martedì 15 gennaio 2013

Photostory: The world up here, Heather Jock hut.


Era da tempo che guardavo quella valle un po’ oscura, tetra, formata da una roccia grigio scuro, simile alla graphite. Era da tempo che ponderavo l’opportunita’ di avventurarmi lassu’, persino di dormire in un bivacco per una notte. Lo meditavo nonostante le ginocchia doloranti e assolutamente da curare a questo punto. Ed era ormai tempo, visti i 3 giorni di riposo non richiesti ma previsti, di lanciarsi anche in quest’avventura. Di sicuro conscio del fatto che sarebbe stata la mia ultima camminata, almeno per un bel po’.

Abbandono abbastanza presto i miei piani di essere sul sentiero all’alba. Uno, l’idea di raggiungere il bivacco in tarda mattinata con la prospettiva di dover passare da solo senza uno straccio di passatempo tutta la giornata, non mi attira per nulla. Due, voglio vedere come evolve il meteo. Tre, ci sono due partite dei playoff NFL. Alle dieci, mi cade la linea internet, senza possibilita’ di recupero, nonostante i miei sforzi titanici. Addio NFL. Mi concentro sul meteo. Sebbene sia prevista della pioggia quaggiu’ attorno alle 14, non mi sembra proprio il caso: c’e’ abbastanza sole, e le nuvole presenti non sembrano minacciose. Dopo aver mangiato una delle favolose mele cotte da me preparate, salgo in macchina, lo zaino gia’ pronto dalla sera prima, e via alla volta della Whakhaari conservation area, a circa 1 km da casa mia. Tanto per confrontare, se da casa mia mi muovo nel raggio di 1 km, il tratto geo-morfologico di massimo interesse che posso trovare e’ il Muson. Nel suo tratto peggiore poi. Ho detto tutto.

La meta di giornata e’ McIntosh hut, su a Mount McIntosh appunto. Una struttura che noi chiameremmo bivacco, che qui e’ chiamato rifugio come tanti altri. Non c’e’ differenza tra elettricita’, acqua, materassi o meno, posti letto. Tutti rifugi sono. L’itinerario prevede la partenza dal parcheggio verso una valle, e ad un certo punto, l’arrivo alla giunzione: le possibilita’ sono due. Dirigersi verso Mount Judah ed eventualmente Mount Alaska (del quale mi piacerebbe dannatamente guadagnare la cima, ovviamente, nonostante i “soli” 1930 metri), oppure verso Mount McIntosh ed anche qui, eventualmente, Black Peak. Studiata attentamente la mappa – rigorosamente quella formato cartellone all’inizio del sentiero, non sono uno da mappe nello zaino io – parto sotto la candela. E’ infatti mezzogiorno e mezzo, ed e’ come se fossi a Jesolo il 5 agosto, decidendo di mettermi uno zaino da 15 k in spalla e camminare per una ventina di km sotto il sole. Non proprio il piu’ saggio dei programmi, per dirla con un eufemismo. Inizio tranquillo, e’ da 3 settimane che non faccio nulla di nulla, nemmeno una passeggiata col cane che non ho, e uno zaino cosi’ pesante non lo porto da secoli – diciamo dalla Milford. Per la prima volta in vita mia credo, lascio passare qualcuno su un sentiero: un ragazzotto dal fisico atletico che sale spedito. Con uno zainetto di quelli “solo acqua”. Rimugino che, fossi al pieno non delle mie forze, ma delle mie ginocchia, anche con uno zaino decisamente piu’ grande la storia sarebbe diversa. E inizia cosi’ una giornata che si sarebbe rivelata all’insegna dell’imprecazione, della maledizione, dell’odio verso le mie ginocchia ormai malsane. Da curare. Ma le mele non erano ancora mature, cosi’ vado avanti verso Turnoff Junction, deciso a proseguire verso il monte alla mia sinistra. Come al solito pero’, la montagna sorprende sempre. E spesso in questi casi, non proprio in positivo. Avete presente quando si arriva in un punto di favore, dove si puo’ vedere la pista che sale, che porta all’obiettivo? Avete presente la sensazione di immenso sconforto, di fatica anche solo al pensiero, di scoramento che si prova in quell’istante in cui si fissa il sentiero che si inerpica e si perde lassu’, anni luce di distanza da voi? E’ come stare fermi ma aver fatto una maratona, in quell’istante. Ne senti tutta la stanchezza. Ti ammazza. Ecco, la sensazione che provo ancora. Devo recarmi quasi in cima a questa montagna (PIC 1), per raggiungere il rifugio.
Pic 1. Mt McIntosh from Turnoff Junction.
Volessi proseguire per la vetta, eccomela servita. Volessi strafare e guadagnare il Black Peak, beh.. me lo tolgo dal cervello all’istante. Impossibile, impensabile. Non nel mio misero stato di forma. Cadrei a pezzi. Mi avvio dunque, carico di stanchezza non guadagnata sul campo, verso il basso, oltre un cancello che non promette nulla di buono (se il sentiero fosse trafficato o almeno, adoperato, non ci sarebbe un cancello cosi’ stupido e poco pratico!), oltre un torrente dove mi inzuppo un piede per attraversare. Ecco, il momento. Avevo letto da qualche parte che il tracciato prevede l’attraversamento di un ruscello, un torrente, prima di inerpicarsi sul monte. E la descrizione corrisponde: ripida discesa, torrente, ascesa. La cosa pero’ mi puzza un po’. Possibile che – da quanto ricordo – scrivessero “river fording skills required” per questa schifezzina?! Secondo gli standard canadesi (mi perdonino i miei amici canadesi, li prendo sempre a modello per eccessiva prudenza, ma come dice il detto, “la prudenza non e’ mai troppa”!) potrebbe starci, manco fosse lo Yukon, ma qui mi puzza. E infatti, poco dopo casca il palco. Mi trovo di fronte al “vero” ruscello. Che ruscello proprio non e’ ora, lo direi piu’ un torrente in piena. Quasi un fiume. Ad ogni modo, qualcosa di veramente difficile da passare. Cerco i segnapista, e vedo tra i due un muro d’acqua impossibile da valicare.

Ne’ a destra.
Pic 2. Flooded creek, looking up.
Ne’ a sinistra.

Pic 3. Flooded creek, looking down.

No way. There’s no way to ford the flooded stream. So basically, I’m fucked.

Mi sento come uno gnu che deve decider se affrontare il poderoso fiume limaccioso e guarnito di famelici coccodrilli, oppure starsene sull’arido terreno alle sue spalle ma salvare la pellaccia. Forse. Zio gnu. Ma dimostrando di essere un po’ piu’ intelligente di uno gnu, provo a cimentarmi nella ricerca di una soluzione. Sono i momenti in cui tutte le ore passate a vedere Bear Grylls potrebbero tornarmi utili. Cammino un po’ a valle e un po’ a monte per cercare punti in cui la corrente sembra meno impetuosa, il fiume meno profondo, o in cui ci sia qualche appiglio naturale su cui poter contare per l’attraversamento. Niente di niente. Solo un tronco d’albero all’apparenza maledettamente scivoloso che per giunta s’interrompe a tre quarti del fiume, in un punto dove poi mi sarebbe ostico solo rimanere in piedi. Non c’e’ modo. Poi, mi viene in mente un’altro stratagemma. Ricordo che ho una fune nello zaino, la porto sempre con me. Penso che potrei provare a fare due cose in una: legarla ad una pietra di medie dimensioni, lanciarla dall’altra parte del fiume, e provare a guadagnare un appiglio, facendola incastrare su qualche ramo o su altri sassi. In quel modo, potrei aggrapparmi alla fune nel caso qualcosa andasse storto durante il guado. Nel caso non riuscissi a raggiungere l’altra sponda, potrei comunque provare a percepire quanto fondo sia il fondale, per quantomeno decidere se l’impresa sia fattibile o assolutamente proibitiva. Non ci penso due volte, lego la fune, faccio girare la pietra a mo’ di lazo cowboy, e lancio. Nel lancio la pietra parte talmente secca che la corda, allungandosi, mi sega la pelle di un dito, bruciando da matti. E come non bastasse, non venendo mai sole, la pietra non arriva dall’altra parte. Si ferma a tre quarti, poi torna verso meta’ tirata veloce dalla corrente. Provo a recuperare in fretta per tendere la corda e non far impigliare la pietra. Ma e’ troppo tardi. Tiro, me e’ come avessi allamato uno squalo da una tonnellata. Provo a mettere in pratica le mie migliori doti da pescatore disincagliatore, ma niente da fare. Una pietra non e’ un rametto in Brenta purtroppo. Non riuscendo a smuovere nulla nemmeno con tutta la mia forza (non basta neanche una trasformazione in super sayan) mi vedo costretto a guadagnare quanta piu’ corda possibile, e tagliare. Come perdo gli artificiali in Brenta, perdo le corde sul Glacier Burn, a Glenorchy. Poco bel dejavu’. E non mi resta altro che tornare alla junction, e decidere il da farsi. Cercando di limitare le imprecazioni.

Sono appena le 14, e l’idea di tornare a casa dopo due ore passate a imprecare sotto il sole e a tirare una corda in fiume mi da il voltastomaco. Decido quindi di voltare a destra e proseguire sulla Mount Judah trail. Come si puo’ vedere (PIC 4), la mia meta giaceva a sinistra, lassu’.

Pic 4. Panoramic view from Turnoff Junction. (click to enlarge)

Non mi cambia granche’ tutto sommato, anche se ho la sensazione che i panorami migliori stiano dall’altra parte. E soprattutto, cambiare i miei piani e fare qualcosa che non avevo pianificato – ovvero avevo ritenuto meno interessante – non mi va giu’ proprio. Ma cosi’ stanno le cose, mi adatto, e mi rimetto in marcia. Riempio una borraccia (meta’ delle mie riserve idriche per due giorni – 1,5 litri – gia’ andate) ad una cascatella, e salgo su in un sentiero che a tratti diventa parecchio acquitrinoso. Il mio ginocchio sinistro scricchiola, e nei gradoni erbosi che mi fanno raggiungere “The Boozer” hut (PIC 5), faccio parecchia fatica.

Pic 5. Knees rest at "The Boozer" hut (Happy Hour @ 6 PM, Mon-Sun)

Trascorsi 2 minuti di riposo – non sono uno che cincischia tanto la sulle piste – mi rimetto in marcia. Perdo il sentiero dopo pochi segnali. Non vedo un paletto rosso neanche a dipingerlo. Perdipiu’, quel che mi sembra potrebbe essere il sentiero diventa un rigagnolo, un insieme di pozze, una brughiera cosparsa di erba zuppa d’acqua in cui puntualmente affondo ad ogni passo. Non c’e’ una pietra che mi salvi neanche a pregarla. Ricordo – a questo punto della salita – di aver affermato qualcosa tipo “Vei ti se me tocca noare pa rivare in sima a na montagna”. Mi scuso se probabilmente solo i veneti riusciranno a comprendere. In poche parole comunque, mi lamento dell’umidita’ del terreno. Dopo essermi bagnato per bene gli scarponi alla fine riconquisto il sentiero, senza peraltro capire dove l’avessi perso e dove se ne fosse andato. Probabilmente qualche paletto sara’ sprofondato nel pantano. Riprendo a camminare, ma faccio una fatica abnorme. Non ho mai avuto cosi’ male alle ginocchia mentre cammino, una cosa che, ad un certo punto, mi fa addirittura fermare per il dolore. Mentre con un’espressione contratta osservo il ginocchio, lo maledico, e poi guardo l’orizzonte con uno sguardo tipo “Perche’ proprio a me?”, penso a come sono ridotto. Ho le ginocchia di un 80enne, ma ho 55 anni di meno. Sono preso come un residuato bellico, un osso, non posso – sottolineo, non posso – correre, fatico terribilmente a camminare percorsi che prevedano dislivelli. Se li faccio, e’ solo perche’ sopperisco alla forma fisica con tanta forza di volonta’. Penso a un paio d’anni fa, quando potevo scorrazzare correndo per i monti anche con lo zaino in spalla. Ora se lo faccio, dopo 2 minuti sono per terra con un ginocchio rotto e sangue dal naso. Mi verrebbe da prendere a pugni il terreno, ma so che beccherei l’unica pietra nel raggio di un centinaio di metri, ferendomi anche la mano. Scherzi a parte, il pensiero di come sono ridotto sull gambe mi rattrista tantissimo, mi mette di malumore, metti dubbi sul mio futuro. E’ impensabile, per ora, prevedere camminate di 30 km a Grand Canyon, sotto il sole, con 1300 metri di dislivello. O qualche long hike sparsa per il Nord America. O qualche bel tramping in Asia. No, non con queste ginocchia. Mando tutto a fare in culo, e mi decido a proseguire fino al bivacco. So che non manca molto. Lo so, ma so anche che fa un male atroce. Gli ultimi passi mi vedono zoppicare, e quando arrivo, getto a terra lo zaino, e getto a terra anche me stesso. Nonostante abbia camminato circa 9 o 10 km soltanto (conti miei, i deficienti qua danno solo il tempo, non le distanze. Che modo e’ di far le cose in montagna questo, io non lo so!), mi sento come ne avessi fatti 50.
Pic 6. Finally at Heather Jock hut.

Pic 7. Good job, @ Heather Jock hut.

Dopo qualche foto celebrativa dell’impresa (PIC 6 e 7, sopra) e un sonnellino ristoratore, mi desto e guardo l’orologio: le 5 e mezza. Dannazione. Se c’e’ una cosa che odio – si va be’, una.. una delle tante! – e’ dover ammazzare il tempo senza avere un’arma per farlo. Cosa posso fare fino al tramonto – cioe’ le 10! – da solo, (quasi) in cima ad una montagna, e senza un benche’ minimo oggetto che possa ricondurre ad uno svago?! Non ho un libro, un pc, un gioco in scatola, un cellulare, un animale da tormentare, niente. Potrei giocare ad annodare e snodare quel che mi rimane della corda. Oppure giocare a centrare qualche bersaglio con qualche pietruzza. Se. Mi dico che neanche i bambini del 1823 facevano dei giochi cosi’ pallosi. Lascio stare tutto, incredibilmente trovo la forza per rimettermi le scarpe e raggiungo, non senza eslamazioni di dolore lancinante, il promontorio sovrastante il mio sgabbiozzo. Vedo Mount Alaska. Mi viene una voglia matta di andarci in cima, ora. Ci andrei anche il giorno dopo, non sarebbe un problema, nessuno zaino, nessuna distanza. L’unica cosa e’ che so benissimo che dopo 300 metri di salita sarei circa 50 cm piu’ basso a seguito di un improvviso crollo delle mie gambe a livello ginocchia. Non conviene, e lascio perdere anche questo piano. E’ maledettamente triste, sconfortante rinunciare a qualcosa che sarebbe a nostra portata, che vorremmo fare, che potremmo fare, solo a causa di un qualche incidente temporaneo non dipendente da noi, che di fatto ce lo impedisce. Ti abbatte di brutto.
 
Pic 8. Heather Jock hut, inside.

Torno al suddetto sgabbiozzo (PIC 8, sopra). Bivacco, meglio. Altro non e’ che un insieme di lamiere che mi ricordano il vecchio tetto del vecchio pollaio della vecchia casa di mia nonna. Lamiere, un paio di finestre – una delle quali con una delle viste piu’ belle di cui abbia mai goduto da una finestra! – tre posti letto dotati addirittura di materassini (un comfort su cui in realta’ non avevo fatto affidamento, preparandomi ad una scomoda notte sul duro cemento), una stufetta di cui non voglio testare l’affidabilita’, un tavolino ed una mini-panca. That’s it. Il tutto in uno spazio di 3,5x2,5 metri piu’ o meno. Appena mi fermo un attimo e, disteso sul mio sacco a pelo – sempre e comunque sul letto in alto, anche se non c’e’ nessun altro in giro – realizzo in che posto sono, mi sento un soldato della prima guerra mondiale. Mi sento solo, potenzialmente esposto alle intemperie, potenzialmente umido (i miei piedi lo sono ancora), anche se non in pericolo di vita. Mi immagino la notte, piu’ fredda, buia, solitaria. Immagino le sfortune a cui quei poveracci sono andati incontro in condizioni talvolta simili, ma mille volte peggiori. Spazi angusti, luoghi isolati, spesso sperduti. Da paura. Poi, un po’ meno triste, mi sento reincarnato in Chris McCandless, il ragazzo che ha ispirato “Into the Wild”. Solo, nella natura, nel “mio” rifugio. Non c’e’ nessuno, e so benissimo che a quest’ora, nessuno salira’. Colto da quella sensazione, vado fuori, mi siedo sulla minuscola panca adiacente la parete arrugginita di quel che e’ il mio personalissimo “Magic bus”, mi scatto una foto. Lo stile e’ lo stesso. Poi, gia’ che son fuori, mi cimento in qualcosa che non avevo mai provato a fare prima, seriamente: ammirare cioe’ che ho di fronte, con calma, nei minimi particolari. Apprezzare le variazioni della luce, le nuvole che si muovono, le ombre che cambiano. Scrutare la cima di ogni montagna, vedere dove c’e’ ancora la neve, provare a riconoscere posti, immaginare cosa c’e’ oltre. Credo di averci perso dei buoni 45 minuti. Per me, e’ stata una conquista. Se uno mi dicesse “Guarderesti lo stesso posto per 45 minuti?”, credo mi toglierei la vita piuttosto. Ora l’ho fatto. E se sei nel posto giusto, riesce anche quasi facile. Ti fa sentire veramente, parte del posto.

Arriva “ora di cena”, anche se cenare alle 6 e mezza per quanto mi riguarda non e’ propriamente “ora di cena”. Bollo un po’ d’acqua, ci verso della polvere solubile di zuppa di carne, tiro fuori 3 pagnotte e via. La mia cena e’ servita. Mi rifaro’ a colazione domattina. Di contro, ceno in uno dei posti piu’ panoramici dove abbia mai cenato. Non c’e’ un rumore, se non qualche folata di vento e qualche kia qua e la’ che starnazza. Per il resto, tutto tace (PIC 9).

Pic 9. Panoramic view over the Humbolts, Mt. Earnslaw, Mt. McIntosh and Black Peak.

Mi preparo a godere un tramonto fantastico: il sole viene talvolta celato da qualche nuvola passeggera, a sud si profilano nubi bianche, leggere, sfumate dal vento che lassu’ dev’essere parecchio gagliardo. Verso nord, solo qualche nuvola attorno alle cime piu’ alte. Il resto del cielo e’ di un blu intenso, i fianchi erbosi delle montagne iniziano a tingersi di giallo, poi arancione, poi rosso. Attorno alle 9, il sole scompare dietro una coltre di nubi. Non e’ un male, anzi. Faccio a tempo a rientrare, posare un po’ di pentolame, fissare la reflex al treppiede, indossare un abito in piu’, uscire.. e BAM! Lo spettacolo che mi si presenta, e’ da lasciare senza parole. Una luce soffusa, fioca, illumina la scena. Si accendono viola, rossi delicati che circondano le vette innevate. L’aria fresca carica il momento, lo rende frizzante, i brividi di freddo sembrano d’emozione pura. E’ un’incanto. Sono sempre combattuto, in questi momenti. Vorrei gettar via la reflex e sedermi tranquillo sulla mia panca, ad osservare in silenzio. Purtroppo, e’ come essere di fianco ad un personaggio famoso, un calciatore, una persona che ammiri. Non ti viene voglia di avere una foto insieme a lui? Altro che. Ed eccomi qua, a fotografare questo spettacolo, ancora una volta. Cercando di fare il possibile (PIC 10-11).
Pic 10. Sunset from Heather Jock hut.

Pic 11. The last colors before darkness.

E ancora una volta, vado a letto felice. Solo, ma felice. Nonostante la fatica, il sudore, il dolore della giornata. Nonostante non ci sia nessuno a tenermi compagnia, a farmi ridere, ad aiutarmi a passare il tempo. Perche’, si, e’ verissimo che le esperienze sono belle quando c’e’ qualcuno con cui poterle condividere. Concordo appieno. Ma se ci facciamo fermare da questo vincolo – deve esserci qualcuno – ci tarpiamo le ali. Ci togliamo meta’ delle nostre possibilita’. Io so che oggi ho fatto qualcosa di diverso, di emozionante, che mi ha dato parecchio, anche se mi e’ costato qualcosa. E so che un giorno – con diverse persone – potro’ condividere questa mia esperienza, raccontar loro qualcosa del genere. Giusto pochi giorni fa un mio amico mi scriveva “grazie per condividere le tue esperienze con gli altri”. E questo e’ fantastico. Voglio dire, non cio’ che faccio io, ma la condivisione in se’. Se la mia esperienza fosse per me’ soltanto, sarebbe fine a se’ stessa. Condivisa, guadagna mille punti. Questo e’ un dono grande, quello della condivisione, che io ho per fortuna imparato durante il mio cammino. Spero di non dimenticarlo mai. Nel raccontare un’esperienza, nell’affrontare i momenti belli come quelli brutti, nell’aiutare chi ne ha bisogno, spero di non dimenticare mai questo dono.

Vado a letto solo, ma felice, sotto un tetto piccolo, sotto un cielo immenso. Immensamente bello.

Manu, 14.01.2013, Heather Jock hut, Glenorchy, NZ.
 

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