venerdì 25 gennaio 2013

Reality cheque. I sogni finiscono, sempre

A volte mi domando a cosa serva scrivere tutto questo, che senso ha. Non cambia le cose. Non mi da conforto. Non mi aiuta. Mi verrebbe piuttosto da tirare un pugno sul muro, ma se lo faccio, con il nervoso che ho in corpo, faccio venire giu’ le pareti di cartongesso di sto ostello merdoso. Certe volte dovrei essere un po’ piu’ razionale, egoista, cattivo, ma non ci riesco. E’ piu’ forte di me. Avete presente, quando in quelle situazioni un po’ tese, un po’ conflittuali, rispondiamo indietro solo per poi pensare, tipo mezzo minuto dopo “Cazzo, questo dovevo dirgli. Perche’ diavolo le risposte migliori mi vengono in mente sempre troppo tardi?!”. E io, oltre ad essere cosi’ scemo da rispondere perennemente in modo errato, do anche sempre una prima risposta troppo buona, troppo malleabile, troppo accomodante. Non scatto, non alzo il tono, non penso a me stesso prima, non offendo, non ridicolizzo. E finche’ si tratta di “liti” fra amici, o qualche rissa da bar a cui peraltro non ho mai assistito, tutto cio’ puo’ andare bene o addirittura contribuire a salvarmi la pellaccia. Se invece si tratta di cuore.. beh, si fotta. Ne ho fin sopra la testa. Sono stanco, stanco di essere sempre il buono – perche’ i buoni nella realta’ perdono (quasi, diciamo 99%) sempre. Questo sto capendo. I film sono film. Il colpo di fulmine esiste per una persona, e fatalita’ l’altra e’ tipo l’ultima persona sulla faccia del pianeta a cui potresti anche lontanamente interessare. C’e’ chi riesce a tagliare subito, mandare a fare in culo al momento giusto, preservando la sua salute fisica, mentale, e finanziaria. Quello e’ un grande uomo, lo stimo moltissimo. C’e’ chi come il sottoscritto purtroppo – me misero – prova a credere nei sogni, in qualcosa di difficile, di lontano, crede nel sacrificio in tutti i sensi, nello sforzo per venire incontro, nei sentimenti. Balle, cagate.               
Scordatevi mazzi di fiori, lettere, passeggiate e schifezze simili. Risparmiate le parole, almeno non vi si secchera’ la lingua. La maggior parte delle volte – anche se devo dire, a volte apprezzate in un modo terribilmente simile all’autentico – sono buttate nel cesso. Conservate qualche parola nobile per vostra madre o vostro padre, vostro fratello o vostra sorella, qualcuno che vi da un passaggio per strada, qualcuno che vi sfama quando siete affamati. Non per una cazzo di ragazza. Almeno, fino a quando non ha al dito lo stesso anello che fatalita’, ti trovi a portare anche te per un qualche losco motivo a te ignoto.

E’ giovedi’, pochi giorni fa ho parlato con lei via skype, ho una voglia maledetta di vederla. A lavoro vedo il roster, ho 3 giorni di fila di ferie non richieste. Se rimango qui mi lego una pietra alle gambe e mi butto in lago, no way. Se prendo la macchina ed inizio a guidare senza meta, uno spendo valanghe di soldi in benzina, due va a finire che mi ritrovo sul cucuzzolo di una montagna a pensare a lei e a quanto lontano le sono. Mi viene un’idea. Tanto vale provare, a sto punto. Il giorno dopo a lavoro, chiedo un quarto giorno di ferie, se possibile. Impresa facile, visto che sono l’ultima ruota del carro. Con 4 giorni di fila, posso permettermi di provare ad organizzare una sorpresa in grande stile. Ovviamente, per lei. Non c’e’ altro posto al mondo dove vorrei essere in questo momento, quindi inizio a cercare voli su voli, a mandare sms, email, mettendo in moto la mia rete di amicizie kiwi, cercando di realizzare il mio piano. Anzitutto, trovo un volo: Queenstown – Wellington, andata martedi’ ritorno sabato, giusto in tempo per guidare ad una velocita’ compresa tra i 90 e i 120 all’ora su una strada tortuosa e a strapiombo su un lago, per arrivare a casa, stirarmi in circa 35 secondi t-shirt e camicia, filarmela di nuovo in macchina (lasciata prudentemente accesa per la bisogna) e farla a tutta fino a lavoro, sudato come una capra alpina in estate e con il volto sfigurato come fossi stato appeso ad una croce per un paio di giorni. Beh, l’inizio non sembra tuttavia cosi’ impossibile.

Prenoto il volo, poi impreco copiosamente. Non mi sono premurato di controllare la disponibilita’ di posti letto in ostello. Gravissimo, gravissimo errore. Corro sul sito, inserisco i dati, attendo. Sono fortunato, c’e’ posto. Prenoto per 3 notti, martedi’ compreso. Come si dice qui, “rolling the dice”, perche’ arrivando martedi’ alle 15.30 a Wellington, avrei al massimo 6 ore per coprire la distanza che mi separa da National Park (non ricordo in km, ma circa 4h 30’ in macchina). In autostop. Piano in realta’ molto, molto ottimistico. Sono incrollabilmente ottimista io, credo la gente ormai lo sappia. E questo spesse volte me lo mette nel didietro, cosa che comunque non imparero’ mai. Ad ogni modo, prenoto 3 notti. Continuo a programmare. Mobilito un amico di Queenstown per avere un parcheggio free piuttosto che lasciare la macchina in aeroporto. Ne rimedio uno lungo il viale dell’aeroporto stesso, a 5 minuti a piedi. Non e’ il suo parcheggio, non e’ il parcheggio dell’aeroporto, e soprattutto al tempo in cui scrivo devo ancora appurare se sia legale lasciare in tal posto una macchina per 5 giorni o no. Verosimilmente non trovero’ alcuna macchina al mio ritorno, ma sono ormai avvezo a tali, spiacevoli situazioni. Mando una mail ad una amico a meta’ strada fra Welly e National Park per avere un letto al ritorno, venerdi’ sera. Ovviamente, non mi nega tale favore. Ma faccio di piu’. Gli chiedo se fosse disposto – sotto pagamente della benza – a darmi un passaggio da casa sua a destino, circa 250 km andata/ritorno tanto per gradire. Con ritorno alle 11 di sera. Il mio amico e’ attorno ai 70. Non male eh? Ebbene, non mi nega nemmeno quello. Non per esagerare, ma credo sia la persona piu’ generosa che abbia mai avuto il piacere di conoscere. Mi sorprende sempre.

La trama e’ posata, i dettagli quasi, non vedo l’ora di partire. Non vedo l’ora di riabbracciarla. Con la carica che ho in corpo, sento che potrei camminarli i km che mi separano da lei. Credo non ci sia forza piu’ grande del sentimento puro che si puo’ provare verso una persona. Sarebbe capace di farti fare cose che non avresti mai pensato di fare. Non avresti mai ritenuto possibili. Eppure. Inizio a prepararmi lo zaino, avendo il buon senso di cacciarci dentro, anzitutto, la mia amata palla da football. Se fosse pesata 20 kg, avrei pagato i kg extra per portarla via. Salvo poi non usarla mai, pena rompermi un braccio al primo tentativo di lancio. Caccio dentro cibo, vestiti come partissi per un weekend d’alta moda a Firenze (ma con un po’ di Glenorchy-style – mado’, quanto mi manca una camicia, una cintura diversa da quella che uso da 3 mesi a sta parte, e magari un cravattino ogni tanto! Papa’ appena torno sono da te in negozio) e il pc, inseparabile. Installo Wormux prima di partire. Un giochetto mi sara’ utile. Tutto sommato, essendo una sorpresa, non sono certo di nulla. Lei potrebbe essere ovunque, anche in Giappone, per quanto mi riguarda. Potrebbe non avere neanche un minuto di tempo libero in quei giorni, quindi avere un passatempo sembra cosa saggia. Certo che, sarebbe interessante arrivare, non trovarla, e domandare “Dov’e’ lei?!” ed avere in tutta risposta “E’ partita l’altro giorno per il Giappone!”. Uhm, sweet as. Credo che dalla mia bocca uscirebbe qualcosa che farebbe fuggire gli scoiattoli e i conigli, volare via gli uccelli da ogni albero e far cadere le foglie nel giro di una cinquantina di km. Io pero’, ricordatevelo, sono ottimista. Non contemplo la sconfitta. Da Napoleone, non ho imparato un cazzo. Cioe’, ho imparato che sono io il padrone del mio fato, che devo fare i conti su me stesso e sul mio cervello, sulle mie capacita’, non sugli altri. Quel che non ho imparato e’ che devo avere un piano B. Oppure, spesso ce l’ho, ma lascia parecchio a desiderare. Talvolta mi sarebbe molto, molto piu’ semplice alzare direttamente bandiera bianca.

Il giorno della partenza, sono carico a mille. Genero energia termica. Mi mettessi la presa dell’aspirapolvere nel culo potrei pulire casa senza l’assillo di allungare il filo o di intralciarlo sotto sedie, divani o oggetti con gambe di qualsiasi tipo. Il task del mattino e’ di approntare lo zaino per la spedizione aerea. Non che abbia valori dentro, ma sai, la prudenza non e’ mai troppa. Tiro fuori il rotolo non mio di pellicola da cibo, ed inizio ad avvolgerci meticolosamente tutto lo zaino. Con il mio utilissimo, multiuso nastro isolante faccio un paio di giri tanto per assicurare la pellicola allo zaino in modo ancor piu’ sicuro. Tra me e me penso, “Quei  5 dollari di nastro isolante sono stati la meglio spesa finora!”. Ci ho riparato una scarpa, una macchina, ed ora ci chiudo lo zaino. E chissa’ cos’altro mi saltera’ in mente, eh?! Probabilmente dovrei chiudermici la bocca ogni tanto con quell’affare anche. Finita l’opera, il mio zaino sembra un bel bozzo di farfalla. Un farfalla enorme, preistorica, con superpoteri. Credo potrei volarci sopra quel coso se mi ritornasse una farfalla. Sarebbe fico. Ed economico. Caccio il bozzo sul sedile posteriore, zainetto davanti, cappello&occhiali da sole, e via. Rock&Roll. Corro in citta’ ad un tempo record – se avessi la mia Bravo mi divertirei un macello su questa strada, sul serio! Anche se avere una macchina come questa ti lascia il brivido di poter finire di sotto ad ogni curva! E’ un brivido a cui, ragazzi, non si puo’ rinunciare! – prelevo un po’ di grana, e mi avvio in aeroporto. Fa un caldo assassino. Impreco contro me stesso per non aver portato via la crema solare. La lozione solare (suona bene LOZIONE, vero?!). Altro gravissimo, potenzialmente mortale errore. Cammino sotto il sole con lo zaino sulla schiena e lo zainetto davanti. La pellicola non fa altro che aumentare piu’ o meno di 14mila volte il tasso di sudorazione, mentre davanti non so per qual motivo, dopo 30 secondi di cammino si e’ gia’ formata una cospicua chiazza di sudore, approssimativamente delle dimensioni del lago di Garda. Continuo ad imprecare in due lingue, tanto sono incazzato. Ora so davvero come si sente un negro che vende tappeti o asciugamani a Sottomarina in un caldo, secco giorno d’estate: sudato ed incazzato. Appena giungo all’ombra dell’aeroporto, esulto braccia alzate come avessi vinto il Super Bowl. Peccato che davanti a me ci siano un paio di signore asiatiche che mi guardano con faccia straniata. Bella figura, indubbiamente. Quantomeno mi fa tornare il sorriso, anche se non mi piace molto l’idea di ridere sulle mie stesse figure barbine. Al gate va tutto liscio, sono veloce come la luce, mi avvio a prendere l’aereo. Mi rilasso un po’, mi sembra incredibilmente presto, il mio volo parte alle 14.05 e sono le 13.20. Vedo che al mio gate chiamano per un volo su Welly, ma la mia mente corrotta pensa “Non puo’ essere il mio, troppo presto”. Cosi’, mi seggo, leggo, sfrutto il wifi gratuito. Passano venti minuti. Mi alzo proprio per curiosita’, quello scopo leggermente scientifico che mi incita a controllare se il volo precedente e’ partito. Vedo un enorme segno rosso che lampeggia con la scritta “LAST CALL”. Mi corre un brivido dietro la schiena. Mascherando un fottuto terrore con una calma apparentemente olimpica, mi avvio diligentemente al mio zainetto per controllare il numero del volo. Perbacco, coincide! (non ho detto perbacco quel giorno, potrete ben immaginare) Perdo sciaguratamente la mia calma olimpica e con una faccia come il culo mi presento al check-in che sta per chiudere. Ho salvato le chiappe anche stavolta. Monto in aereo, e sono pronto finalmente. Un’altra avventura delle mie e’ alle porte. Anche se per come stava per iniziare, non ho grandisssimi auspici in tutta onesta’.

Arrivo a Welly terribilmente in orario, inaspettatamente. Scendo di corsa, nessuno mi domanda passaporti o cose del genere – che paese la Nuova Zelanda! Se arrivo con un insetto in tasca potrei finire in gabbia a vita, se provo a ricevere del formaggio senza etichetta d’origine esso viene inesorabilmente distrutto, ma potrei chiamarmi anche Osama Bin Laden II e avere una lunga barba grigia ed un turbante, e nessuno mi cagherebbe il cazzo in aeroporto! Fantastico! Mi dirigo verso il parcheggio, luogo ove la mia prolifica mente mi suggerisce potrei avere maggiori chance di ottenere un passaggio. Inizio a molestare ogni passante munito di chiavi che potrebbero essere di una macchina come di una casa o di un lucchetto per biciclette, fino a quando, dopo circa 2,5 minuti, trovo due vecchietti che mi danno uno strappo fino in stazione. Mi dicono che li potrei prendere un treno fino a piu’ a nord lungo la costa, raggiungendo la highway dove potrei avere ancor piu’ chance di avere il passaggio giusto. Dopotutto li la strada sarebbe praticamente tutta dritta, salvo una deviazione ad est. Andata. Giriamo per Welly per circa venti minuti. Mi viene il sangue da naso per quanto piano guidano. Vorrei quasi colpirli in testa, prendere il controllo della macchina e sgasare un po’ fino in stazione. Pur non avendo la minima idea di dove la stazione si trovi. Anche se subito dopo, mentre ci fermiamo 100 metri prima di un passaggio pedonale deserto per far passare qualche balla di fieno rotolante, medito il suicidio tramite “leggera” tensione delle cinture di sicurezza attorno al collo. Passo il tormento, arrivo in stazione, ringrazio gli amabili vecchietti e corro verso la biglietteria. Al solito, c’e’ il rompicoglioni con la rogna infinita davanti a te. Ed ora che non lavoro piu’ nel posto piu’ rognoso al mondo – la banca – e mi trovo ad essere dalla parte sbagliata dello sportello, impreco copiosamente. Non che dalla parte giusta dello sportello non lo facessi, per dover di cronaca. C’e’ il solito negro (non sono razzista, e’ che dicendo “nero” mi sembra di indicare un pennarello, e “persona di colore” e’ troppo lungo, scordatevelo. Di colore poi e’ estremamente generico, potrei anche alludere ad una persona blu ad esempio) con un macigno grande sempre. Impiega 10 minuti per salutare l’impiegato e andar fuori dalle palle. Io sbuffo piu’ di un treno del 1858. Quando e’ il mio turno, pago il mio biglietto per un’oscura quanto ignota localita’ a nord, sotto consiglio dell’impiegato, e me la filo. Arrivo ai binari, e scopro con discreta soddisfazione che il mio treno e’ in partenza tra 5 minuti. “E questo e’ bene!”, come direbbe Homer al venditore di Congurt. Salgo su, e come per magia, prendo sonno con la testa appoggiata alla barra di ferro che mi sta di fronte. Cosa che al risveglio, seppur senza uno specchio, posso intuire mi comporti l’avere un tangibile segno orizzontale profondo circa 2 centimetri stampato in fronte. Potrei fissarci un pennarello, nero, in quel segno. Appena messo piede fuori dal treno, apro lo zaino ed estraggo il mio cartello per l’autostop. Recita “Levin/Bulls/Wanganui”. Wanganui in realta’ si scrive “Whanganui”, ma credo che si capisca lo stesso, dopotutto. Credo che nemmeno i locali siano tanti sicuri di come si scriva esattamente. C’e’ una scienza credo dietro l’autostoppismo. E io faccio i miei calcoli. Faccio per piazzarmi davanti ad un supermercato (discreto flusso di macchine), poco oltre un semaforo (le macchine riducono la velocita’ ed hanno piu’ tempo per leggere il mio cartello), perdipiu’ all’ombra (non mi brucio ogni singolo pelo), ed iniziare a sventolare il mio cartello, quando mi accorgo che davanti a me ho due macchine della polizia. Con spudorata quanto falsissima disinvoltura fischietto chiudendo il cartello in 0,03 secondi, come fosse un pezzo di cartone da gettare via. Quando accendono le sirene e si fiondano all’inseguimento di qualche kiwi poco rispettoso della legge, finalmente srotolo il cartone e tirando un sospiro di sollievo, riprendo la mia professione. Mi sento una bagascia. Ma, ma, fortunatamente una gentile signora di mezz’eta’ mi tira su dopo 2 minuti e mi  porta, dice, fino a Levin. Beh, meglio che niente. Sono tutt’ora in discreto orario sulla mia tabella di marcia, e se a Levin riesco ad avere un passaggio fino a Wanganui in poco tempo, sono a cavallo. Smontato dalla macchina, tiro su i miei bagagli, sorrido al figlioletto dalla signora – attorno ai 7 anni – gli dico “Bel cappello, ne avevo uno simile!”, dandogli un buffetto in testa, e guadagnandomi un sorriso gentile e un “Thank you, goodbye!” nel tono che solo i bambini sanno donarti. Faccio due passi fino ad un benzinaio (altro luogo con supposto discreto flusso di macchine) e riprendo il mio sporco mestiere. Mi risento una bagascia. Sorrido a tutti. Qualche ragazzaccio in pick-up mi manda a fare in culo. Io, da buon samaritano con un briciolo di cervello (vedi inizio post) anziche’ ricambiare ed alzare la posta sorrido. Dopotutto sono in cerca di un passaggio, non di rogne. Il tempo passa, troppo velocemente. Inizia anche a venirmi un discreto sonno. Il vento mi spira negli occhi e mi rende difficile tenerli aperti, mi fa lacrimare. Provo a importunare qualcuno che fa benzina nel tentativo di beccare la persona giusta, quella che sta guidando verso nord per piu’ di un isolato. Niente da fare. Passa un’ora e mezza, decido di andare avanti. Un “fella” per strada, seguito poco dopo da una gentile vecchietta (anche le vecchiette) mi suggerisce di andare alla fine del paese,perche’ qui in mezzo c’e’ troppo rischio di beccare solo gente in giro per il paese. Manco fosse New York! Ci saranno tre isolati in questo buco schifoso, non so spiegarmi quale sia lo scopo di girare in macchina per 3 isolati. Comunque, un consiglio e’ sempre un consiglio, e lo seguo di buon grado. Cammino tenendo alzato il mio fido cartello. Lungo la via, essendo assetato come un cane del deserto, mi fermo dallo zio Mc per un soft cone. Scopro con piacere che il prezzo e’ diminuito da 1$ a 70 cents, non male. Se l’avessero fatto all’inizio, con tutti quelli che ho comprato avrei potuto acquistare una villa in Florida con tanto di servitu’ annessa. Giungo infine al termine del paese-fogna, e riprendo ad autostoppare. Il vento gira a mio favore e si ferma quasi subito un pick-up con sedili che sembrano essere di lana di pecora. O forse sono due pecore che fungono da sedili, non so. Ci vedo poco. Apro la portiera, il tipo mi chiede dove vado, gli dico Wanganui, mi dice che va proprio li. Metto i bagagli sul tailgate, dove trovo una discreta motosega. E’ quel genere di tipo, quello che rapisce gli autostoppisti, li porta in un’oscura strada di campagna, li stordisce con un martello e li fa a pezzetti con la motosega, penso fra me e me. Ormai ho un piede nella fossa. E’ la fine. Lui e’ chiaramente quel tipo: stivaloni da campagna, mani sporche di smorcia, annerite e incallite dal duro lavoro del carnefice. L’unica amica fidata e’ la scure. Sono fottuto. Si rivela invece essere un amabile “forestale” che lavora per salvaguardare la flora locale. Piuttosto loquace anche, oserei dire. Parliamo di tutto, dalle specie di flora che stanno scomparendo (livello d’interesse -3547) a Berlusconi. Un po’ di barzellette non fanno mai male. Mi ricorda il clima rilassato che c’e’ nella mia terra natia. Durante il tragitto, assisto ad uno splendido tramonto sulle campagne. Peccato che cio’ significhi anche che non passero’ mai la notte a destinazione. 24 dollarozzi buttati nel cesso. Fa niente, saranno ben spesi, lo faccio per un motivo che va oltre i soldi, oltre la stanchezza, oltre il sonno. Allerto il mio amico di Wanganui: ho bisogno di un letto per stanotte. Quando mi presento alla porta di casa sua, integro, senza nemmeno una goccia di sangue (la motosega e’ rimasta sotto il mio zaino) lui non mi nega il posto letto, e nemmeno un pasto caldo. Anche se ormai non mi sorprendo piu’ – dovevo vederlo una volta in vita mia, e’ finita col vederlo 3 volte con l’opzione per una quarta, con annessi pasti e quant’altro, pazzesco – e’ una persona fuori dal comune.

La notte passa in modo abietto. Non chiudo un occhio neanche per sbaglio. Mi servirebbe della colla per chiudermi le palpebre, ma non saprei come spegnere il cervello. Beh, capita quasi sempre in quelle notti in cui sei piu’ teso della corda di un arco, quelle notti in cui potresti caricare il tuo cellulare infilandoti la presa su per il naso da quanto carico sei. Capita prima di un esame (non a me, non sono il tipo), capita prima di partire per un lungo viaggio (si, a me), capita quando pensi solo e sempre ad una persona. Non riesci a chiudere. Ho pensato per tutta una notte a come prensentarmi, cosa dirle, che sorriso farle, SE farle un sorriso, se inventarmi qualche balla, se buttarla sul ridere o stare seri. Qualsiasi cosa. Sono un cretino emerito. 110 e lode peraltro. Mi sveglio alle 6 e 30 che sono piu’ straccio di quando sono andato a dormire. Il latte anziche’ berlo dovrei tirarmelo in faccia per darmi una svegliata. Invece, faccio colazione con dei muesli, salgo in macchina col mio amico, il quale mi da un passaggio fino a fuori citta’, e torno al mio mestiere di bagascia stradale. Attendo 20 minuti (il traffico da Wanganui verso National Park alle 7 del mattino non e’ esattamente quello che c’e’ a L.A. all’ora di punta, se volete saperlo), ed ecco che mi si fa sotto un altro pick-up (e daje!) con all’interno un nerboruto signore con due braccia da wrestler, tatuate, possenti. Mi avventuro in macchina chiedendo fino a National Park ed avendo in risposta un “SI, ti posso portare fino a li!”. Beh, abbiamo fatto 30, facciamo 31! Cosi’, salgo e mi avvio a rischiare la pellaccia per mano di un pazzoide potenzialmente ex-detenuto ora rider della piu’ bieca specie. Con un solo braccio potrebbe farmi saltare le cervella credo. Si scopre essere un simpatico omaccione che lavora in un penitenziario come drug-tester, una delle figure piu’ odiate della prigione mi dice. Capisco la taglia delle sue braccia. Io inizio a ruota libera con le mie scene migliori: “Quando ero a casa seguivo una serie sulle carceri americane.. gang, droga, armi..” e via di seguito. Come parlare con un bambino di 5 anni. Ma la conversazione e’ interessante, e nonostante ogni tanto susciti qualche risata, scopro diverse cose. Una delle varie, recita tipo “Confrontate alle gang americane, quelle locali sono bande di bambini. Se le metti in America, il giorno dopo sono tutti fottuti”. Haha. God bless America!

Arrivo a National Park con un clima da panico: il sole c’e’ ma non scotta troppo, l’aria e’ fresca, si vedono tutte le montagne circostanti (3), e si sta di un bene dell’anima. Anche se onestamente credo che ora come ora starei bene anche nella Death Valley con un maglione di lana o al circolo polare artico in canottiera. Niente mi butterebbe giu’ ora. Mi faccio lasciare al benzinaio locale dal pazzoide ex-detenuto, e inizio a camminare i 150 metri che mi separano dall’ostello, dal suo profumo, dalla sua voce, da lei. Ad ogni passo il mio battito aumenta a dismisura. Iniziano a tremarmi le mani. Odio queste cose, mi fanno sembrare un fottuto vecchio con l’Alzaimer. Sono maledettamente contento, emozionato, curioso, indeciso allo stesso tempo. Arrivo all’ostello, mi nascondo dietro ad un pullmino, e mi viene un’idea: non essendo certo della sua presenza in reception, la chiamo. La chiamo, si, grande idea. “Hey, ciao sono Manu, volevo solo dirti che dovrebbe esserci un pacci giu’ che ti aspetta, vai a controllare e sappimi dire! Ciao”. E metto giu’. Aspetto un minuto, e mi avvio alla porta. La vedo mentre legge un cartello affisso in reception, mi da le spalle. La attendo per qualche secondo, forse 5-10, mi sembrano ventisette anni. Credo nel frattempo mi siano venuti i capelli bianchi. Poi si gira, finalmente. I capelli tornano castani. Io ho le mani in tasca, sono appoggiato con una spalla alla porta, le gambe accavallate. Quando si gira e mi vede, sfodero un sorriso intenso, ma discreto. Di quelli “Si, sono qui. Stupita eh?!”. Lei fa una faccia che dice “Non ci credo”, poi mi si avvicina, io faccio altrettanto, e mi abbraccia.

Usciamo per fare due parole, le spiego la mia idea, il mio pellegrinaggio, tutto questo per lei. Qualche occhio lucido si intravede, forse piu’ per il sole dritto negli occhi che per il mio gesto in realta’. Passiamo un’oretta a parlare del piu’ e del meno, poi riprende a lavorare. La sera e’ via ad una serata “solo girls”, no way di intrufolarmici. Credo nemmeno vorrebbe tutto sommato. E via quindi, il giorno uno. Tutto per ora si e’ risolto con un abbraccio e un di dubbia causa occhio lucido.

Son partito senza alcuna aspettativa. Non mi aspettavo pianti a dirotto, baci a non finire, e via dicendo. Non e’ la tipa, credo. E comunque non credo sarebbe il luogo, il momento. Non mi aspettavo nulla del genere punto e basta. Ma di qui a ricevere un abbraccio e un’ora di chiacchiere, un po’ ne passa. Non sprizzo certo felicita’ da ogni poro, ma mando tutto a fanculo, al solito, prendo la mia football e me ne vado in campo a fare due lanci e a prendere il sole.

La sera potrei essere in due posti con l’umore che ho: qui, o ad un funerale. Aspetto fino alle 21, quando lei finisce di lavorare, per almeno accompagnarla al posto dove si svolge questo mini-party. Passo il tempo con una simpatica ragazza inglese nel mentre. Conosco un ragazzo californiano con cui si va d’accordo subito, e lo invito a passare a trovarmi a Glenorchy, visto che programma di visitarla. Magari mi ci scappa un’altro invito in Cali, gia’ che ci siamo! Arrivano le 21, inizio a girare senza meta per l’ostello, come un cazzo di cimice che non riesce a capire che c’e’ un vetro tra lui e la liberta’. Alla fine mi siedo fuori, davanti alla porta, ad aspettarla. Arriva in 2 minuti, tirata come non avevo mai avuto la fortuna di vederla prima. Un angelo dai capelli biondi e gli occhi azzurri. Anziche’ avere le ali e una veste bianca, ha una giacca nera e dei pantaloni verde chiaro. La faccia promette merda. Almeno, quello che immagino. Gran partenza peraltro. Le chiedo se posso accompagnarla al posto. Mi dice che le ragazze stanno arrivando verso di qua e che prima si fermano al bar di fronte. Tra me e me penso “Sta roba non ha senso. Cazzo vuol dire?! Mi fermero’ dove vi trovate, no?!”. Evidentemente il cervello di una donna viaggia su altre dimensioni, a me tutt’ora decisamente oscure. Le rispondo, intuendo cosa volesse in realta’ dirmi, “Quindi e’ meglio che me ne stia qui vero?”. La risposta, ovviamente, un SI con un’espressione come a dire “Mi spiace, ma e’ proprio cosi’”. Mi alzo, e mentre io le do un bacio sulla guancia, lei credo si senta come me quando a 10 anni mia nonna si avvicinava per baciarmi. Ho dentro di me una sensazione che mi porterebbe prima a spaccare il muro con un pugno, poi a vomitare per il ribrezzo. Torno mestamente dentro, con l’aria di un quarterback che ha perso il Super Bowl per un intercetto a 5 yards dalla end-zone, 10 secondi dalla fine. Provo a rifugiarmi in uno dei libri piu’ divertenti che abbia mai letto (Bill Bryson, Life and times of the Thunderbolt Kid, altamente consigliato), ma fa cilecca di brutto. Leggo due pagine, non rido neanche per sbaglio, chiudo tutto e mi caccio sotto le lenzuola. Fossi ad un funerale avrei la faccia giusta.

Anche se, ora che ci penso, potrei essere in un terzo posto: fossi nel mezzo di una rissa da bar, spaccherei tanti di quei culi che finirei agli annali.

Mi semi-addormento nel giro di 3 minuti stavolta. Forse il nervoso, la delusione, il dolore soffocano la tensione. Sembro avviato verso una dolce notte di riposo quando parte una segheria. Uno scemo dalla parte opposta della camera, letto superiore, inizia a russare ad un livello ridicolo. Io ho una tecnica in questi casi: attendere imprecando. Solitamente dopo 3-4 minuti e 3-4mila imprecazioni, la segheria smette. Non stanotte. Ad un certo punto inizio ad imprecare ad alta voce in italiano, tanto per rendere tangibile al resto della camerata (tutti ragazzi ovviamente) che c’e’ qualcuno che si e’ rotto il cazzo di questa cosa. Sono seguito da altri 3. Inizio a parlare in inglese. “C’e’ nessuno che puo’ tirargli un calcio nel culo?”, domando. Via qualche risata. “No sono serio io!! Svegliatelo per favore!”. “Seems a fuckin’ chainsaw!”, una cazzo di motosega, dico. La camera piegata dal ridere. Come al solito, ho coniato un soprannome. Partono urla dalla camera “Hey chainsaw!”. C’e’ dello spasso in tutto questo obbrobrio. Con la carica nervosa che ho indosso credo potrei incenerirlo con lo sguardo, il fellone. Ho anche parecchio sonno tutto sommato, e non mi va di sprecare tempo in imprecazioni o in motoseghe. Un tipo dalla parte bassa della camera, mio lato, mi segue con coraggio ed entusiasmo. “Hey buddy!” inizia ad urlargli dietro. Mi fa divertire, il fella. E ancora, “Hey buddy! Stop the chainsaw!”. Tutti a ridere. I risultati pero’, risate a parte, fanno piangere. Il fellone continua a russare, in tutta risposta, ancor piu’ forte. Fa paura. Ricordo i tempi dell’abo cinghiale. Paura fottuta la notte, a quei tempi. Ad un certo punto pero’, la mia pazienza finisce. Con un gesto che dire teatrale e’ dir poco (credo sarei un attore di successo), mi levo le lenzuola di dosso, e dico “Ragazzi, mi sacrifico per salvare la vostra nottata – e anche la mia dopotutto”. Gente a ridere, che scoppia quando sente i miei piedi rimbombare al suolo dopo un tuffo dal primo piano del letto a castello. E’ tempo di agire, ed i ragazzi lo capiscono. Partono urla di incitamento miste ad applausi. Arrivo al letto del badass, gli do una bella scrollata, non sapendo in realta’ quale parte del corpo andavo a scrollare, nell’oscurita’, e lo sveglio. “UH, EH, WHAT’S ON?”. “Hey, stai russando un pelo troppo sai, siamo tutti svegli”. “Ah, ok”, in tutta risposta. Fanculo pezzo di merda. Dormi e non rompere le palle, la prossima volta sei giu’ dal letto con una scrollata, promesso.

Il mattino mi sveglio male, e svegliarsi male non porta mai bene. Un cretino sotto di me, un asiatico di dubbie origini che sembra vivere in quel letto da mesi a giudicare dalla biancheria appesa agli assi del mio letto, apre le tende alle 6.30. Ricordando un film di Bud Spencer, io le chiudo con fare seccato quasi all’istante. Passano 10 minuti, e il cretino le riapre. Apro gli occhi, sbuffo rumorosamente, e le richiudo con violenza. Il muso giallo e’ domo, ma ormai il danno e’ fatto. Riprendo a sonnecchiare, ma non a dormire. Riesco in qualche modo a tirarla avanti fino alle 8, quando poi mi alzo. Lei pare al lavoro. La vedo girare qua e la, mentre mangio i miei schifosi (senza cioccolata) oatmeals con raisins e coconut powder. Forse non mi vede - anche se dubito, cacchio! - ma non mi degna di un saluto. Io faccio altrettanto. Un po’ di orgoglio ogni tanto fa solo che bene. Devo cacciarmelo bene in testa, perche’ nonostante sia una delle persone piu’ orgogliose sulla faccia del creato, sono anche una delle persone che piu’ se lo mette in tasca, il suo orgoglio. Troppo, troppo. Cosi’, passo la colazione a ruminare pensieroso, fino a quando la mia amica inglese mi invita fuori per il te’. Almeno c’e’ aria fresca. Almeno non la vedo girare intorno. Ma, quando rientro per andare al cesso, faccio per girare l’angolo e praticamente le sbatto contro. “Buongiorno”, io. “Buongiorno”, lei. “Come stai”, le chiedo. Mi risponde con una faccia e con una parola che sono tutto un programma: busy, impegnata. A postolo. Mi sembra di leggere nella sua faccia un sentimento, uno stato d’animo, del tipo “lasciami andare, non vedo l’ora”. Prima di lasciarla, le dico “Tutto bene?”. “Si”. E via, con uno di quei sorrisi perfettamente tagliati a meta’, frettolosi, insulsi. Piu’ uno schiaffo che un sorriso, a dire il vero. Il giorno di merda si vede dal mattino. E visto che questa sara’ l’ultima sera qui, l’ultima chance che avro’ di parlare e di chiarire il mio gioco, gia’ pregusto i quintali di merda che dovro’ inghiottire prima di posare la testa sul cuscino, incazzato, deluso, maledettamente triste. Quintali di merda. Merda a palate. Uragani di merda.

Ad un certo punto della giornata, prendo la mia football e vado fuori. Infradito, jeans, cintura, canotta senza maniche bianca infilata nei pantaloni. Stupendo, un quarterback d’altri tempi. Starei benissimo in un lungomare del Sud Italia a urlare “Ueee pische’” a qualsiasi tipa decente che passa. Senza football ovviamente. Ad ogni modo, mi dirigo in giardino, faccio su per strada la mia amica inglese, forse non molto convinta di giocare a football – ma io sono cosi’, c’mon, ormai sei della truppa – e faccio due lanci. Sono momenti strani. Possibilmente non me ne frega niente di qualsiasi cosa stia al mondo. Di me, degli altri, delle cose, del tempo, dei soldi, della pace, di niente di niente. Ho il cervello annullato. Da cosa? Non so dargli un nome. Rabbia? Tensione? Ira? Delusione? Carica? Per la maggiore comunque, sono cose con un connotato negativo. Forse sono abbastanza deluso, finora. E la cosa piu’ brutta e’ che secondo le mie previsioni lo saro’ ancora di piu’ a breve, incredibile. E la delusione mi fa cambiare, eccome. Voglio solo lanciare una palla, nel miglior modo possibile, piu’ lontano possibile, rincorrerla, riprenderla e rifarlo ancora. Finche’ non mi stanco. Cerco di perfezionare i movimenti, le pose, l’esecuzione del lancio. Mi sento un Tom Brady da campeggio e con i jeans. Curioso. Ma mi sento come se nessuno potesse diturbarmi, irritarmi, infastidirmi, interrompermi. Se mi sparassero il proiettile rimbalzerebbe. Sono in una specie di choc pompato dalla rabbia, dalla delusione. E’ una sensazione stranissima. A volte pero’, terribilmente bella, appagante. Da una specie di senso di invincibilita’. Non me ne frega piu’ un cazzo. Di niente, soprattutto di lei e di quel che pensa e di quel che fa. Forse e’ solo un modo maldestro per evitare, fuggire, dimenticare il presente che cazzo, ti sta a dieci metri di distanza. Ma va bene lo stesso. Non me ne frega niente. Sono invincibile, intoccabile ora.

Fino a quando mi arriva un lancio diretto sui maroni, che grazie al mio cervello slow motion e ai miei pensieri di immaginaria onnipotenza non riesco a fermare in tempo. Quantomeno un po’ di male alle palle mi fa tornare al pianeta terra, alle mie pene amorose, e alla fine, dentro all’ostello del cazzo, dove mi concedo un paio di vitaminici kiwi.

Sono le due, e a quanto pare ho rimediato un invito a pranzo. Da chi? Da un idiota giapponese che ha visto qualche mia foto e vorrebbe parlare un po’ di piu’ di queste cose con me, approfondire un po’ il discorso. Patetico.

No dai, sto scherzando. A parte che non accetterei mai un invito del genere. L’invito vero e’ suo, e lo accetto volentieri. Appena smette di lavorare, ci dirigiamo al caffe’/ufficio postale/edicola locale, un posticino discreto, carino, con annessa sala lettura. Potrebbe essere Buckingham Palace come la stamberga piu’ obbrobriosa che abbia mai visitato, ma starebbe benissimo. Ho occhi solo per lei. In pratica, potrebbero scipparmi anche l’anima, credo non me ne accorgerei. Parliamo, parliamo, parliamo. Le chiedo di insegnarmi qualche parola in estone – decisione che, dopo la prima parola, rimpiango amaramente – e ovviamente, la parola che voglio sapere non puo’ che essere diversa da “I love you”. Io ovviamente non ho la benche’ minima idea di come possa dirsi in estone. Lei sa come si dice in italiano, piu’ o meno. La conversazione e’ piacevole, e prosegue fuori dal locale, verso il giardino dell’ostello. Ci stendiamo sull’erba a prendere un po’ di sole. Io sono un cretino senza limiti. Semplicemente non c’e’ fine alla mia stupidita’. Mi metto a petto nudo, senza crema, alle due e mezza del pomeriggio. Credo la mia pelle piuttosto bruna sia ormai invincibile, dopo due squamazioni ormai alle spalle. Bummer. Ad ogni modo, continuiamo a parlare. E dopo un po’ di trash-talking, non nel senso di parlar male, ma nel senso di parlare di cose un po’ a caso, arriviamo dove, forse, tutti e due volevamo arrivare: noi stessi. Il discorso si fa interessante, serio. E mentre parla, mi vengono i brividi. Come le faccio notare, dando ancor piu’ una svolta al discorso, deve ancora uscire una parola, un pensiero da quella bocca che non mi piaccia. E’ incredibile. Mi fa impazzire. E cosi’, piano piano prendo coraggio e parto. Sto per scrivere pagine di storia. A pancia ingiu’, strappando un po’ di erba qua e la, gli occhi rivolti al terreno, un tono di voce rilassato ma fermo e deciso, inizio a parlare, a dirle tutto quel che penso e provo. Non so per quanto ho parlato, forse per 5 minuti di fila. Che sono un tempo piu’ o meno pari a infinito in questi casi. So che ho parlato come mai avevo parlato prima d’ora. Avrei fatto venire le lacrime agli occhi a non so quante passionevoli ragazze. Se avessi parlato alle Nazioni Unite, alla fine mi avrebbero applaudito per minuti interi. Non mi e’ mancata una parola, il mio inglese e’ stato impeccabile. Non ho mai vacillato, il filo del discorso non l’ho mai perso. Alla fine, mi son sentito benissimo. Sembrava di essere in un film, ed io avevo recitato la mia parte alla grandissima. Per fortuna pero’, mi vien da dire, non era affatto un film. Anche se il finale lo sarebbe. Finisco di parlare, mi alzo e mi rimetto la maglietta, poi mi inginocchio di fianco a lei, ancora seduta, sguardo un po’ perso nel vuoto. Un bacio sulla guancia. Un sorriso. “Ehi, ti aspetto per cena allora. A dopo.”

Il tempo trascorso a cena e’ da incorniciare. Va tutto cosi’ bene, sembra tutto cosi’ troppo bello. Cucinare insieme, dividere tutto, sorridersi mentre si mangia una pasta che piu’ international di cosi’ si muore. Uno di fronte all’altro. Iniziare ad ascoltare un po’ di musica, finire – a dire il vero, iniziare e finire – con canzoni che piu’ romantiche di cosi’, si muore. Lei mi chiede se voglio vedere dei video in cui lei balla. Ovviamente, la mia risposta e’ si. E anche se non capisco una bega di ballo, anche se a mia volta non saprei muovere neanche un braccio, starei per ore a guardarla. Mi viene anche una leggera voglia di iniziare a prendere qualche dritta sul ballo. Siamo in una cucina deserta, solo per noi, da un ora e mezza ormai. O forse piu’. Le chiedo se vuole fare due passi. E mi dice di si. E’ il momento, quello dell’all-in. All-in, o pugno di mosche. Anzi, nemmeno quelle, almeno sentirei il rumore di qualcosa. Senza di lei, sarebbe un vuoto, un silenzio totale.

Dopo qualche centinaio di metri di discorsi del cazzo – del tipo il muso poco sorridente della padrona dell’ostello – io mi muovo. Scopro le poche carte che non avevo ancora scoperto. In realta’ nulla di nuovo, solo un altro monologo. Il fatto e’ che sento che potrei parlarle per ore dei miei sentimenti, di cos’e’ per me, di cosa farei per lei. E non mi mancherebbero mai ne’ fiato, ne parole.

Evidentemente, certe volte non e’ abbastanza. Certe volte puoi spingerti al 101% delle tue possibilita’, e non essere sufficiente. Certe volte combatti col fisico e con la mente, ti stresssi, ti distruggi, per avere nulla indietro. A dire il vero qualcosa indietro l’hai: si tratta di tanta sofferenza, dolore, tristezza. A volte mi domando se serva, a cosa serva, combattere per tutto questo. A volte penso che se me ne stessi con le mani in tasca e mi facessi gli affari miei, avrei solo da guadagnarci. Peccato non ci pensi mai prima di cacciarmi in queste situazioni. E onestamente, ora mi sento stanco. Sono stanco di soffrire per nulla. Stanco di dare, dare, dare, e dare ancora per ricevere nulla. Sia chiaro, non sto parlando di familiari, parenti, amici. Parlo di lei. Lei e le altre prima di lei e verosimilmente, seguendo il trend, diverse altre a venire. Io sono sempre quello che da, quello che venderebbe il culo per farla felice. Ma non c’e’ mai ricompensa per tutto cio’. Forse bisogna veramente imparare ad essere egoisti nella vita, a seguire la strada che porta al bene tuo personale, seguire i propri interessi senza troppo farsi pare per gli altri. Soprattutto, soprattutto, in queste situazioni. Lei era speciale. Lo e’ ancora. Nonostante camminando temesse che avrei cambiato la mia opinione su di lei, dopo questo dialogo, io non la cambio la mia impressione. Lei e’ come un angelo, con i capelli biondi, degli occhi blu dove potrei perdermi a vita, una voce che riconoscerei fra mille. Io non posso dimenticare nulla di lei. Ho passato la notte a girarmi sul letto a pensare a chissa’ quante cose. Il pensiero piu’ orrendo era quello di perderla.

E’ quel che e’ realmente accaduto, dopotutto. L’ho persa, per sempre.

Nella notte, quando lo pensavo, un brivido mi correva lungo la schiena. Non ho mai provato questo dolore per fortuna, ma mi sapeva tanto da perdere una persona cara. Mi sembrava, nel sonno, di aver perso un familiare. Era come un incubo. E il mattino, la musica non cambia. Mi sveglio, e appena realizzo che sono vivo, sto bene fisicamente, il mondo e’ ancora la fuori e c’e’ anche della gente che lo popola.. penso poi a cos’e’ successo poche ore prima. L’ho persa. Mi vengono i brividi. Mi sento terribilmente solo. La fuori in realta’, e’ come non ci fosse piu’ nulla. In un secondo realizzo che in una notte ho perso tutto, qualsiasi voglia, qualsiasi interesse, qualsiasi motivazione. Non ci sono piu’ Nord America, Asia e Australia. Non ci sono piu’ voli in elicottero o bungy. Non ci sono piu’ amici, piu’ gente caritatevole. Non c’e’ piu’ il sole. Mi sento morto. E’ una sensazione che non avevo mai provato prima. E spero di non dover provare piu’ tante volte in vita mia. Io sono stanco di questo. E stavolta, e’ arrivato ad un punto insostenibile. Non ce la faccio a reggerlo. Vorrei tornare a casa, per magari finire chiuso in camera a piangere su come sono andate le cose. Vorrei filarmela nel posto piu’ lontano da qui col primo volo possibile. Ma so gia’ che per i prossimi mesi, sarebbe solo un raggiungere cime per trovarmi alla fine, piu’ solo di prima. Per realizzare ancora una volta cio’ che avevo, cio’ che pensavo di avere, cio’ che volevo avere.. e che non ha mai avuto. Mi ucciderebbe. Ed ora capisco, credo, che qualcuno ogni tanto la faccia finita in certe situazioni del genere. Non credo io arriverei mai a tanto, spero di non arrivare mai nemmeno a pensarlo, ma posso capire che qualcuno decida che ad un certo punto, e’ troppo. A volte e’ un dolore che anche il piu’ forte degli uomini puo’ vedersi in difficolta’ a sopportare.

Io accetto la sua volonta’. Lei non vuole, semplicemente, avere una relazione. Non con me, non con altri. Vuole essere ancora libera, di fare cio’ che vuole. A puttane qualsiasi discorso possa farle, e di certo le argomentazioni non mi mancano. Mi accorgo che in fin dei conti, non e’ come sbattere contro un muro (praticamente lo e’), ma piu’ semplicemente, questo e’ cio’ che vuole. E io non sono nessuno per farle cambiare idea. E certamente, non ci riuscirei.

Mi piange il cuore a lasciarla, ma glielo dico, prima di andare dentro. Non mi vedrai mai piu’. Non sentirai mai piu’ il mio nome ne’ lo leggerai in un sms, una mail, su Facebook. Non saprai piu’ nulla di me perche’ io non vorro’ sapere piu’ nulla di te. Non per cattiveria, quanto perche’ mi ucciderebbe, sul serio. Mi ci vorra’ tanto di quel tempo per dimenticare che non so quanti altri aerei dovro’ prendere nel frattempo. Prima di entrare in un ostello ormai deserto, solo noi due in piedi, le dico tante altre cose. Io non cambiero’ la mia idea su di te. Tu non cambiare la tua su di me perche’ se ora scompariro’, e’ solo per il mio bene. Mi hai insegnato te ad essere egoista (anche se tu lo sei un po’ troppo. E non capisci che a volte, in due, si puo’ essere egoisti a volte, ma amati all’inverosimile allo stesso tempo. E non c’e’ paragone). Anche se a te piacerebbe, e sarebbe molto bello perche’ la tua compagnia e’ fantastica, non voglio viaggiare con te quando riprenderai. Sarebbe vivere su due mondi diversi, io che vedo in te una cosa, tu che forse qualcosa vedi in me, ma che per qualche motivo, ti sei imposta a prescindere di non approfondire.

Non capiro mai, dico mai, questo tuo diktat auto-imposto, “non voglio avere una relazione”. Ti voglio un bene dell’anima, ma non ti capiro’ mai per questo.

Mi lasci un vuoto che non so se potro’ colmare. Con te ero in un mondo bello, sereno, il sole splendeva e io avevo sempre il sorriso. Mi lasci da solo, in un mondo deserto, ostile, senza alcuna ragione per continuare a vivere come facevo prima, senza alcun motivo per tirar fuori un altro, singolo sorriso.

Ti auguro tutto il bene del mondo. Mi avresti reso l’uomo piu’ felice e orgoglioso sulla faccia della terra, a stare con te. Ora tutto, nel giro di una notte, non ha piu’ senso.

Addio

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