venerdì 29 marzo 2013

Hiking Langtang valley


Quando domenica 17 marzo mi sveglio all’alba, in una Kathmandu ad ogni modo gia’ caotica e indaffarata, sono in un misto di sentimenti e feelings che non fanno certo trasparire enorme gioia e rampante entusiasmo. Alle 7 ho il bus verso Syaphru Besi, un paesotto all’inizio della Langtang valley, dove si svolgera’ il trek che devo intraprendere. Mentre butto giu’ una colazione to-go tra le buche della strada che mi porta alla stazione degli autobus (stazione.. chiariamo la cosa: una specie di isola stradale dove si ammassano pullmini e bus e dove la gente aspetta) non sono decisamente eccitato. Sono assonnato e ancora perplesso su questa citta’. E la colazione to-go – un croissant del dopoguerra e una banana formato mignon quel che mangio, tralasciando una mela avvizita e un succo scaduto da 3 mesi – non mi fa certo mettere su un bel sorriso. Avrei preferito una colazione da Mac Donald, e questo dice tutto. Arrivati in stazione, entra in gioco la mia guida, Binod, un ragazzo di 23 anni che mi accompagnera’ in questo trek. Lui inizia subito a procacciarmi un posto sul bus, anche se siamo comunque muniti di biglietti. Ed ora, chiarisco un’altra cosa. Vi spiego cos’e’ un bus qui, perche’ vederli in tv e’ un conto, entrarci e’ un’altro paio di maniche. Qui tutto funziona in modo abbastanza grossolano: no cartelli, no regole, no cose scritte. Si fa tutto a voce, si tratta su tutto, non c’e’ nulla di fissato. Nemmeno gli orari o i numeri dei bus. Io non riuscirei a capire la differenza fra l’uno e l’altro – cosa che di per se’ vale gli extra dollari spesi per avere una guida! – e potrei beatamente finire in India essendo convinto di andare a Langtang. Buon per me che ci sia un locale che si smazza per “mossignoria”. I bus sono delle specie di grossi van adibiti al trasporto di persone e cose, perche’ se dentro ci son persone, sul tetto ci sono cose. Qui una tratta di bus non viene sprecata solo per trasportare esseri umani, bisogna massimizzare il tutto. E mentre sul tetto vengono caricati gli zaini (caricati, direi meglio lanciati) e le casse di viveri, dentro salgono le persone. E salgo anch’io, solo dopo aver realizzato con orrore che nello zaino lanciato sul tetto c’era anche la mia reflex. Dopo qualche parolaccia la ritiro dallo zaino, me la tengo stretta, e salgo anch’io a bordo. Mi spetta – che culo! – il posto in angolo in fondo al mezzo. You know, dalle parti di Padova e in Italia in genere ho idea, quando si e’ giovani e si va alle scuole superiori, quello sarebbe il posto dei fichi no, di quelli che stanno in fondo al bus come stanno in fondo sui banchi di scuola. Ecco, mandate a fanculo il concetto in Nepal. E’ il posto del condannato a morte questo. Lo scopro malamente dopo pochi minuti dalla partenza, in ritardo di tipo 35 minuti. Ma come ho detto, tanto orari non ce ne sono qui, nessuno se ne sbatte tanto. Partiamo, e usciamo da Kathmandu dopo poco. Inizia la strada NON asfaltata. Buche ogni 10 secondi circa. L’autista sembra gagliardo, termine che non vuole essere inteso come “forte, in gamba”, ma come “pazzo scatenato”. Accelerazioni da carcere a vita, slalom fra bici e passanti inermi, cospicuo uso del clacson – peraltro non un clacson qualsiasi, ma uno con una suoneria che mi ricorda molto la macarena. Dopo 3 suonate di clacson vomiti dal culo. Ed io, gia’ immerso in questi pensieri, realizzo la cruda verita’ sulla sorte che mi aspetta: 7 fottutissime ore di viaggio in questo trabbiccolo, dove ad ogni buca sbatto la testa sul tettuccio e non posso appoggiare la schiena al sedile altrimenti sarebbe addirittura peggio. Si perche’ la cosa fantastica del mio posto e’ che mentre non so per qual motivo l’intero sedile posteriore verso l’angolo sale, il tettuccio addirittura spiove verso il basso, causando una notevole riduzione di spazio disponibile. Ed io, che non sono un giocatore di basket ma nemmeno un cinese, ne traggo dello svantaggio (per dirla senza parolacce). Dopo un’ora passata con schiena piegata in avanti ed una mano costantemente in tensione a reggere il sedile davanti per evitare di finirci contro e fratturarmi il setto nasale, sono gia’ al limite. Rischio seriamente di vomitare. Ho una mano che mi si e’ cancrenizzata in quella posizione, sembro avere il braccio di un koala. Ho il pollice opponibile. Impreco come un cane. Ma il destino non mi vuole ancora alla fine, ed ecco che un caparezza-style guy si alza dal posto davanti a me, un sedile qualunque sull’interno che a me sembrava una poltrone deluxe, e si sdraia letteralmente sul corridoio. I miei compari di sventura mi invitano a prendere il suo posto, viste le mie atroci sofferenze. Da tough guy che sono provo a dir loro che non importa, che reggero’, ma realizzata la bestialita’ detta mi fiondo con tempismo sul posto e mi ci insedio felicemente. Credo di non aver mai provato una sensazione cosi’ bella in vita mia. Rilassante, calmante, piacevolmente comodo. Come andare a letto dopo 30 ore. Da li il viaggio cambia, gira di 180 gradi. Mi trovo a mio agio ora. Le buche sembrano ormai ordinaria amministrazione, anche se effettivamente guardando dal finestrino sembrano crateri lasciati da diversi meteoriti. C’e’ gente lungo la strada che scava buche non so a che scopo, gente che spazza una strada in realta’ formata da polvere (dov’e’ il senso?!), gente che spacca pietre (lavori forzati o gente che non ha una sega da fare?). Il nostro autista li evita con brio per pochi millimetri ogni volta. Io sudo pezzi di ghiaccio. Soprattutto quelle rarissime, sventurate volte che il mio occhio indugia sul lato sinistro della strada, quello che da sul dirupo: un salto su campi di riso e terrazzamenti che stimo sulle diverse centinaia di metri (facciamo 3-400? No forse 5-600!). Mi do uno schiaffo per costringermi a guardare altrove. L’idea di essere sul pullmino della morte con il diavolo come autista – e non in un Interstate del Dakota ma in una strada di montagna nepalese – mi fa accapponare la pelle del ciccio. Facciamo solo uno stop pranzo lungo la via, tutti scendono e un losco figuro ci conduce tutti dentro al suo posto, una stamberga semiobuia e fatta di nudo cemento che mi ricorda la stalla di mia nonna. A tutti viene subito portato del cibo, servito al volo. Io dico alla mia guida, “gentili qui, sfamano la gente a gratis eh?!”. Poi lui mi spiega che in realta’ poi il cibo verra’ fatto pagare – cosa che mi rende perplesso sulla democrazia del sistema. Io comunque rifuto il cibo – sono ancora versione signorino – e mi reco a far due passi per il paesello.
Il pullmino della morte durante la sosta. A destra, la pappatoia del losco figuro. Copyright Emanuele Canton, 2013

Provo ad acquistare dei biscotti al cocco che scopro dopo casuale controllo essere scaduti 4 mesi prima. Ringrazio la signorina per il tentativo (tutti i pacchetti esaminati erano scaduti da almeno 3 mesi) e me ne torno in bus. Per ora meglio stare a pancia vuota. Arriviamo a destinazione, VIVI, alle 3 del pomeriggio. Ricordo di aver (quasi) baciato terra una volta arrivato. Prendo la mia merda e me ne vado in hotel. Syaphru Besi: altezza 1400 e rotti metri, paesello pre-montano colorato e brulicante di vita. Case cadenti, un’unica via, solo lodges e guest houses. 2 hotel che chiamare hotel e’ offendere la categoria. Ma c’e’ il wi-fi, e almeno passo la serata bene, parlando con l’Italia da un paesino sperduto in una vallata nepalese, e mangiando torta di mele come dessert.
Syaphru Besi, tramonto. Copyright Emanuele Canton, 2013
 
Il giorno dopo sono eccitato: si parte finalmente, si cammina, si esplora. Vediamolo sto tetto del mondo. Non sono al livello dei giappi: ogni tanto se ne vede qualche delegazione qui, sembrano matrioske. Eserciti di giappi vestiti tutti allo stesso modo, talvolta di verde, come fossero pronti ad un’esercitazione militare. Zainetti uguali, guanti anche con 30 gradi senza nuvole, cappelli falda larga, occhiali da sole modello Man in Black, walking sticks e raggio paralizzante. Quest’ultimo l’ho solo supposto io. Il mio livello d’entusiasmo pero’ li supera, forse. Parto lanciato, il mio zaino da 16 kg in spalla, le mie nuove scarpe da trekking ai piedi. So gia’ di fare una macacata terribilmente perniciosa usandole per la prima volta in un trek di 8 giorni, cosa che mi produrra’ un livello di vesciche da annali dell’escursionismo, ma non ho alternative.

La giornata si srotola normalmente, pacificamente, senza highlights. Non noto praticamente nulla. Si ok, vedi le bandierine con le preghierine buddhiste ad ogni ponte, ad ogn casa, vedi i primi villaggetti, i primi sparuti insediamenti dove la gente ti importuna affinche’ tu ti fermi a bere quantomeno un te’ caldo. Queste cose mi danno gia’ l’orticaria. Decido io se e quando fermarmi, ok? Non ho bisogno di una mosca che mi giri attorno chiedendomi se voglio te’ o caffe’ o il tuo cazzo di cibo. Sono fastidiosi i locali, lo fanno per campare, ma non sono dell’umore giusto per vedere il loro lato della questione. Cammino e basta, consigliando alla mia guida di rispondere in malo modo ai prossimi marrani.
What da f***?! Copyright Emanuele Canton, 2013
 
La camminata che doveva durare circa 5h30’ fino a Lama Hotel, svolgendosi perlopiu’ nella foresta che costeggia il fiume, finisce in circa 4h. Nessuno spunto clamoroso, per oggi. Solo – e col senno di poi, non poco! – una nota positiva: reincontro una ragazza che avevo trovato in aeroporto, proveniente dal mio stesso volo da Dubai. Stavolta la saluto – e’ con la sua famiglia – le chiedo se si ricorda che eravamo in coda insieme per uscire dall’aeroporto (che scusa di merda, anche se era l’unica) e parliamo un po’. Scoprendo che Lama Hotel era anche la sua destinazione, rompo gli indugi e anziche’ affrettare il passo e andare al villaggio successivo, decido di fermarmi li. Ci saremmo visti piu’ tardi, e ne sarebbe valsa la pena. Il rovescio della medaglia pero’, e’ che arrivando prestissimo a destinazione, ho un sacco di tempo per decidere in che modo rompermi le palle. Dopo una doccia, mi trovo con due alternative: dormire o leggere la Bibbia, unico libro che ho a disposizione, regalo di un amico dalla Nuova Zelanda. Scelgo la Bibbia. La leggo con spirito costruttivo, leggendo ad alta voce di modo da esercitare anche la pronuncia inglese. Purtroppo l’edizione e’ decisamente vetusta, datando (credo, non mi e’ dato modo di saperlo con esattezza) di sicuro prima del 1900, e il vocabolario non e’ esattamente quello a cui sono abituato. E’ come far leggere Nietzsche in tedesco ad un bambino di 10 anni. Rinuncio dopo 10 minuti. Fortuna vuole che ci sia una ragazza a poca distanza da me, con cui attacco bottone e con cui finisco per bere un te’ e parlare per un paio d’ore. Almeno salvo il pomeriggio. Poi arriva la ragazza che stavo aspettando, la sua famiglia, e parlo anche con loro. Il pomeriggio si fa decisamente piacevole. Dopo esserci salutati ed esserci dati appuntamento per cena (cosa che saltera’ miseramente, spieghero’ il motivo), torno al mio posto e mi intrattengo con altri trekkers. Ordino la mia cena. La ordino al mio posto perche’, vengo a scoprire, che qui il business del cibo e’ come il narcotraffico in Calabria. Se provi a mettertici contro ti eliminano. Se discuti ti fai delle inimicizie. Il fatto e’ che le stanze sono economiche – piu’ o meno 2,5 – 3 euro a notte – ma quando una cena da due portate costa normalmente attorno ai 4 euro, e a questi si aggiunge una colazione da 3, si capisce che la parte maggioritaria del business tocca al cibo. Non esiste quindi, non esiste, che si vada a mangiare in un posto diverso da quello in cui si dorme. Se anche solo si tenta – come l’audace sottoscritto non manca di fare – il proprietario del nuovo posto chiedera’: “Dove stai?”. E tu, “In quell’altro posto”. E lui ancora, “Ma hai chiesto se puoi venire qui?”. Io, senza timore, “No, ma non c’e’ nulla di male, tranquillo, qui hai del buon cibo e voglio mangiare qua!”. La storia finira’ con lui dicendo qualcosa come “No no mi spiace ma devi mangiare di la, o almeno se lui e’ d’accordo puoi venire di qua altrimenti no mi spiace”. Ovviamente di la, il padrone non e’ mai d’accordo, e tu finisci a mangiare al tuo posto. Altrimenti finirebbe probabilmente in sparatorie – ammesso e assolutamente non concesso che girino armi da ste parti.
Lama Hotel. Copyright Emanuele Canton, 2013
La vista finalmente si apre sui monti. Copyright Emanuele Canton, 2013

Risalendo la valle. Copyright Emanuele Canton, 2013
 
Alle 7.30 del giorno dopo, con la bruma del mattino – come a dire, col freddo bestia che c’e’ per i boschi quando il sole non ha ancora scaldato l’ambiente – sono sul sentiero. Cammino bene, lanciato, fluido. Poi dopo le prime rampe, tanti, infiniti, maledettissimi gradoni, inizio a sudare anche lo spirito. E quando il sole esce allo scoperto, e’ cosa da film tragico. Anche se arrivo a pranzo alle 12.30, e sono a modici 10 minuti dalla meta di giornata sulla carta, sono provato. I gradoni influiscono pesantemente sui muscoli, che sono piu’ affaticati del dovuto, piu’ affaticati che quando sottoposti ad una regolare salita su sentiero pendente ma regolare. Inizio a sentiere segnali negativi dai piedi, cosa che non mi piace affatto, ma non ho il coraggio di togliermi le scarpe per ora. Le spalle sono discretamente rovinate, soprattutto la sinistra, e devo fare dell’esercizio per scioglierle. Mi brucia un sacco tra il ciccio e le chiappe, dove le mutande sfregano come un boyscout scemo che cerca di sfrizionare due bacchetti per accendere un fuoco. Questi sono gli effetti di scarpe nuove, zaino da 16 kg (sembra ne pesi 40 quando fai gradoni sotto il sole a 3000 metri) e una sinora gia’ rilevante distanza percorsa. Siamo attorno ai 3500 metri. Pranziamo felicemente, io prendo anche degli spaghetti al formaggio che non disdegno piu’ di tanto. Scopro un ottimo alleato nel formaggio di yak, di cui diventero’ ghiotto. Riparto dopo appena mezzora. E arrivo al villaggio successivo, Langtang, in una 15ina di minuti. Potrei/dovrei fermarmi ma no, decido di proseguire. Dove? Diciamo 2 ore e mezza piu’ avanti. Non sembra tanto, sulla carta. Sulla terra, sul sentiero, sara’ un’eternita’. Ma il mio spirito guerriero mi impedisce di sventolare bandiera bianca all’una del pomeriggio, arrendersi dopo sforzi cosi’ banali. Ho gia’ camminato attorno ai 15-18 km e scalato 900 metri di dislivello, ma voglio di piu’. Andiamo avanti. Mi pento della decisione dopo 10 minuti, e so gia’ che le 2 ore e 30 cresceranno terribilmente, persino per me che solitamente prendo i tempi di riferimento e li riduco del 40%. La marcia diventa un calvario. I dolori ai piedi si acutizzano, e sospetto terribilmente di avere una bella vescisa sul tallone sinistro, e diversi tagli (quelli non riusciro’ mai a spiegarmeli) sulle dita del piede destro. Il pre-buco del culo e’ in preda ad un incendio ormai, incendio che ha gia’ inghiottito il boyscout scemo e i suoi cazzo di bacchetti. Le spalle pero’ forse sono il punto peggiore. Non sento piu’ la spalla sinistra. Anzi, sento solo un forte dolore che cerco di alleviare stringendo sempre di piu’ la cinghia sulla spalla destra, peraltro senza effetti lodevoli. La mano sinistra poi e’ rigonfia rispetto alla destra: che stia per perdere un arto? Lo vedremo. Senza dubbio la pressione su quella spalla e’ notevole, posso solo immaginare i graffiti lasciati sulla mia schiena dalla pressione di zaino e maglietta. Sono costretto a fermarmi ogni mezzora, come una mammoletta. Se non lo faccio, mi si spezza la schiena. Eppure sono attorno ai 3600 metri in maniche corte, con un vento ora che spira perfido sul trekker sudato e agonizzante – io. Ignoro il corpo ma copro il capo con un berretto, e proseguo. Mi odio profondamente. Odio profondamente, in momenti come questi, il mio spirito competitivo, che mi porta oggi a spingere il mio fisico a livelli a cui forse non e’ abituato. Non so se sono io a perdere forma di continuo, o se mi sto spingendo sempre piu’ verso cose piu’ difficili. Ma forse la verita’ sta nel mezzo. Ad ogni modo, impreco severamente contro me stesso, le mie decisioni, la mia competitivita’. Oggi mi sta portando alla disfatta.
Poche preghiere. Copyright Emanuele Canton, 2013
 
Chiedo alla mia guida ogni 5 minuti “Quanto manca?” come un bambino diretto verso Gardaland in macchina con i suoi genitori. Mi viene il voltastomaco a pensare allo stato penoso in cui sono ridotto. A ormai pochi minuti di marcia dal villaggio sono stremato, mi siedo per terra, non ho nemmeno la forza di togliermi lo zaino, so che probabilmente non avrei piu’ il coraggio di rimettermelo addosso. Riprendo qualche misera energia per proseguire per 10 minuti, e arrivati in paese, prendo una camera nella prima guest house disponibile e crollo a letto. Abbiamo camminato per 7 ore circa, un totale stimato di forse piu’ di 25 km (teoricamente di sicuro piu’, col senno di poi), e un dislivello di 1200 metri. Ora sono a 3850 metri. Nonostante tutto, sono sopravvissuto ad un dislivello di 2400 metri in 2 giorni senza acclimatamento, ed e’ gia’ un’ottima cosa – visti gli ammonimenti che si trovano lungo la pista (cartelli e persone che tornano indietro abbattute dall’altitude sickness). Crollo comunque, inequivocabilmente, a letto. Distrutto. Tossisco e provo un male atroce alla spalla sinistra. Girandomi nel sonno, poggiando il braccio sinistro a far da leva, crollo a terra: la spalla non regge lo sforzo. Mi sento uno straccio, e provo a dormire un po’, riparandomi con le coperte dal gelido vento che spira dalle fessure sui muri di legno e sulle finestre. Mi sveglio dopo 2 ore e mezza, quando le nuvole ed un grigiore cupo avvolgono tutto il paese, che io avevo lasciato ventoso, ma soleggiato. Scendo esitante in cucina, passi felpati per non premere su vesciche e ferite. Ho per giunta dimenticato una cosa essenziale: gli infradito. Devo dunque tenere ai piedi le scarpe, cosa che aumenta la mia disperazione. Non indugio e ceno velocemente con un te’ caldo e una zuppa d’aglio. Della serie i rimedi della nonna contro ogni malessere. Mi corico poco tempo dopo, bramante sonno, riposo, e guarigione notturna di ogni mio male. Anche se la vedo molto, molto grigia per il giorno successivo.
Kyanjin Gompa, 3870 metri. Copyright Emanuele Canton 2013
 

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