venerdì 29 marzo 2013

Hiking Langtang valley


Quando domenica 17 marzo mi sveglio all’alba, in una Kathmandu ad ogni modo gia’ caotica e indaffarata, sono in un misto di sentimenti e feelings che non fanno certo trasparire enorme gioia e rampante entusiasmo. Alle 7 ho il bus verso Syaphru Besi, un paesotto all’inizio della Langtang valley, dove si svolgera’ il trek che devo intraprendere. Mentre butto giu’ una colazione to-go tra le buche della strada che mi porta alla stazione degli autobus (stazione.. chiariamo la cosa: una specie di isola stradale dove si ammassano pullmini e bus e dove la gente aspetta) non sono decisamente eccitato. Sono assonnato e ancora perplesso su questa citta’. E la colazione to-go – un croissant del dopoguerra e una banana formato mignon quel che mangio, tralasciando una mela avvizita e un succo scaduto da 3 mesi – non mi fa certo mettere su un bel sorriso. Avrei preferito una colazione da Mac Donald, e questo dice tutto. Arrivati in stazione, entra in gioco la mia guida, Binod, un ragazzo di 23 anni che mi accompagnera’ in questo trek. Lui inizia subito a procacciarmi un posto sul bus, anche se siamo comunque muniti di biglietti. Ed ora, chiarisco un’altra cosa. Vi spiego cos’e’ un bus qui, perche’ vederli in tv e’ un conto, entrarci e’ un’altro paio di maniche. Qui tutto funziona in modo abbastanza grossolano: no cartelli, no regole, no cose scritte. Si fa tutto a voce, si tratta su tutto, non c’e’ nulla di fissato. Nemmeno gli orari o i numeri dei bus. Io non riuscirei a capire la differenza fra l’uno e l’altro – cosa che di per se’ vale gli extra dollari spesi per avere una guida! – e potrei beatamente finire in India essendo convinto di andare a Langtang. Buon per me che ci sia un locale che si smazza per “mossignoria”. I bus sono delle specie di grossi van adibiti al trasporto di persone e cose, perche’ se dentro ci son persone, sul tetto ci sono cose. Qui una tratta di bus non viene sprecata solo per trasportare esseri umani, bisogna massimizzare il tutto. E mentre sul tetto vengono caricati gli zaini (caricati, direi meglio lanciati) e le casse di viveri, dentro salgono le persone. E salgo anch’io, solo dopo aver realizzato con orrore che nello zaino lanciato sul tetto c’era anche la mia reflex. Dopo qualche parolaccia la ritiro dallo zaino, me la tengo stretta, e salgo anch’io a bordo. Mi spetta – che culo! – il posto in angolo in fondo al mezzo. You know, dalle parti di Padova e in Italia in genere ho idea, quando si e’ giovani e si va alle scuole superiori, quello sarebbe il posto dei fichi no, di quelli che stanno in fondo al bus come stanno in fondo sui banchi di scuola. Ecco, mandate a fanculo il concetto in Nepal. E’ il posto del condannato a morte questo. Lo scopro malamente dopo pochi minuti dalla partenza, in ritardo di tipo 35 minuti. Ma come ho detto, tanto orari non ce ne sono qui, nessuno se ne sbatte tanto. Partiamo, e usciamo da Kathmandu dopo poco. Inizia la strada NON asfaltata. Buche ogni 10 secondi circa. L’autista sembra gagliardo, termine che non vuole essere inteso come “forte, in gamba”, ma come “pazzo scatenato”. Accelerazioni da carcere a vita, slalom fra bici e passanti inermi, cospicuo uso del clacson – peraltro non un clacson qualsiasi, ma uno con una suoneria che mi ricorda molto la macarena. Dopo 3 suonate di clacson vomiti dal culo. Ed io, gia’ immerso in questi pensieri, realizzo la cruda verita’ sulla sorte che mi aspetta: 7 fottutissime ore di viaggio in questo trabbiccolo, dove ad ogni buca sbatto la testa sul tettuccio e non posso appoggiare la schiena al sedile altrimenti sarebbe addirittura peggio. Si perche’ la cosa fantastica del mio posto e’ che mentre non so per qual motivo l’intero sedile posteriore verso l’angolo sale, il tettuccio addirittura spiove verso il basso, causando una notevole riduzione di spazio disponibile. Ed io, che non sono un giocatore di basket ma nemmeno un cinese, ne traggo dello svantaggio (per dirla senza parolacce). Dopo un’ora passata con schiena piegata in avanti ed una mano costantemente in tensione a reggere il sedile davanti per evitare di finirci contro e fratturarmi il setto nasale, sono gia’ al limite. Rischio seriamente di vomitare. Ho una mano che mi si e’ cancrenizzata in quella posizione, sembro avere il braccio di un koala. Ho il pollice opponibile. Impreco come un cane. Ma il destino non mi vuole ancora alla fine, ed ecco che un caparezza-style guy si alza dal posto davanti a me, un sedile qualunque sull’interno che a me sembrava una poltrone deluxe, e si sdraia letteralmente sul corridoio. I miei compari di sventura mi invitano a prendere il suo posto, viste le mie atroci sofferenze. Da tough guy che sono provo a dir loro che non importa, che reggero’, ma realizzata la bestialita’ detta mi fiondo con tempismo sul posto e mi ci insedio felicemente. Credo di non aver mai provato una sensazione cosi’ bella in vita mia. Rilassante, calmante, piacevolmente comodo. Come andare a letto dopo 30 ore. Da li il viaggio cambia, gira di 180 gradi. Mi trovo a mio agio ora. Le buche sembrano ormai ordinaria amministrazione, anche se effettivamente guardando dal finestrino sembrano crateri lasciati da diversi meteoriti. C’e’ gente lungo la strada che scava buche non so a che scopo, gente che spazza una strada in realta’ formata da polvere (dov’e’ il senso?!), gente che spacca pietre (lavori forzati o gente che non ha una sega da fare?). Il nostro autista li evita con brio per pochi millimetri ogni volta. Io sudo pezzi di ghiaccio. Soprattutto quelle rarissime, sventurate volte che il mio occhio indugia sul lato sinistro della strada, quello che da sul dirupo: un salto su campi di riso e terrazzamenti che stimo sulle diverse centinaia di metri (facciamo 3-400? No forse 5-600!). Mi do uno schiaffo per costringermi a guardare altrove. L’idea di essere sul pullmino della morte con il diavolo come autista – e non in un Interstate del Dakota ma in una strada di montagna nepalese – mi fa accapponare la pelle del ciccio. Facciamo solo uno stop pranzo lungo la via, tutti scendono e un losco figuro ci conduce tutti dentro al suo posto, una stamberga semiobuia e fatta di nudo cemento che mi ricorda la stalla di mia nonna. A tutti viene subito portato del cibo, servito al volo. Io dico alla mia guida, “gentili qui, sfamano la gente a gratis eh?!”. Poi lui mi spiega che in realta’ poi il cibo verra’ fatto pagare – cosa che mi rende perplesso sulla democrazia del sistema. Io comunque rifuto il cibo – sono ancora versione signorino – e mi reco a far due passi per il paesello.
Il pullmino della morte durante la sosta. A destra, la pappatoia del losco figuro. Copyright Emanuele Canton, 2013

Provo ad acquistare dei biscotti al cocco che scopro dopo casuale controllo essere scaduti 4 mesi prima. Ringrazio la signorina per il tentativo (tutti i pacchetti esaminati erano scaduti da almeno 3 mesi) e me ne torno in bus. Per ora meglio stare a pancia vuota. Arriviamo a destinazione, VIVI, alle 3 del pomeriggio. Ricordo di aver (quasi) baciato terra una volta arrivato. Prendo la mia merda e me ne vado in hotel. Syaphru Besi: altezza 1400 e rotti metri, paesello pre-montano colorato e brulicante di vita. Case cadenti, un’unica via, solo lodges e guest houses. 2 hotel che chiamare hotel e’ offendere la categoria. Ma c’e’ il wi-fi, e almeno passo la serata bene, parlando con l’Italia da un paesino sperduto in una vallata nepalese, e mangiando torta di mele come dessert.
Syaphru Besi, tramonto. Copyright Emanuele Canton, 2013
 
Il giorno dopo sono eccitato: si parte finalmente, si cammina, si esplora. Vediamolo sto tetto del mondo. Non sono al livello dei giappi: ogni tanto se ne vede qualche delegazione qui, sembrano matrioske. Eserciti di giappi vestiti tutti allo stesso modo, talvolta di verde, come fossero pronti ad un’esercitazione militare. Zainetti uguali, guanti anche con 30 gradi senza nuvole, cappelli falda larga, occhiali da sole modello Man in Black, walking sticks e raggio paralizzante. Quest’ultimo l’ho solo supposto io. Il mio livello d’entusiasmo pero’ li supera, forse. Parto lanciato, il mio zaino da 16 kg in spalla, le mie nuove scarpe da trekking ai piedi. So gia’ di fare una macacata terribilmente perniciosa usandole per la prima volta in un trek di 8 giorni, cosa che mi produrra’ un livello di vesciche da annali dell’escursionismo, ma non ho alternative.

La giornata si srotola normalmente, pacificamente, senza highlights. Non noto praticamente nulla. Si ok, vedi le bandierine con le preghierine buddhiste ad ogni ponte, ad ogn casa, vedi i primi villaggetti, i primi sparuti insediamenti dove la gente ti importuna affinche’ tu ti fermi a bere quantomeno un te’ caldo. Queste cose mi danno gia’ l’orticaria. Decido io se e quando fermarmi, ok? Non ho bisogno di una mosca che mi giri attorno chiedendomi se voglio te’ o caffe’ o il tuo cazzo di cibo. Sono fastidiosi i locali, lo fanno per campare, ma non sono dell’umore giusto per vedere il loro lato della questione. Cammino e basta, consigliando alla mia guida di rispondere in malo modo ai prossimi marrani.
What da f***?! Copyright Emanuele Canton, 2013
 
La camminata che doveva durare circa 5h30’ fino a Lama Hotel, svolgendosi perlopiu’ nella foresta che costeggia il fiume, finisce in circa 4h. Nessuno spunto clamoroso, per oggi. Solo – e col senno di poi, non poco! – una nota positiva: reincontro una ragazza che avevo trovato in aeroporto, proveniente dal mio stesso volo da Dubai. Stavolta la saluto – e’ con la sua famiglia – le chiedo se si ricorda che eravamo in coda insieme per uscire dall’aeroporto (che scusa di merda, anche se era l’unica) e parliamo un po’. Scoprendo che Lama Hotel era anche la sua destinazione, rompo gli indugi e anziche’ affrettare il passo e andare al villaggio successivo, decido di fermarmi li. Ci saremmo visti piu’ tardi, e ne sarebbe valsa la pena. Il rovescio della medaglia pero’, e’ che arrivando prestissimo a destinazione, ho un sacco di tempo per decidere in che modo rompermi le palle. Dopo una doccia, mi trovo con due alternative: dormire o leggere la Bibbia, unico libro che ho a disposizione, regalo di un amico dalla Nuova Zelanda. Scelgo la Bibbia. La leggo con spirito costruttivo, leggendo ad alta voce di modo da esercitare anche la pronuncia inglese. Purtroppo l’edizione e’ decisamente vetusta, datando (credo, non mi e’ dato modo di saperlo con esattezza) di sicuro prima del 1900, e il vocabolario non e’ esattamente quello a cui sono abituato. E’ come far leggere Nietzsche in tedesco ad un bambino di 10 anni. Rinuncio dopo 10 minuti. Fortuna vuole che ci sia una ragazza a poca distanza da me, con cui attacco bottone e con cui finisco per bere un te’ e parlare per un paio d’ore. Almeno salvo il pomeriggio. Poi arriva la ragazza che stavo aspettando, la sua famiglia, e parlo anche con loro. Il pomeriggio si fa decisamente piacevole. Dopo esserci salutati ed esserci dati appuntamento per cena (cosa che saltera’ miseramente, spieghero’ il motivo), torno al mio posto e mi intrattengo con altri trekkers. Ordino la mia cena. La ordino al mio posto perche’, vengo a scoprire, che qui il business del cibo e’ come il narcotraffico in Calabria. Se provi a mettertici contro ti eliminano. Se discuti ti fai delle inimicizie. Il fatto e’ che le stanze sono economiche – piu’ o meno 2,5 – 3 euro a notte – ma quando una cena da due portate costa normalmente attorno ai 4 euro, e a questi si aggiunge una colazione da 3, si capisce che la parte maggioritaria del business tocca al cibo. Non esiste quindi, non esiste, che si vada a mangiare in un posto diverso da quello in cui si dorme. Se anche solo si tenta – come l’audace sottoscritto non manca di fare – il proprietario del nuovo posto chiedera’: “Dove stai?”. E tu, “In quell’altro posto”. E lui ancora, “Ma hai chiesto se puoi venire qui?”. Io, senza timore, “No, ma non c’e’ nulla di male, tranquillo, qui hai del buon cibo e voglio mangiare qua!”. La storia finira’ con lui dicendo qualcosa come “No no mi spiace ma devi mangiare di la, o almeno se lui e’ d’accordo puoi venire di qua altrimenti no mi spiace”. Ovviamente di la, il padrone non e’ mai d’accordo, e tu finisci a mangiare al tuo posto. Altrimenti finirebbe probabilmente in sparatorie – ammesso e assolutamente non concesso che girino armi da ste parti.
Lama Hotel. Copyright Emanuele Canton, 2013
La vista finalmente si apre sui monti. Copyright Emanuele Canton, 2013

Risalendo la valle. Copyright Emanuele Canton, 2013
 
Alle 7.30 del giorno dopo, con la bruma del mattino – come a dire, col freddo bestia che c’e’ per i boschi quando il sole non ha ancora scaldato l’ambiente – sono sul sentiero. Cammino bene, lanciato, fluido. Poi dopo le prime rampe, tanti, infiniti, maledettissimi gradoni, inizio a sudare anche lo spirito. E quando il sole esce allo scoperto, e’ cosa da film tragico. Anche se arrivo a pranzo alle 12.30, e sono a modici 10 minuti dalla meta di giornata sulla carta, sono provato. I gradoni influiscono pesantemente sui muscoli, che sono piu’ affaticati del dovuto, piu’ affaticati che quando sottoposti ad una regolare salita su sentiero pendente ma regolare. Inizio a sentiere segnali negativi dai piedi, cosa che non mi piace affatto, ma non ho il coraggio di togliermi le scarpe per ora. Le spalle sono discretamente rovinate, soprattutto la sinistra, e devo fare dell’esercizio per scioglierle. Mi brucia un sacco tra il ciccio e le chiappe, dove le mutande sfregano come un boyscout scemo che cerca di sfrizionare due bacchetti per accendere un fuoco. Questi sono gli effetti di scarpe nuove, zaino da 16 kg (sembra ne pesi 40 quando fai gradoni sotto il sole a 3000 metri) e una sinora gia’ rilevante distanza percorsa. Siamo attorno ai 3500 metri. Pranziamo felicemente, io prendo anche degli spaghetti al formaggio che non disdegno piu’ di tanto. Scopro un ottimo alleato nel formaggio di yak, di cui diventero’ ghiotto. Riparto dopo appena mezzora. E arrivo al villaggio successivo, Langtang, in una 15ina di minuti. Potrei/dovrei fermarmi ma no, decido di proseguire. Dove? Diciamo 2 ore e mezza piu’ avanti. Non sembra tanto, sulla carta. Sulla terra, sul sentiero, sara’ un’eternita’. Ma il mio spirito guerriero mi impedisce di sventolare bandiera bianca all’una del pomeriggio, arrendersi dopo sforzi cosi’ banali. Ho gia’ camminato attorno ai 15-18 km e scalato 900 metri di dislivello, ma voglio di piu’. Andiamo avanti. Mi pento della decisione dopo 10 minuti, e so gia’ che le 2 ore e 30 cresceranno terribilmente, persino per me che solitamente prendo i tempi di riferimento e li riduco del 40%. La marcia diventa un calvario. I dolori ai piedi si acutizzano, e sospetto terribilmente di avere una bella vescisa sul tallone sinistro, e diversi tagli (quelli non riusciro’ mai a spiegarmeli) sulle dita del piede destro. Il pre-buco del culo e’ in preda ad un incendio ormai, incendio che ha gia’ inghiottito il boyscout scemo e i suoi cazzo di bacchetti. Le spalle pero’ forse sono il punto peggiore. Non sento piu’ la spalla sinistra. Anzi, sento solo un forte dolore che cerco di alleviare stringendo sempre di piu’ la cinghia sulla spalla destra, peraltro senza effetti lodevoli. La mano sinistra poi e’ rigonfia rispetto alla destra: che stia per perdere un arto? Lo vedremo. Senza dubbio la pressione su quella spalla e’ notevole, posso solo immaginare i graffiti lasciati sulla mia schiena dalla pressione di zaino e maglietta. Sono costretto a fermarmi ogni mezzora, come una mammoletta. Se non lo faccio, mi si spezza la schiena. Eppure sono attorno ai 3600 metri in maniche corte, con un vento ora che spira perfido sul trekker sudato e agonizzante – io. Ignoro il corpo ma copro il capo con un berretto, e proseguo. Mi odio profondamente. Odio profondamente, in momenti come questi, il mio spirito competitivo, che mi porta oggi a spingere il mio fisico a livelli a cui forse non e’ abituato. Non so se sono io a perdere forma di continuo, o se mi sto spingendo sempre piu’ verso cose piu’ difficili. Ma forse la verita’ sta nel mezzo. Ad ogni modo, impreco severamente contro me stesso, le mie decisioni, la mia competitivita’. Oggi mi sta portando alla disfatta.
Poche preghiere. Copyright Emanuele Canton, 2013
 
Chiedo alla mia guida ogni 5 minuti “Quanto manca?” come un bambino diretto verso Gardaland in macchina con i suoi genitori. Mi viene il voltastomaco a pensare allo stato penoso in cui sono ridotto. A ormai pochi minuti di marcia dal villaggio sono stremato, mi siedo per terra, non ho nemmeno la forza di togliermi lo zaino, so che probabilmente non avrei piu’ il coraggio di rimettermelo addosso. Riprendo qualche misera energia per proseguire per 10 minuti, e arrivati in paese, prendo una camera nella prima guest house disponibile e crollo a letto. Abbiamo camminato per 7 ore circa, un totale stimato di forse piu’ di 25 km (teoricamente di sicuro piu’, col senno di poi), e un dislivello di 1200 metri. Ora sono a 3850 metri. Nonostante tutto, sono sopravvissuto ad un dislivello di 2400 metri in 2 giorni senza acclimatamento, ed e’ gia’ un’ottima cosa – visti gli ammonimenti che si trovano lungo la pista (cartelli e persone che tornano indietro abbattute dall’altitude sickness). Crollo comunque, inequivocabilmente, a letto. Distrutto. Tossisco e provo un male atroce alla spalla sinistra. Girandomi nel sonno, poggiando il braccio sinistro a far da leva, crollo a terra: la spalla non regge lo sforzo. Mi sento uno straccio, e provo a dormire un po’, riparandomi con le coperte dal gelido vento che spira dalle fessure sui muri di legno e sulle finestre. Mi sveglio dopo 2 ore e mezza, quando le nuvole ed un grigiore cupo avvolgono tutto il paese, che io avevo lasciato ventoso, ma soleggiato. Scendo esitante in cucina, passi felpati per non premere su vesciche e ferite. Ho per giunta dimenticato una cosa essenziale: gli infradito. Devo dunque tenere ai piedi le scarpe, cosa che aumenta la mia disperazione. Non indugio e ceno velocemente con un te’ caldo e una zuppa d’aglio. Della serie i rimedi della nonna contro ogni malessere. Mi corico poco tempo dopo, bramante sonno, riposo, e guarigione notturna di ogni mio male. Anche se la vedo molto, molto grigia per il giorno successivo.
Kyanjin Gompa, 3870 metri. Copyright Emanuele Canton 2013
 

giovedì 28 marzo 2013

Dramma nepalese


Alle 4.30 del mattino suona la sveglia – e quando suona prima delle 6, il dramma e’ profondo. Soprattutto se sei andato a dormire appena 4 ore prima. Purtroppo su Lukla solitamente si vola solo al mattino presto, quando il meteo solitamente e’ piu’ mite. Devo essere in reception alle 5, ed alle 6.15 il volo su Lukla dovrebbe lasciare Kathmandu. Ora: posso quasi dire che non me ne frega praticamente nulla di andare a vedere la montagna piu’ alta del mondo, adesso come adesso. Sono reduce da un giorno cosi’ sentimentalmente e passionevolmente super, che qualsiasi cosa (piu’ o meno) mi venisse proposta risulterebbe quantomeno scialba, se non inutile. La serata di ieri e’ passata in modo cosi’ delizioso, con una compagna cosi’ sublime, che non mi vien da pensare a null’altro, mi e’ proprio difficile concentrarmi su cio’ che dovrei fare. Figuriamoci poi se riesco ad alzarmi, dopo tutto questo e con tutto questo in testa, alle 4.30 della notte. Ma bafanculo.

[I] “Pack up my shit”, come dico spesso ormai qui, e alle 5.10 riesco ad essere pronto. Solita colazione to-go di merda e mangiata in macchina tra una buca e l’altra – le strade di Kathmandu meriterebbero un libro a parte, probabilmente intitolato “Guidare retro’: come nel 2013 si possa pensare di essere nel 1910”. Arrivo in aeroporto col freddo della notte (ed ovviamente sono in maniche corte) e al buio. Ho un sonno che mi cappotto. Entro nell’aeroporto con il minor livello di sicurezza al mondo – il local di Kathmandu ovviamente – dove l’agente che mi perquisisce mi lascia entrare con un cappello in testa, una mela in tasca e il borsello a tracolla, senza controllare nessuno dei tre oggetti. Evidentemente devono nutrire una discreta fiducia nel prossimo da queste parti, dev’essere la spiegazione. L’aeroporto sembra un carcere italiano degli anni ’60 – cioe’ praticamente un carcere italiano attuale. Sembra di essere in un film di Fantozzi. Intanto sono le 6.10, non sono mai entrato cosi’ in ritardo per prendere un volo, ma nessuno mi mette fretta qui. In effetti il mio volo e’ gia’ in ritardo, “causa maltempo a Lukla”. Ottimo inizio baby. Io fino a ieri mi ero detto, “se c’e’ una sola merda di nuvola, un filo di vento o qualcosa di peggio, non monto”. Il perche’ e’ presto detto. Il volo su Lukla e’ salito tristemente alle cronache negli anni passati, registrando abbastanza puntualmente un crash fatale all’anno o qualcosa del genere. La guida “Lonely Planet” gli dedica una  discreta pagina, menzionando amabilmente (fanculo) tutti i singoli incidenti e le vittime. Il fatto e’ che dovendo volare su un paesello arroccato sul tetto del mondo, bisogna passare alte catene montuose, correnti piuttosto potenti e tempo non sempre da cartolina, in un aereo che non e’ certo un Boeing 747. Bensi’ uno di quei catorcetti da 15 posti che verosimilmente sono stati acquistati dall’U.R.S.S. un ventennio fa. Holy shit. Di qui le mie fife. Oh, bungy lo faccio, e di notte anche, ma qui che cazzo.. la cosa e’ quantomeno sinistra. Come non bastasse il gruppo di americani che deve prendere l’aereo con me, e’ li che se la ride su cose del tipo “fotografiamo l’aereo per gli investigatori”, oppure, “ho sentito dire che l’ultima volta ne son morti 32”. Non so piu’ se imprecare o andare li a prenderli a ceffoni.

Ad ogni modo, sembra che la cosa diventi piano piano un miraggio. Infreddolito, senza possibilita’ di coprirmi – saggiamente ho imbracato lo zaino senza estrarre ulteriori layers – mi reco a pisciare una volta all’ora, ovvero piu’ o meno l’intervallo ove periodicamente posticipano il mio volo. Quindi, ogni ora parte un porcone. Dalle 6.15 alle 7.15, alle 8, alle 9, alle 10, e cosi’ via... Io alle 12.30 sono gia’ esausto – citando il mio commento su FB, “mi rompo i coglioni per aspettare il bus 5 minuti, figuriamoci ore in aeroporto a Kathmandu” – e vado in ristorante per due mo.mo di merda (i mo.mo sono praticamente dei ravioli). Il mio volo non decolla neancora. Mi viene offerto del caffelatte discreto per alleviare le mie sofferenze, ma l’unico effetto che provoca e’ la pisciata delle 13. Poi incredibilmente, alle 14, sento gli americani urlare di gioia con le braccia al cielo. Interrompo bruscamente la partita a solitario che stavo disputando sul mio preistorico Ipod (questo per darvi l’idea di come me la stessi spassando di gusto), scocciato, e realizzo che stavano annunciando l’imminente partenza del famigerato volo per Lukla. Non so se essere felice, preferivo probabilmente tornare in albergo quanto prima, mangiarmi un’anguria e farmi una doccia, che prendere un volo sapendo di dover poi – partenza alle 15 – camminare per 3 ore in montagna. Salgo sul pullmino. Sti americani eccitati li prenderei a cinghiate, mi stanno sulle palle come dei bambini gasati da una visita allo zoo. E ovviamente con i loro toni allegri sulle nostre misere possibilita’ di arrivare vivi a Lukla, non fanno altro che farmi protendere alla mazza chiodata piuttosto che alla cinghia. Il pullmino ci deposita ai piedi dell’aereo. Saliamo con calma. Prendo un tega da libri di storia mentre entro: non sono abituato ad un aereo da nani, e dimentico di pronare il capo, guadagnandomi del male. Fa niente. Mi siedo davanti, dove ho modo di vedere il pilota e l’attrezzatura a lui a disposizione. Penso che forse l’U.R.S.S. a sua volta aveva comprato l’aereo da qualche oscura nazione attorno al 1950 prima di venderlo al governo nepalese, da quello che mi passa del quadro comandi. Mi faccio un bel segno della croce, dico le mie ultime preghiere, e mi butto sul finestrino cercando di dormire. Decolliamo. Dopo 5 minuti ho un orecchio che sembra avere un choido ficcato dentro e il cervello ha perso la meta’ delle sue capacita’ cerebrali in seguito alle vibrazioni che la mia testa, appoggiata alla parete, deve subire. Mi viene offerta una caramella al mou, che credo dati piu’ o meno l’eta’ della compravendita dell’aereo da parte dell’U.R.S.S.. La mia ultima caramella. Riprendo a dormire. Vengo svegliato da una figa nepalese (la hoostess – ebbene si, ci sono hostess anche sugli aerei dei nani) che mi dice che stiamo invertendo rotta e tornando a Kathmandu, perche’ il tempo e’ ancora cattivo. Ora, di nuovo: due considerazioni. Uno, non mi cambia na verga. Anzi son quasi contento dopotutto, mi sento piu’ tranquillo. Secondo: emeriti ignoranti capre ruminanti, cosa sara’ cambiato in mezzora? 30 minuti prima si annuncia il decollo – immagino il solleone che c’era a Lukla! – e in 30 minuti ci sara’ stato l’apocalisse! Ma figuriamoci. Annullare il volo alle 12 pareva brutto? Mi sembra che la capacita’ di gestire questa situazione sia quella che avrebbe un bambino di 8 anni che collauda la sua nuova pista dei treni e fa scontrare due treni su uno stesso binario. Sono perplesso. Torniamo all’aeroporto italiano degli anni ’60, faccio su i miei bagagli, vado vicino a spaccare il muso ad un tassista locale. Sono piu’ fastidiosi delle mosche mentre sei seduto al cesso a defecare. Questo brutto ceffo mi chiede 3 volte se voglio un taxi, mentre passeggio aspettando la mia auto privata. Alla 3 volta mi fermo, lo incenerisco con lo sguardo, e politicamente gli dico, “E daje, 3 volte. Se mi serve un taxi te lo chiedo io, non tu, ok?”. Bestie.

Attendo 10 minuti sotto il sole, il mio zaino da 16 kg (pesati in aeroporto) sulle spalle. Vengo fatto su dalla mia auto privata, quella della compagnia di trekking, che mi porta verso un nuovo albergo. Sto scalando vette qui, in quanto a lussuosita’ delle mie residenze: qui mi portano su le valigie, mi sorridono come fossero una banda di froci, mi danno una chiave il cui portachiavi credo sia un monile d’oro risalente al tempo degli Aztechi. Ma – siccome sono lussuosi mi fanno pagare il wi-fi. Luridi figli di. Gli auguro tanto del bene. Prima di salire in camera pero’, parlo con il manager della compagnia, e gli annuncio la mia decisione: NON parto piu’. Ne domani ne un altro giorno. Non so perche’, ma ho maturato questa decisione. Sara’ in parte lo scoramento dovuto ad una giornata del genere, il terrore di doverla rivivere il giorno dopo, la sensazione non troppo positiva sul volo, la stanchezza di girare qua e la per cosi’ brevi periodi, la voglia di riposare, il pensiero di rivedere la mia compagna della sera precedente quanto prima. Tutte queste cose fanno sembrare mount Everest il Sasso Piatto. Mi spiace. Statisticamente, perdo due cose con questa decisione: vedere la montagna piu’ alta del mondo, e arrivare sopra quota 5000 metri a piedi. Oggi pero’ non mi da cosi’ fastidio la cosa. Forse un giorno lo realizzero’ e mi mordero’ la lingua, ma a volte con queste cose – soprattutto con i sentiment – e’ meglio non scherzare troppo. Vado diretto in camera dove non cerco altro che acqua, una doccia, e un letto. Ho solo voglia di conservare le energie necessarie per andare in pizzeria a farmi una pizza piu’ tardi, e poi crollare a letto a dormire.

Ah, dimenticavo, una terza cosa perdo per le statistiche: essere sopravvissuto ad un volo su Lukla (della Yeti Airlines). Ma ho come l’idea che di questa riga possa fare volentieri a meno.

sabato 16 marzo 2013

Primi passi in Asia


Da ieri, posso dire di esser stato in 4 dei 5 continenti, ormai mi manca solo l’Africa (e il Sud Africa e’ nella lista).

La mia esperienza in Asia si traduce finora in un solo, striminzito giorno a Kathmandu, Nepal – un po’ riduttivo per iniziare a trarre conclusioni e a sferzare pareri su questo o quell’altro aspetto della vita qui. Ma il giorno che ho vissuto (giorno, lo calcolo comprendendo la sera dell’arrivo e il mattino seguente!) e’ stato cosi’ intenso, cosi’ pieno di emozioni e sentimenti che mi riesce difficile trattenere il mio impulso scrivente (o scrittore, fate voi, avevo un italiano pessimo e lo sto solo peggiorando!).

Dopo un volo ENDLESS da Christchurch a Sydney, da Sydney a Bangkok (sono addirittura rimasto in aereo nell’ora che e’ passata per rifornimento/imbarco – ma son riuscito a percepire l’umidita’ thailandese solo dai portelloni aperti!), da Bangkok a Dubai (caldissima, ricchissima Dubai – son riuscito a vedere quel mega-iper grattacielo da credo 7-800 metri, spaccava le nubi!), e infine da Dubai a Kathmandu, atterro nella valle attorno alle 6 di sera. Kathmandu e’ citta’ da 3 milioni e mezzo di persone circa, adagiata nella valle che porta il suo stesso nome, valle verde, immersa fra i monti, “rovinata” da questo ammasso caotico e colorato di palazzi e infrastrutture. L’aereo da cui non vedo l’ora di uscire manovra dolcemente al calar del sole, lasciando intravedere al fortunato passeggero una vista che sembra vergine su montagne inverdite da infiniti boschi, che si oscurano man mano che il sole scende e a sua volta assume un color rossastro, che sfuma in violetto sulle nuvole, sulla foschia che copre i piedi delle montagne. Una scena idilliaca, a cui manca solo un po’ di musica del posto, con quelle specie di violini che producono quel suono cosi’ forte, incisivo, persuadente, ammaliante. Immagino gia’ la terra, terra di monaci, di templi, di meditazione, questa musica a farmi da sottofondo. Quando c’e’ da trippare io ci sono sempre, e sebbene dovessi ancora smontare da quel maledetto aereo, avevo gia’ percorso centinaia di chilometri in Nepal.

Dopo aver sbrigato le pratiche burocratiche ad aver sborsato 40 dollari americani per il mio visto da 1 mese, esco dall’aeroporto e vengo assalito da una masnada di beceri tassisti che mi importunano offrendomi i loro servigi. Li mando a fare in culo uno ad uno, e invece indico il mio autista, colui che sventola un A4 bianco con scritto “Emanuel”. E’ chiaro che il mio nome in inglese non viene recepito correttamente. Poche cordialita’, domando subito se c’e’ una fottuta cena ad aspettarmi in albergo, e ci dirigiamo – guidando per la citta’ gia’ oscura – verso l’hotel. L’avessi mai fatto. Essendo montato dietro ho tutto lo spazio e il tempo di mostrare le espressioni piu’ raccapriccianti, sconcertate, impaurite che potessi produrre. Il viaggio e’ un po’ un’introduzione al posto, alla cultura, al modo di vivere. Vedo poco asfalto, anzitutto. Piu’ sassi, sabbia e buche, un’infinita’ di buche. Questo sono le strade. Si dovrebbe guidare a sinistra, e cosi’ fa la maggior parte della gente, anche se poi quando c’e’ da sorpassare o da andar di fretta, va bene anche la corsia opposta. Tanto di linee non ce n’e’ manco l’ombra. Una cosa palese e’ il numero sconsiderato di motociclette, tipicamente cosa asiatica. Moto, e bici. La strada e’ di tutti, poco importa se hai una ferrari (improbabile, anzi impossibile), una honda o un triciclo sotto il culo. E c’e’ una sola regola, in queste strade: cercare di non farsi del male – e possibilmente di non farlo ad altri, ma quello e’ un dettaglio. Mentre l’autista prende scorciatoie che fossimo in Messico comporterebbero minimo una pallottola in testa a tutti e tre, vedo un sacco di gente che cammina a bordo strada, dove per l’assenza di marciapiedi ti ritrovi a passare a cm 1,5 da una marea di macchine e moto. Vedo gente che si raduna attorno a bancarelle ignominiose, a chioschi stradali che vendono cibo che non toccherei nemmeno con un guanto, a fuochi spontanei che lasciano a fatica intravedere la sporcizia e la miseria che sta subito dietro. Prendendo una strada (mulattiera, direi) in discesa, vedo un bambino che stimo avere 7 anni cavalcare una bici instabile, dirigendosi giu’ dalla strada, fronteggiando macchine in entrambi i sensi di marcia, impietosi e infischiantesi del lasciar passare prima il fanciullo o di fargli “il pelo” passandogli vicino. Devi essere sveglio qui, capisco subito, se vuoi muoverti senza rischiare la pellaccia ogni volta. Arrivo in albergo semi basito. Ho gia’ visto parecchio, credo. Ma ho talmente tanto sonno che, incredibilmente, rinuncio alla cena (che tanto non era li ad aspettarmi), alla doccia e a qualsiasi altra cosa, in favore di un sano, lungo sonno ristoratore. Sono piu’ o meno 45 ore che non tocco qualcosa simile ad un letto, e devo dire che la sensazione e’ appagante.

Oggi, giorno astrale 16 marzo 2013, mi aspetta un tour della citta’. Anzi, a dire il vero vengo a saperlo dopo colazione, ma fa niente. Faccio colazione sul tetto dell’albergo (qui va di moda fare le cose sul tetto, dicono sia panoramico, anche se quel che vedo e’ un sacco di altri tetti e un po’ di foschia), colazione modesta peraltro. Un toast, due uova, un po’ di patate, una banana. Stop. Io non mangio qualcosa di solido da circa (credeteci o no) 21 ore, e uno stuzzichino simile non puo’ certo lenire la mia fame. Chiedo cortesemente qualcosa in piu’, optando per un pancacke. Me ne viene servito uno di numero, il che ancora non cancella i crampi allo stomaco. Ma fa niente, devo anche capire che non sono nel paese degli sprechi alimentari (USA) quindi non posso star qui a gradire cibo a piu’ non posso. Per oggi passo la mano, sperando in tempi migliori – vedi stasera, sgancero’ qualche dollaro in piu’. Dopo colazione incontro il manager della compagnia di trekking, il quale mi illustra il programma della giornata, che in realta’ decide con me, e gli ultimi dettagli sul trek. A quanto pare, avro’ un autista personale che mi seguira’ oggi, e mi portera’ piu’ o meno ovunque vorro’ in citta’. Fico! Dopo pochi minuti sono in macchina diretto verso una miriade di tempi e altre bestie sacre. A quanto pare ci sono 5 posti che se non visiti, non puoi dire di aver visitato Kathmandu. Ecco, io a fine giornata sono arrivato a 4 su 5, ma non me ne frega un cazzo del 5, piu’ o meno parevano tutti la stessa cosa (grande inizio in Asia, bella Manu). Comunque, la giornata per strada inizia alla grande: dopo neanche 5 minuti, passando nella ormai gia’ solita, caotica, trafficata stradina, il mio autista colpisce in pieno con lo specchietto un passante. Manco si ferma ovviamente, e tanti saluti. Stupendo, solo qui accade. Queste son le cose che dovrebbero mostrare ai turisti, altro che. Un marchio di fabbrica del posto. Vengo mollato giu’ al primo tempio (non riporto nessun nome perche’ non ho la “cagna” di prendere la cartina e farlo. Sono molto poco professionale ma se cio’ non vi va, andate a cagare), ed e’ gia’ avventura. Dico, girare per un tempio, con monaci tibetani, gente che prega, gente che fotografa, gente che suona il flauto, gente che brucia qualcosa a qualche dio.. beh, fa uno strano effetto. Vedi sporcizia ovunque, poi. Non sono il genere di posti con cui sei familiare. Io faccio un po’ di foto, confuso, straniato, ed esco. Non ci capisco granche’. E cosi’ con tutti gli altri templi. Quello induista poi, un gran macello. Voglio dire, bello architettonicamente, ben rifinito, il tetto di uno e’ tutto d’oro puro per giunta. Ma quel che ci sta attorno: monaci dipinti di rosso e giallo, con barbe lunghe fin per terra, che appena ti avvicini mendicano foto in cambio di qualche soldo. Manco per scherzo, ci penso. Odio queste cose. In giro, attorno a me, un sacco di hindu che pregano. Gente che si butta a terra, gente che fa cerimonie con del cibo sospetto, gente che brucia i corpi dei morti. Assisto ad una cremazione live, e una guida (che io peraltro non ho assoldato ma che mi segue perche’ cosi’ ha deciso) mi spiega che prima si brucia la bocca e cio’ che c’e’ all’interno, e poi il resto del corpo. E tante altre cose mi spiega, a me non puo’ fregare manco di niente del tutto e faccio altro che annuire, ogni tanto spezzando con un “Oooh nice!” che vuol dire piu’ o meno “non me ne sbatte una bega”. E quando vedi gente che brucia altra gente – peraltro con indosso bei vestiti e gioielli – gente che si tinge la faccia di giallo, gente che si sdraia per terra, gente che si bagna in un fiume dove non avrei il coraggio nemmeno di sputare, capisci che il tuo Dio e’ quello giusto (cattiva questa, ma credetemi, per quanto mi riguarda ci sta).

Mentre una cremazione sta prendendo parte invece, poco piu’ a valle nel fiume – dico dentro il fiume – un trio di ragazzi ventenni scavano e setacciano il fondo in cerca di monili e gioielli appartenuti ai corpi cremati. Si perche’ cremando i corpi e spargendo le cenerei nel fiume, anche i gioielli prendono la stessa direzione, ed ecco che questi “avvoltoi” cercano fortuna in quelle acque venefiche. Coraggio, dico io. La scena mi lascia alquanto sgomento. Lascio cosi’ il tempio induista, con la guida non voluta che mi domanda alla fine del gioco 1000 rupie (10$). Gli rispondo che uno non l’ho mai voluto tra i piedi, due che dieci dollari non li ho (bugia stratosferica) e tre che dieci dollari non glieli darei comunque manco morto, e che se vuole accontentarsi di 150 rupie bene, altrimenti non gli avrei dato nemmeno quelle. Dopo un po’ di rogne accetta, io gli consiglio di chiarire il suo tariffario prima di assillare la gente, lui accetta volentieri il mio consiglio e mi saluta contento. Ho fatto del bene anche oggi. Gli ho insegnato la trasparenza!

Sulla via di casa, dopo il tempio X ed Y, sono stanco e accaldato. Pensavo di trovare qualcosa tipo 15-20 gradi ma credo ve ne siano attorno ai 30. La gente vende cocco e angurie per strada ed io, dopo qualche remora sulla provenienza delle angurie, ne acquisto una per un euro in pratica. Le remore sulla provenienza delle angurie te le fai eccome, se pensi a quel che c’e’ in giro. Vedo campi coltivati ad immondizia. Fiumi le cui sponde son coperte da sacchi, sacchetti, stracci e straccetti che riempirebbero una discarica. Su un ponte c’e’ una mucca, sotto quella mucca, sul fiume, c’e’ una carcassa, di una mucca. Il fiume sembra un fiume di merda. Credo escano gli spettri da quelle acque. Non oso immaginarmi il Gange, zio c. Per strada poi, vedi parecchie cose: ad un incrocio ad esempio, uno scemo col suo chioschetto offre i suoi servizi da barbiere. Ora dico, come cazzo pretendi che un becero si fermi da te, in mezzo alla strada, a farsi sbarbare mentre si ciuccia un quintale e mezzo di polvere e smog?! Ti e’ andato di volta il cervello?! Bah.

Nell’ultimo tempio invece, quando sto gia’ piu’ pensando alla scorpacciata di anguria che andro’ a farmi piu’ che al tour della citta’, vedo le scimmie. Sono l’unica differenza dal tempio precedente. Potrete pensare che sono un osservatore grezzo e disattento, e la cosa e’ verosimile. Ma che palle oh, vedere 4 piere tirate su e colorate di bianco, con un elefante davanti e un tipo a milleottocento braccia dietro (nel caso, Ganesh e Kali’). Ed anche se sentire dalle solite guide non autorizzate le storie delle varie divinita’ mi piaccia – del tipo sentire che Ganesh, la divinita’ che impreco di piu’ (famoso il mio “porco Ganesh”), e’ un simpatico e gentile elefante reincarnazione di Shiva – dopo un po’ mi scasso le palle. E’ troppo incasinato, lurido e puzzolente a tratti. Le scimmie qui vagano ovunque e si nutrono degli scarti della gente. L’unica cosa che differenzia le scimmie da tanto bambini per strada qui, purtroppo, e’ che le scimmie non indossano vestiti. Poi basta.

Esco dal tempio  e mi faccio guidare verso casa. Salgo in albergo con la mia angurietta che divoro in 5 minuti sul tetto dell’albergo. E’ panoramico! E sopra la tettoia che mi fa da schermo solare c’e’ uno stormo di piccioni. Zio can. Mandala, Shangri-La, ciucia qui e ciucia la.. no, finora, non ci sono proprio dentro, diciamo.

martedì 12 marzo 2013

Leaving New Zealand


All good things come to an end. Cosi’ dicono, e cosi’ e’.

E cosi’ mi trovo a lasciare la Nuova Zelanda, 142 giorni dopo il mio arrivo ad Auckland in un caldo pomeriggio di fine novembre. Fine primavera, in pratica. Ho lasciato l’Italia un tiepido pomeriggio di meta’ autunno per andare incontro ad un’estate paurosamente calda, soleggiata, piena di vita, in questo paese.

Ho guidato la mia carretta – la mia ex- Honda Integra ’91 – per piu’ di 8800 km su e giu’ per il paese, prendendo il traghetto che collega North Island a South Island per 3 volte. Ho camminato per circa 280 km perlopiu’ in paesaggi montani di rara bellezza, aspri e selvaggi. Ho distrutto le mie adorate scarpe da trekking peraltro.

Ora, non sto qui ad elencare tutte le cose che ho fatto perche’ mi porterebbe via troppo tempo. Non sto qui ad elencare tutte le vicende che mi hanno visto protagonista – mi ci vorrebbe un libro solo per quelle. Eppure, ripenso ad alcune cose, skydiving, caving, giro in elicottero, la jetboat, la Milford Track.. la sorpresa fatta ad una persona che forse non lo meritava – aereo, fino a North Island, autostop per 400km andata piu’ ritorno, in 4 giorni – le persone magnifiche che ho incontrato..

Voglio dire, ho bellissimi ricordi qui. E non ho nominato ancora il posto dove son stato per 3 mesi, il posto che e’ stato casa mia, Glenorchy.

In un posto dove chissa’ quanta gente viene per visitare i luoghi dove si e’ girato “Il signore degli anelli”, o dove tanta altra gente viene per camminare le numerosissime trails in queste bellissime montagne, io ho vissuto per 3 mesi. E ho lavorato nella lodge #1 in Nuova Zelanda. Da panico eh?!

Ebbene, dopo aver conosciuto milionari che mi hanno invitato a casa loro, persone che mi hanno elogiato per la mia professionalita’, per la mia persona in se’, e che si son dette addirittura disposte ad aiutarmi per farmi ottenere un visto di lavoro per gli USA, e dopo tante altre cose.. si, posso dire che e’ stato da panico. E’ stata l’occasione che capita una volta nella vita, e prendendola al volo, ho fatto un’affare.

Mi ritengo privilegiato ad aver avuto la fortuna di lavorare in questa lodge, con queste persone, per questi padroni. Sono sempre andato a lavoro sorridendo, e non mi sono mai arrabbiato. Son felicissimo per l’esperienza fatta, per le competenze guadagnate, per i momenti trascorsi. Ho imparato addirittura due lavori! E le tante persone che mi hanno elogiato o che mi vorranno addirittura aiutare, testimoniano che la mia parte, probabilmente l’ho svolta bene. Di questo sono orgoglioso.

Ora, seppur con un po’ di tristezza, e’ tempo di rimettere lo zaino in spalla.

Mi attende il tetto del mondo, un’altra cosa da depennare nel mio sterminato elenco di cose da fare, posti da vedere. L’Everest, mi attende. E poi.. beh, e poi l’avventura di una vita, un epico tour degli Stati Uniti che non vedo l’ora di cominciare!

Parto con la consapevolezza di aver lasciato una buona impressione qui, e con la consapevolezza – notevole per i tempi che corrono eh? – di poter un giorno tornare, ed essere riaccolto in famiglia a braccia aperte!

Saluti,

Manu