenta), crocchetta di petto di quaglia al forno con salsa valois (sublime), e infine, un’intera porzione di dessert, ovvero warm apple and caramel cake. Sentire questa torta alla mela fatta in casa, morbida, calda, cosparsa di denso caramello e contornata di pezzetti di mela, sciogliersi in bocca assieme magari ad un cucchiaio di gelato al Baylis.. e’ qualcosa di indescrivibile, bisognerebbe provarla. Mi ritengo fortunato di poter assaporare alta cucina praticamente ogni giorno. E’ un lusso che pochi possono permettersi, se non del settore e se non di questa nicchia del settore.

E come se non bastasse, a fine serata, prima di andarmene, assisto “alla scena”: il frigo si apre, e gli chef esaminano le condizioni dei gelati. Due scatole di gelato al caramello non passano i severi standard imposti. “Troppo granuloso”. E’ stato fatto appena il giorno prima. Mentre uno chef si dirige verso il cestino con i due contenitori, lo fermo con fare disperato dicendo “Stai per buttarli?”. E lui, “Si”. E io “Sono troppo maleducato se ti chiedo se posso portarlo a casa piuttosto?”. E lui, inaspettatamente “No, fai pure!”.

Tornato a casa, assaggio subito il gelato strappato alla forca. E’ semplicemente paradisiaco, uno dei gelati migliori che siano mai entrati nelle mie fauci. Scioglievolezza a mille, il gusto del caramello e’ assoluto. E cosi’, contento come un bambino a cui viene regalato l’Iphone 5 al suo sesto compleanno (metafora al passo coi tempi), concludo la mia serata assaporando, in piedi in cucina, col sorriso sulle labbra, un gelato delizioso, consapevole di aver guadagnato circa 1,5 kg di esso completamente a gratis, al solo costo di una misera domanda. A volte, tentar non nuoce.

martedì 1 gennaio 2013

2012, a year that changed my life

If you were asking me “Where do you think you will be next year?” on the 31st December, 2011, I’d have probably answered you “At home”. If you were asking me the same question just one day after, January 1st, 2012, I’d have probably answered “Belgrade, Serbia”. It took me 8 months and loads of adventures, pains, joys, to start giving a chance to answer that question with something like “New Zealand”. 8 months that completely changed my life, as a plain, straight road that abruptly turns towards somewhere undefined, unmarked. And to me, that turn has a precise date: August 30th. I’m going to tell you why.

On January 1st, 2011, I was cheering for fireworks in S.Marco square, Venice, with the usual, huge crowd that every new year’s eve packs the place. Nice place to spend the night – yep, maybe with your girlfriend, not with my friend Fabio “Gretto” and a couple others! Anyway, I remember I was looking for a sign. I was already tempted by quitting my job, leaving all my family and friends and get the hell out of here. In those exciting, confused moments I took a brief time for myself and prayed to be blessed with a sign, a powerful one, a sign that could show me my way. I was very confused. But on your life’s path, sometimes things happen so incredibly wildly, so unexpectedly you may got wired. I asked for a sign, and it came with long, black hairs and a stare that burnt me. Her name was Dejana, and she was from Serbia. I got to know her not by my own fault, but that’s how it goes sometimes. And yes, that same night – January 1st, 2012 – after recovering from all of the partying, after driving to a deserted and ass-freezing Jesolo, while I was walking with her in town, I realized that my way was not about backpacking and travelling and exploring. It was sweeter, though not that close. I just got that I was not going to leave, except to Belgrade. And that’s how it went.

I had never been to Serbia before, and never desired to, to be honest. Flights are expensive, driving pretty much the same, and there’s nothing to see and do. Especially for me – a nature’s lover. But, there was her, and that was enough. I planned my holidays from work to try to see her as frequently as possible, and I even deleted my “short-trip”. Just saved my beloved USA. And on February, during the worst winter snowstorm that Europe remembered within the past 50 years, I left Venice direction Belgrade. I arrived as Rocky Balboa arrived in Russia in Rocky IV, in a snow-covered airport, blown by severe winds, different faces, a never heard language. I was in a new world, as far as I was concerned. I stayed in a 4star hotel in Belgrade’s center just to meet her for a total of 5 hours in 4 days. I had to walk on sidewalks with a meter of snow on the road side. I freezed my ass and not only that moving around – people in heavy winter jackets, me in a fancy light one, jeans and shirt. We have a saying that my mom uses to remind me quite a few times, which is something like “To appear you have to suffer”. I have never cursed it that much. But it was fine. One of those days I even called a taxi in the middle of a snowstorm, to be driven 100 kms round trip to where she used to work, just to stay with her 15 minutes, time to wait for the bus and get home. If that’s not foolishness, it’s very shy of it. She’s been impressed by that, though. Her friends – more rational – just said “He’s crazy”.

Next time we met was in April. The weather was awesome, I was as happy as a child on Christmas. This time I drove my car – 2200 kms in 2 days and a half. Not a bad daily average, uh?! I drove to her workplace, picked her up, and got back to Belgrade. She seemed to me as one of the cutest girls I’ve ever seen. Damn hot, finely dressed. I was pretty well dressed as well, and while we walked around Belgrade, it seemed like we were a kind of Tom Brady and Gisele Bundchen. I was definitely in a dream, and I had my reasons for that. We rented a small apartment for a couple nights. We had a wonderful first one. Then, her roster changed and she had to come back to work. While I was driving her back to her village – 60 kms from Belgrade city – I was feeling so sad. I kinda knew I was not going to see her anymore, while I kissed her for one last time before to greet. And, when I ended the saddest drive of my life, and I got home, I started to cry. I simply couldn’t stop. I was staring at the places we’ve been together: where we dined together, we watched the TV together, we slept together. Deep into myself, I already knew that was the last time I saw her beautiful, though liar, face.

And that’s how it went.

After that truly disappointing love-story, disappointing probably more because of the lies that she assembled beneath it all than the real ending of the story, it came the time for me to head to the USA, again. Right thing at the right time, I was absolutely trying to recover and forget. As always happen, you have to stay away from what you use to do, who you use to see, to forget. Back in the USA, the NorthWest this time, I had my share of experiences to balance the disappointment, the sadness, to help my heart to heal. For instance, being 15 meters from a grizzly bear, or walking onto a frozen lake (it was June!) during a snowstorm, or escaping the ugly US weather to soak myself into a fantastic lake in Osoyoos, British Columbia. Once I got back home, I was aware that my road, once again, should have been that one. I should have hit the road back soon, the road and the trail as well. I was just in need of a serious push, something that could motivate me enough to take the final step.

Probably it wasn’t that, but the small trip to Eastern Europe I took with a friend on late August, pushed me a little bit either. We’ve been to Wien, Bratislava, Budapest and Belgrade in 5 nights. Another 2200 km more or less. Any kind of nature or wildlife in here, but heaps of fun, partying and people. Well, another nice experience, anything unforgettable, but a lot of fun, good company, and that’s it. It’s like that stuff of a drop that doesn’t make an ocean. But, drop by drop..

At home, I realized I had so many reasons to leave behind me, that was honestly not possible to ignore them. The very first one – so obvious – was her. I mean, I forgot about her. Lie after lie, I felt so bad because of her because I eventually tried to believe her. But she made it up, till a certain point at least. It ended so abruptly I couldn’t believe it. And, at the very end of it all, what I told myself, what I was sure of, was that I was not ready to suffer something like that anytime soon. I don’t want to be in a relationship soon. It could hurt, too much. I have no girlfriend then. So, why shouldn’t I stay? For which ties? I better have to go, that’s it.

Another reason, of course, was my job. I got sick of it. It was driving me mad. I was waking up in the morning cursing for what I was going to do and starting to count the minutes that were separating me from signing off. It was the same damned routine every damned day. I was getting grumpy. With everybody, for whatever reason. I was not happy, everything seemed so boring, everything but my travels. I was living and working just to get to my next travel. But that’s not life. I knew that, it was spoiling my own living. I am a sunny, crazy, outgoing guy, I’m not grumpy. I’m not a lone wolf. Simply my work was changing me in a way I hated. Realized that, I was ready to quit.

One third reason anyway, were the travels themselves. I want to travel, and even if my work allowed me something like a month of paid vacations (luxury, compared, say, to North American standards), that was not enough to me. I couldn’t take a breath, dive for 11 months, then breathe for 1 month of travelling. That’s not possible. I had to feel really free, I had to jump, to take off. I collected my shit, I was just waiting for the last push.

Turned out that what I was waiting for was just a brief talk to myself. I remember that night. It was August, the 29th. I was pretty much convinced that the day after I’d have quitted my bank job. But I wanted to be honest with myself, first of all. What I said was basically: If you guy are going to keep your job, you’re going to commit suicide as well, in 2 months. Instead, if you quit it now, and look for another one here in Italy, you’re going to commit suicide almost immediately. So, no way to stay here, at least for job-related issues. Plus, you guy don’t have a hell of a girlfriend that could tie you here, right? And aren’t you addicted to travelling then?! So. What’s the reason to stay?

Within 2 minutes of talking on my mind, I demolished every possible obstacle to my departure. I finally got it.

In 3 months, from that August 30th to October 21st, the day I left, my life totally changed. From being a young bank employee in small town Cadoneghe, Padova, to being a backpacker aiming to travel the world for quite a while. Not bad uh? I started to plan routes, to study economical sustainability of my plans. Then I left. Of course I remember every minute of that day. I just don’t want to bring back to my mind those very moments of my departure. Even the tougher of the men would be piped down by that – the moment when you realize you’re leaving behind you all of your life. Your family, your friends, all the people you know, your hometown, even your material things. Your car, your home, most of your clothes, your books. Now, it’s behind you. In a couple days, they all will be far away from you, unreachable for a long time. That shocked me.

Well, today is December 31st, and I’m still here looking back at my own’s year. What a bunch of adventures I’ve had. And that’s not over yet: just here in New Zealand, I’ve been caving, abseiling, skydiving, hiking Great Walks or mountaintops or whatever for 250 kms, swimming in mountain lakes, in awesome oceans, sunbathing in sandy beaches, couchsurfing, hitchhiking. I got a job in one of the world’s best luxury lodges. And, last but not least, I found a very special person. Compared to the first one you read, well.. no, there’s no comparison. Her eyes just stole my heart.

Isn’t it enough?! Well, probably not – even though it’s a lot! – but that’s just the beginning!

However, to end this year properly, an year that I’ll keep highly regarded in my heart forever, as the year that changed my life, I want to say thanks to my Lord.

I thank Him for the huge bravery that He gave me. For the signs He gave me. For all of the people I met along my road – especially for those who never, never brought me down saying “No, you mustn’t leave”. I thank Him for all the smiles, the fun, the talks. Thanks for my luck – sometimes it’s part of it. I thank my Lord because when I wake up, every day, I see that there’s at least one thing out there for which is worth to live. Thanks because I feel like that while a lot of people don’t smile anymore, and don’t want to live no more either. I thank Him because now I feel my real self, without compromises, without limits. I finally thank Him, over all, because he illuminated my way with bright blonde hairs and two beautifully blue eyes. I pray Him, to let my way cross hers again, for longer.

And to all of you guys, I just wish an year full of responsibility. Yep, I guess that’s the word. Take your steps, take the decisions you have to take. Don’t hide yourselves behind masks, don’t create yourselves excuses. Be responsible, be brave. You deserve it. And it will turn out to be just an advantage for you. Fight to be your real self.

Happy New Year,

Manu