Lo ricordo come fosse ieri. Avevo iniziato l'anno corrente - anzi, avevo finito il 2010 - con un solo proposito. Un solo, misero proposito. Non avevo stilato una di quelle liste chilometriche, impossibili, bugiarde che molta gente redige pensando all'anno che viene. No, da realista, mi limitai ad un solo scopo da raggiungere. Anche se, a dirla tutta, l'obiettivo era piuttosto impegnativo: cio' che avevo impresso a fuoco nella mia mente, di modo che ogni giorno mi potessi alzar dal letto con quel pensiero, era "RIUSCIRE A CAMBIARE LA MIA VITA ANDANDO A VIVERE ALL'ESTERO, MEGLIO SE NEGLI STATI UNITI". Ecco con che parole avevo riempito il foglio intestato "Buoni propositi 2011".
E siccome mi trovo a scrivere queste parole sempre da Cadoneghe, Padova, Italia, ho cannato di brutto.
Mi duole dirlo ma, anche se sul mio calendario da tavolo 2011 ho scritto sulla base "Live in South Dakota", la mia vita e' ancora ancorata nel piccolo paese di questa nebbiosa campagna veneta che mi ha dato i natali. Oramai, se devo essere ancor piu' sincero, sono piuttosto deluso e abbattuto, per quanto concerne questo piano. Nonostante gli sforzi, tradotti in emails, letture di siti internet vari ed eventuali, ricerche di lavoro, viaggi, conoscenza di varie persone, sono ancora nelle stesse, identiche condizioni dello scorso anno. L'unica cosa che veramente sento cambiata e' la condizione mentale: c'e' un casino grande il triplo.
La cosa abbatterebbe il piu' inguaribile degli ottimisti, taglierebbe le gambe al piu' testardo degli esseri umani, e romperebbe le palle a chiunque. Me compreso. Ma non sono tipo da lasciarmi abbattere, in questi casi. Semplicemente, cerco di trovare un modo per aggirare l'ostacolo e giungere allo stesso obiettivo. Dunque, sara' mia premura riformulare i miei propositi per l'anno nuovo in una forma diversa, piu' malleabile, di maggior facilita' realizzativa.
Il fatto e' che per come stanno ora le cose gli obiettivi sarebbero troppi. O almeno, i sottoobiettivi sarebbero troppi. La mia ricerca dell'obiettivo da assegnarmi per il 2012 diverrebbe la formulazione di un teorema che neanche il piu' perverso degli studiosi si accingerebbe a formulare! E io non sono ne' un perverso, ne' tantomeno uno studioso, quindi lascio il compito a qualcun'altro.
Mi piacerebbe - ecco, gia' meglio - iniziare a pormi qualche domanda (come se mai l'avessi fatto in questi mesi) e a trovare risposte adeguate. L'unico rischio che corro - ed e' un grosso rischio - e' quello di rispondermi come VOGLIO sentirmi rispondere. Capito cosa intendo?! Si dai, e' facile: spesso ci interroghiamo, interroghiamo anche altra gente, e finiamo per pilotare il risultato dove vogliamo che finisca esattamente. Un modo per rafforzare convinzioni che non abbiamo. Modo piuttosto stupido.
Inizierei a domandarmi se voglio veramente andar via da qui. Tutto sommato io ho il mio bel lavoro, sicuro, ben retribuito, ottimi orari: mi permette di fare una bella vita. Ma e' un buon posto di lavoro TUTTO nella vita? E poi, non e' che mi attizzi cosi' tanto quel che sto facendo. E' giusto allora continuare su questa strada, 8 ore al giorno, per i prossimi 40 anni? Un'altra cosa. Non vorrei fossilizzarmi troppo sul lavoro, la sicurezza che da, i SOLDI. Soldi, soldi, soldi. Pare che il mondo ruoti attorno a quelli. E' giusto che per i soldi, rinunci a qualche bene di gran lunga maggiore, come la mia serenita', la mia felicita', la mia realizzazione?! Qui poi, familiari a parte, ho i miei amici. Ed anche se ultimamente ci si vede sempre meno, e' sempre gente che mi ha dato molto e ad alcuni di loro saro' per sempre infinitamente grato e legato. E' giusto farsi remore per lasciare gli amici di una vita, anche se oramai e' la direzione delle nostre vite stesse a portarci piano piano sempre piu' lontani gli uni dagli altri?
Un'altra cosa che mi domaderei riguarda le mie aspettative. Nel senso: devo ancora capire, dopo il topic precedente, se cio' a cui punto e' viaggiare, soddisfare questa mia attanagliante passione, o semplicemente stabilirmi in un nuovo paese e vivere li' la mia esistenza. Ora mi chiedo: E' piu' logico puntare alla soddisfazione delle nostre passioni piu' forti per raggiungere la felicita', oppure provare una via diversa, sconosciuta, piena di insidie, per provare a raggiungere lo stesso risultato? So che entrambe queste strade portano grosse insidie. Perdere il lavoro, rischiare la difficolta' economica, rischiare di buttare giu' una struttura di vita gia' impostata per avere in cambio solo soddisfazioni temporanee (per quanto prolungate), o alla peggio, nulla. Solo delusioni. Vale veramente la pena mettere in forse la vita che ho creato finora per soddisfare un "mal di pancia" che sento da un pezzo, e che forse potrei soddisfare in altri modi? Ma quali sono, questi altri modi? Purtroppo non posso prendere un mese di ferie ogni due. Solo se lavorassi in proprio, ma per ora e' solo un fantastico sogno. E forse lo rimarrebbe per chiunque. A questo ritmo, finiro' di vedere il mondo tra un bel pezzo, dopo un sacco di soldi spesi, e con mille lagne da assolvere. Esiste una soluzione a tutto cio' che non comporti la distruzione semitotale del mio attuale sistema di vita? Se si, ora sinceramente non ne vedo nemmeno l'ombra.
Avrei molte domande da pormi anche sui posti che vorrei vedere, su cui mi sto interrogando, sulle possibilita' che ognuno di essi offrirebbe. Ma queste, in conclusione, diverrebbero pure divagazioni geografiche e turistiche che sono esplicabili in ultima istanza. Eppure.. Se dovessi spendere un anno in giro per il mondo, con un'unica estate a disposizione, come potrei girare il nord dei miei amati Stati Uniti e vedere contemporaneamente l'estate Islandese, quella Finlandese, quella Russa e quella Canadese? E' IMPOSSIBILE. E questo e' un gran rammarico. La soluzione c'e': prendere piu' tempo per realizzare questi sogni. A costo di cosa? Vi ritorno a sopra! E' un gatto che si morde la fottuta coda.
Ad ogni modo, di domande come avete visto ne avrei a non finire. Non tutte sono intelligenti, ma molte sono dannatamente difficili. Io onestamente, non riesco a venirne fuori. Ogni maledetto giorno la penso in modo diverso, ho un'illuminazione che sfuma ore dopo, ho un'idea che giudico irrealizzabile il weekend successivo. Sono confuso, inerme nel tornado di domande e preoccupazioni che monta su di me.
Non pretendevo con questo scritto di dare una soluzione a tutto cio'. Se non ricordo male, stavo solo cercando di decidere come riempire il foglio "Buoni propositi 2012".
E credo a riguardo che l'obiettivo piu' vero, concreto, onesto, di valore, potrebbe essere questo: Metti ordine nella tua testa amico mio. Realizza cosa vuoi. Realizza cosa e' piu' importante per te. Una volta fatto cio', senza piu' indugi, rincorri il tuo sogno e non mollare mai.
Buona fortuna.
mercoledì 28 dicembre 2011
sabato 24 dicembre 2011
Il Natale che vorrei
Vigilia di Natale, anno 2011.
Solo oggi riesco finalmente a pensare al giorno che sta per venire. Maledetto lavoro. Solo oggi riesco a calarmi nel cosiddetto "clima natalizio". Non tanto nei regali inutili, negli addobbi onnipresenti, nella smania di sorridere a tutti e per tutto. No, quello per me non e' il clima natalizio. Quello e' il clima natalizio dei commercianti!
Io oggi finalmente trovo il tempo di fermarmi, e pensare. E una riflessione che mi e' saltata in mente spontanea l'ho avuta mentre mi stavo vestendo per recarmi in chiesa. Scontata forse, per alcuni, ma fin troppo poco alla ribalta dal mio punto di vista. Voglio dire: e' mai possibile che ogni santo anno sia tutto come quello precedente? E' mai possibile che ogni anno ci si riempia la bocca di tante belle parole, di tanti buoni propositi, e che alla fine non si combini mai nulla? Parlo delle nostre azioni, di cio' che facciamo, di come viviamo il Natale. COMMERCIALMENTE, ecco come lo viviamo. Dai, Natale per noi e' il cenone della vigilia e tutti i preparativi ad esso connessi, Natale e' il pranzo di Natale con i parenti, Natale e' una marea di regali, Natale e' comprare gli addobbi e rendere la casa piu' luminosa. Ma quest'anno c'e' crisi. DOVE? C'e' qualcuno, per caso, che non fa regali a causa della crisi? C'e' qualcuno che mangia pastasciutta al pomodoro al pranzo a causa della crisi? NO. Crisi, ve lo spiego io, e' una parola che si tira fuori dove fa comodo. A Natale, non c'e' crisi. La cosa e' gia' deplorevole di per se', per quanto bugiardi e occasionisti siamo. Ma vado oltre. Pensavo: Natale. Si e' tutti piu' buoni, cosi' dicono. Cercavo di andare un po' piu' a fondo sul significato di queste parole, quando sono giunto a questa conclusione, parecchio frustrante per me. Rispondete a questa domanda: come reagite quando una persona vi fa un regalo? (risposta esatta: esprimendo felicita' e apprezzamento). Ecco, cosi' funziona a Natale. Tutti sono presi dal consueto vortice di auguri, regali, convenevoli che "installano" felicita' nella gente. Ma e' davvero quello il Natale? E' tramite il REGALO, tramite l'AUGURIO scontato che s raggiunge la felicita', che si esprime a nostra volta la bonta'? Io non credo proprio. Io credo, piuttosto, che la gran parte di noi si perda, nella strada che ci porta ogni anno verso questo giorno, nella scia di consumismo, falsita' e schematicita' che altro non e' che il MEZZO per arrivare all'obiettivo. E qual'e' l'obiettivo? Be', semplice: tutto cio' che il Natale puo' rappresentare, quell'insieme di buone virtu' e nobili ideali che tutti noi un po' sbandieriamo, in questi giorni: bonta', felicita', altruismo, amore, pace, prodigalita'. Come sempre, per raggiungere gli obiettivi abbiamo bisogno dei mezzi. Ma a Natale, per quanto mi riguarda, il mezzo diventa obiettivo. Il fine da raggiungere diventa l'albero ben decorato, la casa adorna, il regalo ben scelto, il cenone azzeccato. Fuck. Non abbiamo capito un cazzo. Con questo non voglio dire che NESSUNO si presti al lato piu' difficile, ma vero, del Natale. Voglio solo dire che tutti costoro sono una minoranza tragicamente ristretta. Io compreso. Realizzo, ma non applico.
Io vorrei che il Natale fosse una cosa molto piu' profonda per ognuno di noi. Vorrei che riuscissimo a mandare a fanculo la solita maledetta mania dei regali. E fanculo anche al far girare l'economia. Giuro che se qualcuno mi viene a dire che fa regali per questo motivo, lo prendo a pugni. Ne ho le palle piene delle domande che mi sento rivolgere in questi giorni.. una su tutte? "Che regali hai fatto?!" Fieramente, io rispondo: NEANCHE UNO, a parte per i miei genitori. Per pura riconoscenza, nient'altro. Il resto si chiama consumismo e materialismo, non raccontiamoci la favola dell'orso.
Io vorrei che ognugno di noi a Natale lasciasse perdere tutto cio' e si dedicasse alla scoperta dei veri valori che questo giorno ci porta. Io credo che l'altruismo e la generosita' siano una cosa importante, in questi momenti. C'e' chi non ha un tetto sotto cui fare un cenone, c'e' chi non ha qualcosa con cui imbandire la tavola, c'e' chi non ha nemmeno piu' lacrime da versare - per potersi commuovere di fronte ad un bel gesto. Pensiamo a loro, non alla fidanzata, al parente, all'amico. Loro ne hanno piu' bisogno.
Non sono escluso dalla "ramanzina". Ma credo che il realizzare tutto questo, sia il primo passo verso una futura riuscita di questi intenti. A Babbo Natale chiedo di non essere mai troppo egoista, e che il mio egoismo non intralci i progetti degli altri. Chiedo di non essere mai schiavo del materialismo. Chi, soprattutto in questo momento, si attacca alle cose materiali per trarre soddisfazione, e' perduto. Non voglio essere fra quelli.
A Gesu' chiedo che mi accompagni sempre nelle mie scelte, nei miei pensieri, affinche' siano sempre puri e non ledano chi mi sta accanto. Aiutami Signore a realizzare i miei grandi progetti, e a far si' che per me Natale possa essere ogni giorno, tramite essi.
Con l'occasione, un augurio di un felice, vero Natale a tutti voi e ai vostri cari.
..Questa mattina mi immaginavo solo, col mio zaino, sulla sommita' di Observation Point, Parco Nazionale di Zion, Stati Uniti. Io solo, qualche barretta energetica e un thermos di te' caldo come cenone della vigilia, tanti scoiattolini affamati come commensali, tanti magnifici pini di Natale disadorni di decorazioni, le innumerevoli stelle del cielo come luci, un po' di neve sul terreno. Questo, il mio bianco Natale immaginario.
Credo sarebbe magnifico. Mettere via il "solito Natale" almeno per una volta, togliersi di dosso tutte le solite cose materiali, ed immergersi in un Natale piu' profondo, con se' stessi, alla ricerca di cio' che conta veramente.
Peccato, quest'anno non e' cosi'.
Solo oggi riesco finalmente a pensare al giorno che sta per venire. Maledetto lavoro. Solo oggi riesco a calarmi nel cosiddetto "clima natalizio". Non tanto nei regali inutili, negli addobbi onnipresenti, nella smania di sorridere a tutti e per tutto. No, quello per me non e' il clima natalizio. Quello e' il clima natalizio dei commercianti!
Io oggi finalmente trovo il tempo di fermarmi, e pensare. E una riflessione che mi e' saltata in mente spontanea l'ho avuta mentre mi stavo vestendo per recarmi in chiesa. Scontata forse, per alcuni, ma fin troppo poco alla ribalta dal mio punto di vista. Voglio dire: e' mai possibile che ogni santo anno sia tutto come quello precedente? E' mai possibile che ogni anno ci si riempia la bocca di tante belle parole, di tanti buoni propositi, e che alla fine non si combini mai nulla? Parlo delle nostre azioni, di cio' che facciamo, di come viviamo il Natale. COMMERCIALMENTE, ecco come lo viviamo. Dai, Natale per noi e' il cenone della vigilia e tutti i preparativi ad esso connessi, Natale e' il pranzo di Natale con i parenti, Natale e' una marea di regali, Natale e' comprare gli addobbi e rendere la casa piu' luminosa. Ma quest'anno c'e' crisi. DOVE? C'e' qualcuno, per caso, che non fa regali a causa della crisi? C'e' qualcuno che mangia pastasciutta al pomodoro al pranzo a causa della crisi? NO. Crisi, ve lo spiego io, e' una parola che si tira fuori dove fa comodo. A Natale, non c'e' crisi. La cosa e' gia' deplorevole di per se', per quanto bugiardi e occasionisti siamo. Ma vado oltre. Pensavo: Natale. Si e' tutti piu' buoni, cosi' dicono. Cercavo di andare un po' piu' a fondo sul significato di queste parole, quando sono giunto a questa conclusione, parecchio frustrante per me. Rispondete a questa domanda: come reagite quando una persona vi fa un regalo? (risposta esatta: esprimendo felicita' e apprezzamento). Ecco, cosi' funziona a Natale. Tutti sono presi dal consueto vortice di auguri, regali, convenevoli che "installano" felicita' nella gente. Ma e' davvero quello il Natale? E' tramite il REGALO, tramite l'AUGURIO scontato che s raggiunge la felicita', che si esprime a nostra volta la bonta'? Io non credo proprio. Io credo, piuttosto, che la gran parte di noi si perda, nella strada che ci porta ogni anno verso questo giorno, nella scia di consumismo, falsita' e schematicita' che altro non e' che il MEZZO per arrivare all'obiettivo. E qual'e' l'obiettivo? Be', semplice: tutto cio' che il Natale puo' rappresentare, quell'insieme di buone virtu' e nobili ideali che tutti noi un po' sbandieriamo, in questi giorni: bonta', felicita', altruismo, amore, pace, prodigalita'. Come sempre, per raggiungere gli obiettivi abbiamo bisogno dei mezzi. Ma a Natale, per quanto mi riguarda, il mezzo diventa obiettivo. Il fine da raggiungere diventa l'albero ben decorato, la casa adorna, il regalo ben scelto, il cenone azzeccato. Fuck. Non abbiamo capito un cazzo. Con questo non voglio dire che NESSUNO si presti al lato piu' difficile, ma vero, del Natale. Voglio solo dire che tutti costoro sono una minoranza tragicamente ristretta. Io compreso. Realizzo, ma non applico.
Io vorrei che il Natale fosse una cosa molto piu' profonda per ognuno di noi. Vorrei che riuscissimo a mandare a fanculo la solita maledetta mania dei regali. E fanculo anche al far girare l'economia. Giuro che se qualcuno mi viene a dire che fa regali per questo motivo, lo prendo a pugni. Ne ho le palle piene delle domande che mi sento rivolgere in questi giorni.. una su tutte? "Che regali hai fatto?!" Fieramente, io rispondo: NEANCHE UNO, a parte per i miei genitori. Per pura riconoscenza, nient'altro. Il resto si chiama consumismo e materialismo, non raccontiamoci la favola dell'orso.
Io vorrei che ognugno di noi a Natale lasciasse perdere tutto cio' e si dedicasse alla scoperta dei veri valori che questo giorno ci porta. Io credo che l'altruismo e la generosita' siano una cosa importante, in questi momenti. C'e' chi non ha un tetto sotto cui fare un cenone, c'e' chi non ha qualcosa con cui imbandire la tavola, c'e' chi non ha nemmeno piu' lacrime da versare - per potersi commuovere di fronte ad un bel gesto. Pensiamo a loro, non alla fidanzata, al parente, all'amico. Loro ne hanno piu' bisogno.
Non sono escluso dalla "ramanzina". Ma credo che il realizzare tutto questo, sia il primo passo verso una futura riuscita di questi intenti. A Babbo Natale chiedo di non essere mai troppo egoista, e che il mio egoismo non intralci i progetti degli altri. Chiedo di non essere mai schiavo del materialismo. Chi, soprattutto in questo momento, si attacca alle cose materiali per trarre soddisfazione, e' perduto. Non voglio essere fra quelli.
A Gesu' chiedo che mi accompagni sempre nelle mie scelte, nei miei pensieri, affinche' siano sempre puri e non ledano chi mi sta accanto. Aiutami Signore a realizzare i miei grandi progetti, e a far si' che per me Natale possa essere ogni giorno, tramite essi.
Con l'occasione, un augurio di un felice, vero Natale a tutti voi e ai vostri cari.
..Questa mattina mi immaginavo solo, col mio zaino, sulla sommita' di Observation Point, Parco Nazionale di Zion, Stati Uniti. Io solo, qualche barretta energetica e un thermos di te' caldo come cenone della vigilia, tanti scoiattolini affamati come commensali, tanti magnifici pini di Natale disadorni di decorazioni, le innumerevoli stelle del cielo come luci, un po' di neve sul terreno. Questo, il mio bianco Natale immaginario.
Credo sarebbe magnifico. Mettere via il "solito Natale" almeno per una volta, togliersi di dosso tutte le solite cose materiali, ed immergersi in un Natale piu' profondo, con se' stessi, alla ricerca di cio' che conta veramente.
Peccato, quest'anno non e' cosi'.
giovedì 1 dicembre 2011
"This is the end, my only friend"
E’ sabato, 8 ottobre 2011, meta’ mattinata. L’aria pungente dell’oceano si mischia bene al sole californiano che in questo periodo dell’anno consente ancora a qualche temerario di farsi una nuotata. Si sta bene. Mi trovo lungo una spiaggia affollata da surfisti, a pensare in silenzio, seduto su un muretto. Mentre scorgo dei delfini in lontananza, che si muovono verso sud, mi accorgo che non sono cosi’ triste perche’ il viaggio e’ ormai agli sgoccioli. Non sento la solita, plausibile malinconia al pensiero dell’incombente volo di ritorno. Non sento nulla, come fosse immune a qualsiasi sentimento. Anzi, a dirla tutta, sono quasi solo, semplicemente felice per l’esperienza vissuta. Il viaggio che ho alle spalle, come i suoi posti, volti, animali, plus e minus, e’ stato indimenticabile – parola che sto iniziando ad usare un po’ troppo spesso all’interno di questo mio diario. Ed un motivo, beh, ci sara’ per forza! Sento gia’ dentro di me la ventata d’aria nuova, di cambiamento che ogni viaggio porta con se’. C’e’ un detto, che ovviamente ho fatto mio, che recita “Chi torna da un viaggio non e’ mai la stessa persona che e’ partita”. Poche parole sono piu’ vere di queste. Sono sicuro, perche’ gia’ ne sento gli effetti dentro di me, che anche stavolta e’ andata cosi’, che ho qualcosa di nuovo dentro, che il mio sguardo e’ gia’ volto a nuove avventure, nuovi obiettivi, nuovi orizzonti. Lo faccio con spirito rinnovato, piu’ motivato, perche’ ho visto grandi cose, ho conosciuto persone fantastiche e ho avuto tempo di parlare con me stesso, di andare un po’ piu’ a fondo in certe questioni. Sapete, a volte quel che ci manca e’ proprio il tempo. Nella vita quotidiana, lo studente non ha tempo perche’ deve studiare, chi lavora deve lavorare e chi e’ in pensione.. beh anche lui ha i suoi giri da fare! E NESSUNO, o ben pochi di essi, trova mai il tempo per stare un po’ con se’ stesso, libero da affanni, stress e impegni. Io trovo che il tempo che noi riusciamo a ritagliare per noi stessi sia essenziale: pensate a quanto per uno sportivo sia importante riuscire ad andare a fare una corsa, un allenamento dopo una giornata lavorativa carica di tensione. O quanto sia bello, per un appassionato lettore, trovare un’oretta della giornata da dedicare alla sua passione, la lettura. Ecco, in viaggio – viaggiando da soli – si ha la possibilita’ di fare e pensare ad una miriade di cose. E una delle piu’ importanti credo sia proprio l’andare un po’ piu’ a fondo con noi stessi, lo sforzarsi di conoscere un po’ meglio quella persona un po’ timida, a volte bugiarda, a volte scontrosa, che altro non e’ che il nostro IO interiore. Pensiamo di sapere chi siamo, ma troppe volte in realta’ conosciamo solo chi vorremmo essere. Solo maschere. In viaggio, le maschere cadono e si fanno scoperte interessanti. Lungo una spiaggia assolata, avvolto dalla brezza di fine estate, mi trovo a riconoscere tante scoperte che ho maturato su me stesso. Vi posso assicurare che raramente ci sono momenti piu’ gratificanti. E come dice quell’altro detto, “Chi trova un amico, trova un tesoro”. Basta solo cercarlo, dargli un po’ piu’ di tempo e di confidenza: e’ li che ci aspetta, dentro di noi! La mia ultima giornata americana era iniziata ore prima, non di certo con questi articolati pensieri piuttosto con sforzi fisici interessanti, smantellando il mio arsenale di bagagli e trasferendolo in macchina, passando per un lungo corridoio esterno al motel e scendendo un piano di scalini che raramente ho visto cosi’ stretti. Un normale accesso ad una stanza che si trasforma in una specie di percorso di guerra per un turista sfinito, appena destato dal sonno e con l’assillo di un mega zaino e un paio di grosse valigie. Per riprendermi dallo sforzo, accorre in mio aiuto il mio salvatore Denny’s, compagno di tante (troppe) mangiate ipercaloriche in questi ultimi 16 giorni. A dire il vero sono io che ancora una volta mi fiondo senza esitazione all’interno di un suo locale, ma poco importa. Una simpatica vecchietta in tenuta da cameriera, di quelle stile “Lo vuoi un biscottino?!” (brrr – rabbrividisco), mi fa accomodare al tavolo dove prontamente ordino la mia ultima colazione SERIA, prima di tornare alle misere fette biscottate con marmellata con latte e caffe’ italiani. Oggi vado per la Country fried steak con gravy e pancacke puppies alla fragola con cheese cream. E’ inutile, quelle specie di piccole frittelline con quella favolosa crema al formaggio – di cui potrei nutrirmi a colazione, pranzo e cena – sono da sangue da naso. They’re awesome! Me ne godo boccone dopo boccone. Mi viene da piangere al pensiero che queste bonta’ da 1.99$ mi saranno precluse per molti mesi a venire e forse per sempre. Come del resto una buona country fried steak, o le patatine con formaggio fuso e bacon, o un ottimo Jalama Burger.. cibo americano, mi mancherai. Ma portero’ con te il tuo gustosissimo, grassissimo ricordo e ne tessero’ le lodi nella mia terra natia! Alla fine di questa celebrazione gustativa, chiedo lumi sulle bellezze su cui vale la pena soffermarsi tra Ventura e LA ad una signora dietro di me. Pare che non ci sia granche’, e mi metto in macchina alla volta di LA con l’intenzione di fermarmi qua e la lungo la costa per assaporare solo gli ultimi profumi oceanici in qualche bella spiaggia, guidando per Santa Monica e Malibu. Nella bruma mattutina, le strade deserte della periferia nel sabato mattina sono quasi tristi, anche in un giorno soleggiato come questo. Poca gente per strada, come a lasciarmi spazio per tornare mestamente verso l’aeroporto e di conseguenza, a casa. Piu’ esco dal centro di Ventura, piu’ mi immergo nei sobborghi, prima residenziali, ben curati e con i soliti SUV da 40K $ parcheggiati di fronte alle case, poi via via piu’ umili, miseri, fino al quasi squallore dei campi coltivati, dove la gente (gli immigrati, meglio) lavora al solito per pochi dollari all’ora, sotto il sole, la pioggia, il vento, per poter sfamare i figli. Sono le cose che mi fanno realmente pensare: son proprio disposto a vivere qui? E se andasse cosi’ anche a me? Un po’ intristito, seguo la costa che mantiene un alone di foschia mattutino, come una persona che si alza e deve ancora stropicciarsi gli occhi per vedere meglio cosa il mondo gli riserva quest’oggi. Dopo qualche curva, faccio un’altra considerazione: pare che qui nel Sunshine state gli sport siano due, ciclismo e surf. Soprattutto qui, vedo ciclisti ovunque. Da soli, a coppie, in gruppo. Sara’ anche che e’ sabato mattina e la gente e’ finalmente libera di dedicarsi ai propri passatempi, ma sembra proprio che le due ruote siano ampiamente diffuse fra la gente di qui. Stessa cosa, anzi, il discorso si fa ancor piu’ serio per il surf. Forse piu’ che uno sport qui e’ uno status-symbol, e vivere lungo la costa californiana senza praticare o almeno aver provato a fare surf, dev’essere una specie di onta indelebile che macchia gli individui esiliandoli dalla societa’. C’e’ da dire che tanta gente accorre nei weekend sulle spiaggie del Pacifico anche dall’interno, dai deserti del Nevada, dalle montagne della Sierra, dalle citta’, e ci sono anche parecchi turisti e girovaghi incalliti che trasportano nei loro furgoncini e minicamper una tavola da surf per la bisogna. Mi immagino le spiaggie che sto osservando ora, d’estate: credo che la proporzione fra tavole da surf e pesci posso avvicinarsi all’ 1:1. Devono essere una specie di formicaio di surfisti. Gli ultimi temerari – che anzi temo non saranno nemmeno gli ultimi, da queste parti – li sto osservando io, seduto sul mio muretto, a contemplare le ultime onde dell’oceano ed un branco di delfini in lontananza, mentre traggo alcune conclusioni da quest’avventura magnifica. La macchina pero’, come d’abitudine di questi ultimi tempi, pur essendo in fila a moltissime altre non e’ parcheggiata in una zona ove il parcheggio e’ consentito, dunque abbandono lo spot per non solleticare troppo la sfortuna magnetica che ultimamente mi gira attorno. Passo attraverso Malibu e Santa Monica, paesi divisi a meta’ dalla principale arteria stradale dove sul versante costiero si sviluppano case piu’ modeste, a schiera, tipicamente “marittime”, mentre sul versante collinare e’ ampiamente diffusa la presenza di ville, alcune delle quali enormi, che lasciano presagire le abbondanti capacita’ economiche della gente che sceglie di abitare in queste cittadine. Il contrasto con le periferie incontrate poco tempo prima e’ troppo forte per passare inosservato, e’ una delle cose che mi fa male dell’America. Proseguendo ancora entro a pieno titolo nei sobborghi di Los Angeles, seconda citta’ d’America per numero d’abitanti (3 milioni e 800 mila circa) e con una lunghezza di circa 50 chilometri da un estremo all’altro della sua periferia. Visitarla, tenendo conto delle sue freeway perennemente intasate dal traffico, dei suoi semafori, della sua enormita’, potrebbe essere un’impresa impossibile in mezza giornata. Anzi, lo e’ punto e basta. Io provo a trarne il massimo. Entro in citta’ e cerco di dirigermi aiutato dalla cartina e un po’ a vista verso la collina di Hollywood, dove spero di riuscire a scattare quella famosa foto al boulevard ornato di palme, terminante nella collina con una delle scritte piu’ famose al mondo. Guido, avanzo, scarto, freno, fino ad arrivare ad un punto dove pare che il parcheggio sia gratuito. Mi fermo, e secondo la mappa sono a pochi isolati da Sunset Boulevard e Hollywood Boulevard, le due strada piu’ visitate della citta’. La cosa sta bene, quindi carico lo zaino dello stretto necessario e parto. Peccato che camminare sotto il sole cocente, in mezzo al traffico afoso e sporco della citta’, con uno zaino di almeno una decina di chili non sia la cosa piu’ allettante del creato. Mi trovo a sudare come un cammello nel giro di un paio di isolati. Il fatto e’, purtroppo, che non ho ben chiaro dove stia andando. Cerco di raggiungere la collina orientandomi visivamente, e cammino vie sconosciute, che non trovo sulla mappa. Quando chiedo indicazioni, un passante mi dice “vai a destra” e quello successivo invece “vai a sinistra”. Non ci capisco piu’ nulla, e dopo aver camminato per mezzora mi ritrovo in una specie di studios televisivi dove addetti ai lavori in occhiali scuri e con vistosi pass mi guardano biechi mentre cammino spaesato invocando aiuto. Alla fine trovo un ragazzo all’entrata, comprensivo, che mi spiega che cio’ che cerco e’ dall’altra parte della collina. Cioe’, circa 45 minuti di cammino, sola andata. Maledico me’ stesso per aver provato un impresa simile senza cognizione di causa e di luogo soprattutto, e maledico gia’ anche LA. Mi dico, “Pensa, cretino che non sei altro, stai facendo tutto questo per cosa? Per fare una stupida foto ad un’ancor piu’ stupida scritta su una collina?!”. Mi vergogno di me stesso. Lontani sono i tempi in cui eroicamente camminavo indifeso in ampi pianori alla caccia della foto migliore all’orso, coyote o bisonte di turno. Ora, la caccia si svolge in citta’ e i soggetti non sono ne’ pericolosi, ne’ selvaggi, ne’ interessanti. E’come passare dalla pesca allo squalo in alto mare alla pesca nell’acquario di casa col retino per catturare i pesci. Umiliante. Sudato e umiliato, torno sui miei passi e mi fermo in un Subway solo per trovare refrigerio in una bibita fresca. Erroneamente convinto che cio’ che sto per scegliere sia una lemonade aromatizzata, finisco per ritrovarmi con un miscuglio iperzuccherino di brodaglia rossa alla ciliegia. Fa letteralmente schifo. Sembra medicinale per bambini. Ne bevo due sorsi giusto per dire che almeno ci ho provato, e trovo occasione per liberarmene nobilmente e senza sprecarne il contenuto. Trovo infatti un barbone sul ciglio della strada, capo chino sull’asfalto e cappello voltato per eventuali elemosina. Mi rivolgo a lui chiedendogli se potesse volere la mia bibita. Mi rivolge subito lo sguardo e mi dice “Sure bro, thank you very much my friend!”. E subito, gradisce il fresco contenuto del bicchierone. Contento di aver fatto un minimo di bene con cosi’ poco, riprendo la mia via. Quel che non ha guarito la bibita, ha guarito la consapevolezza di aver aiutato qualcuno. Accedo a Hollywood Boulevard, il famoso viale dove e’ situata la “Walk of Fame”, dove molte star del mondo dello spettacolo, della musica, del cinema hanno la loro stella con impresso il loro nome. La prima vista e’ – per quanto mi riguarda – disgustosa: una masnada di gente, tutti con le loro macchine fotografiche al collo, panini alla mano, che si accalcano su quella o quell’altra stella, e con pose tragicomiche scattano foto su foto per ricordare il loro “incontro” con la celebrita’. Si fanno importunare da loschi figuri che spacciano cd masterizzati, aspiranti rapper che tentano di sfondare, di farsi una loro strada nel business regalando esempi della loro musica. “It’s free, it’s free!” ti dicono. Altri loschi figuri in maschera – Topolino, gli X-Men, Batman, Hulk e molti altri – si fanno strada fra la folla rubando uno scatto (pagato) al bambino o al bambinone di turno. Navette e camioncini scoperti partono ogni cinquanta metri per tour panoramici della citta’, con i venditori che importunano la gente cercando di convincerla a montare a bordo. Non darei 1$ per vedere questa citta’, fosse l’ultima cosa che facessi. Io faccio lo slalom nella folla, evitando tutte le categorie umane sopra descritte, e tenendo gli occhi al suolo per leggere qualche nome noto. In realta’, scopro che pensavo di conoscere molta piu’ gente i cu nomi compaiono sul suolo che cammino. Devo dire che la mia cultura cinematografico/musicale e’ abbastanza scarna, e non mi sorprendo piu’ di tanto. Pero’, noto che la stragrande maggioranza delle celebrita’ presenti e’ a me sconosciuta. Nella mia mente poi, ho solo tre nomi da ritrovare nell’universo stellato del viale: Sylvester Stallone, Clint Eastwood, Steven Seagal. Ok, deridetemi pure per quest’ultimo. O forse non saprete neppure chi e’, costui. Ve lo spiego io: e’ quell’attore protagonista di qualsiasi film in cui si spara e si scazzotta alla grande, dove la trama e’ sempre la stessa e dove lui, il bullo che sa fare qualsiasi cosa e sa ammazzare qualsiasi nemico, vince sempre e con lo sguardo accigliato del duro a suggellare ogni suo successo. Quello e’ Steven Seagal. Lui a dire il vero e’ il meno rilevante della lista. Gli altri due invece, per me son due mostri sacri. Il fatto e’ che cercarli in mezzo al boulevard e’ un gran casino. Troppa gente da evitare. Troppe insidie a cui sottrarsi. Troppe stelle da analizzare. Sconsolato, mi fermo in un angolo al riparo dal sole. Mentre rimugino sul da farsi, scorgo una vista allettante dall’altra parte della strada: un bar al cui esterno campeggiano file intere di bandiere delle varie squadre di college e di NFL. Football americano. Mi avvicino, e decido di entrare. In pratica, un bar sport fatto come si deve: tv ovunque, di ogni formato, che danno allo spettatore la possibilita’ di seguire due o tre match a seconda della direzione in cui si voglia guardare. La prima cosa che mi viene chiesta all’entrata e’ un documento: nessun minore di 16 anni all’interno. Poi, che partita volessi seguire. Gli dico che sono solo un turista amante del football che voleva sedersi e bere qualcosa, e mi accomodano davanti ad una partita di LSU, Louisiana State University (sono forti quelli, quest’anno). Non contento dell’idea di passare del tempo in un locale senza mettere qualcosa sotto i denti – anche se di fame, come sempre a quest’ora durante la vacanza, ne ho ben poca – ordino un semplice Marinara Meatballs sandwich. Semplice, ma esplosivo. E’ come mangiare un carroarmato di carne e sugo. Corazzato di pane. Mi faccio largo quindi tra le enormi masse di questo panino riempito di ottime meatballs – specie di polpette – ma troppo abbondante per la mia fame risibile. Troppo abbondante, forse, anche per una fame regolare. Alla fine, dopo TROPPI touchdown (per intenderci, troppo tempo) decido di abbandonare, di gettare lo straccio. Avanzo una piccola parte del panino, contento di essere arrivato quasi alla fine anche stavolta. Avro’ lo stomaco grande come una tanica di benzina. Rimango a fissare lo schermo dove LSU demolisce il suo avversario per un po’, indugiando sulla mia lemonade e poi sui cubetti di ghiaccio al suo interno. Tiro qualche altra conclusione. Quali? Beh, ad esempio, non avventurarsi MAI in una citta’ senza aver la certezza di una camera prenotata per la notte. Indispensabile. Oppure, portarsi sempre qualcosa da stendere sotto una tenda, per aumentarne il comfort. Ricordarsi i rimedi “Bear Grylls” – che quando attuati hanno portato notevole beneficio alla mia causa. Ah, e non lavarsi mai piu’ con un saponetta dei Motel6: lascia una poco piacevole patina di viscido pulito che ti rende.. anguilloso! Ricalco i miei passi verso l’uscita del locale tra le urla di un tavolo limitrofo pieno di studenti esultanti per un touchdown della loro squadra, Miami. Esco, e di nuovo sono sotto il sole cocente. Uso le mie rinnovate energie per camminare alla nuova ricerca delle mie star perdute, magari provando anche a cacciare giu’ nello stomaco gli avanzi del mio lauto pasto. Cammina e cammina, ad un innominato incrocio trovo finalmente THE STAR, Sylvester Stallone. Per un attimo, divento anch’io giapponese e scatto una foto alla stella. L’unica. Ne passero’ altre di interesse rilevante – una fra tutte Earl Scruggs, acuto compositore e suonatore di banjo di parecchi lustri fa – ma non trovero’ il buon vecchio Clint. A lui do un semplice “arrivederci” agli schermi televisivi, nei deserti del Sud alla caccia di qualche taglia. Io invece proseguo per la mia strada, strada che ora mi porta alla macchina. Sono nuovamente, fieramente determinato a raggiungere la base della collina di Hollywood, per scattare questa maledetta foto e poi andarmene verso l’aeroporto in tutta calma. Ormai, e’ una questione d’onore, una sfida, un singolar tenzone tra me e la collina. E sono del tutto determinato a vincere. Una volta in macchina, studio attentamente le direzioni da prendere ma risulta impossibile definire nel dettaglio le vie dove svoltare. Ne traggo solo una direzione di massima. Dopo molti incroci, molti semafori, e molto traffico – in tempo d’orologio, circa mezz’ora per fare 7/8 chilometri – arrivo ad un parco sospetto, dove ci son piu’ cartelli che all’ingresso di un parco nazionale ed alcuni anche di notevole interesse. Uno, ad esempio, avvisa i frequentatori del parco di non lasciare oggetti di valore in macchina e di stare attenti ai propri effetti al seguito, in quanto il parco e’ zona ad alto tasso di criminalita’. Rassicurante, in effetti. Il secondo poi, ancora meno. Dice qualcosa come “tenere i bambini sotto stretta sorveglianza, il parco e’ zona abitualmente frequentata da leoni di montagna”. Cosa?? Leoni di montagna in centro a LA?! Rimango stupefatto alla lettura di questo cartello, e nel globale mi faccio un’idea ben poco positiva del parco in cui sono entrato. Inoltre, il terreno e’ gibboso, e definirlo “sconnesso” e fargli un complimento. Preferirei guidare su un campo arato con un Califfo 50cc. Ad ogni modo, nemmeno questo e’ il posto giusto, perche’ la collina e’ visibile si, ma dal versante sbagliato. Finalmente pero’, trovo una persona che sa il fatto suo, un orientale palestrato di cui interrompo la corsa chiedendogli indicazioni. Non sembra distante, e seguendole alla lettera giungo all’agognato viale. Mi sento realizzato, ancor di piu’ quando parcheggio per l’ultima volta in un posto ove non mi sarebbe permesso ma dove lascero’ la macchina solo per qualche minuto. Faccio qualche passo in avanti, trovo lo spot giusto dove scattare senza il disturbo di pali o cavi elettrici e ZAC!, eccola. L’obiettivo di giornata e’ raggiunto, dopo fatiche erculee ed enormi rodimenti. Posso dichiarare conclusa la mia epopea, e ripiegare verso l’aeroporto. Facile a dirsi. Sono notevolmente in anticipo, essendo le 15 ed avendo il volo alle 21, ma sicurissimo che la malefica citta’ vorra’ riservarmi qualche ultima, brutta sorpresa mi avvio lestamente verso la destinazione. Detto, fatto. Mi trovo all’istante imbottigliato in una fiumana di macchine che sembrano tutte dirigersi all’aeroporto. O meglio, sembrano tutte dirigersi dove IO mi sto dirigendo. Anche se prendessi una deviazione, mi seguirebbero. Mi sento un po’ Paperino, o Fantozzi quando perseguitato dalla “nuvola da impiegato”. Nella highway come nelle principali arterie del centro si va quasi a passo d’uomo, e arrivo in prossimita’ dell’aeroporto solo dopo un’ora abbondante di atroci sofferenze e munifiche imprecazioni. Trovo quasi inaspettatamente, nel garbuglio di incorci, depositi e motel che e’ la zona aeroportuale, il deposito auto della mia compagnia di noleggio (non ricordo se ne feci il nome ad inizio diario, ma sappiate che non la consigliero’ mai a nessuno!). Lascio la vettura abbastanza in fretta, fortunatamente non devo attendere controlli vari ed eventuali, e mi dirigo verso il terminal, trasportato in bus da una simpatica signorina. Bagagli alla mano, zaino in spalla, cappello di paglia in testa, scendo alla mia fermata e mi faccio strada tra i controlli e le code fino ad arrivare al mio gate. Ho tre ore d’attesa che so come sfruttare: ho un pc con me e un progetto di scrivere un diario della mia avventura. Prima pero’, meglio attrezzarsi. C’e’ un Burger King qui affianco, e decido di fargli una visita. Sazio la poca fame rimasta – ebbene si, dal panino con le meatballs son riuscito a creare altro spazio nel mio stomaco – con un modesto burger e placo la sete con una Coca-Cola formato BIG, la prima di sempre. Il commesso infatti mi ammonisce, “Are you sure? This is the BIG one!”, dice mostrandomi l’enormita’ del bicchiere scelto. Gli spiego che ho tanto tempo in cui poterla finire, quindi la prendo senza indugi e la riempio al bancone. Ora sono pronto veramente. E’ tutto finito sul serio.
Poco dopo il decollo, nell’oscurita’ della notte scesa sulla West Coast, sorvolo la citta’ di Los Angeles che tanto ho maledetto e che tanto non ho apprezzato. Come una persona che vuole scusarsi per un torto arrecato pero’, essa mi mostra il suo lato migliore, che non ha nulla a che fare con strade intasate, miseria mista a ricchezza sfrenata, criminalita’ nascosta. Si mostra in tutto il suo splendore invisibile dal basso ma apprezzabile dall’alto. A migliaia di metri d’altezza, LA illuminata dalle luci delle sue case, dei suoi semafori, delle sue piazze, dei suoi studios, delle sue discoteche, LA illuminata e’ uno spettacolo che lascia a bocca aperta. La grandezza dei suoi confini, della sua periferia, e’ totalmente apprezzabile solo da qui. Ed anche la persona che a terra partiva con rabbia e delusione, che vedeva la citta’ come un immenso intrico stradale dove perdere tempo prezioso, la contempla per un ultima volta con un altro spirito. Malinconico, un rientro a casa imminente, guarda verso il basso e vede il cielo: migliaia e migliaia di stelle a formare tante costellazioni, tante piccole galassie. La piu’ luminosa? Si chiama Hollywood Boulevard.
In conclusione, prendo a prestito le parole di Gerard Baker, un nativo americano della tribu’ dei Mandan-Hidatsa che ha dedicato la sua vita ad una carriera nel National Park Service, arrivando ad essere sovrintendente del Mount Rushmore National Monument, in South Dakota. Carica pesante, per un nativo americano. Egli disse una volta, e con queste parole concludo e vi ringrazio: America’s not sidewalks. America’s not stores. America’s not video games. America’s not restaurants. We need national parks so people can go there and say “Ah, this is America”.
Poco dopo il decollo, nell’oscurita’ della notte scesa sulla West Coast, sorvolo la citta’ di Los Angeles che tanto ho maledetto e che tanto non ho apprezzato. Come una persona che vuole scusarsi per un torto arrecato pero’, essa mi mostra il suo lato migliore, che non ha nulla a che fare con strade intasate, miseria mista a ricchezza sfrenata, criminalita’ nascosta. Si mostra in tutto il suo splendore invisibile dal basso ma apprezzabile dall’alto. A migliaia di metri d’altezza, LA illuminata dalle luci delle sue case, dei suoi semafori, delle sue piazze, dei suoi studios, delle sue discoteche, LA illuminata e’ uno spettacolo che lascia a bocca aperta. La grandezza dei suoi confini, della sua periferia, e’ totalmente apprezzabile solo da qui. Ed anche la persona che a terra partiva con rabbia e delusione, che vedeva la citta’ come un immenso intrico stradale dove perdere tempo prezioso, la contempla per un ultima volta con un altro spirito. Malinconico, un rientro a casa imminente, guarda verso il basso e vede il cielo: migliaia e migliaia di stelle a formare tante costellazioni, tante piccole galassie. La piu’ luminosa? Si chiama Hollywood Boulevard.
In conclusione, prendo a prestito le parole di Gerard Baker, un nativo americano della tribu’ dei Mandan-Hidatsa che ha dedicato la sua vita ad una carriera nel National Park Service, arrivando ad essere sovrintendente del Mount Rushmore National Monument, in South Dakota. Carica pesante, per un nativo americano. Egli disse una volta, e con queste parole concludo e vi ringrazio: America’s not sidewalks. America’s not stores. America’s not video games. America’s not restaurants. We need national parks so people can go there and say “Ah, this is America”.
martedì 29 novembre 2011
Giocare a tetris (con le cose da mettere in valigia) - pt.2
Per scacciare i cattivi pensieri degli ennesimi dieci dollari buttati nel cesso, di una spiaggia presunta stupenda ma lontana dalle parole spese, mi faccio tentare. Da cosa?! Hehe.. Cammino di fronte al grill della spiaggia, quello dei “world famous” Jalama Burger. Ho in mente di provare l’impresa, di cimentarmi ufficialmente con il mio primo burger da 1 pound. Un pound corrisponde a circa 450 grammi. Non sembra molto vero? A dire il vero, non e’ molto sul serio! Cosa sono 450 grammi di cibo? Suvvia, poca roba! Un chilo e’ tanto, e suona possente, fa paura dirlo. E per lo stesso motivo, anche un pound suona come tanta roba. Quando in realta’ non lo e’. Cosi’ mi motivo per affrontare la sfida, di proporzioni accettabili ripensando a qualche allegra mangiata a base di hamburger di 600 grammi fatta in estate. 600 grammi di sola carne, pero’! Al bancone, faccio sfilare i pivellini (“Delle patate fritte grazie!”, “un Cheeseburger!”, “Un hamburger con bacon e doppio formaggio!”) e quando tocca a me dico “Uno Jalama Burger. Senza lettuce, pero’!”. Il padrone del posto, un vecchietto robusto e gioviale, come un po’ tutti i vecchietti americani, mi guarda strabuzzando gli occhi e mi dice “Are you sure?! It’s a big, BIG BURGER!”. Gli mostro di stare completamente al gioco. “Yes, I know, but not enough I guess!”. La sua espressione cambia e pare dirmi “Ok, ho capito che tipo sei”, e segna l’ordinazione. Mi augura buon appetito, ed io salgo le scale per sedermi al tavolo. Cinque minuti, ed ecco il burger. Stilisticamente e’ da 10+, come il famoso pollo della pubblicita’. Ci sono 3 patties di carne, 3 fette di 3 formaggi diversi, 3 strati di bacon, e salsa a volonta’. Ah, e la cipolla! Al gusto, passa la prova ad ampissimi voti. E’ una delizia, ed anche se non ho cosi’ fame (ricordate le ciambelle? Anche li’, per inciso, non avevo fame. Container di merda che non sono altro) lo ingurgito avidamente. Una volta finito – si, l’ho spazzolato tutto – passo al voto quantita’: 5. Scopro che 1 pound di panino e’ benissimo alla mia portata. Cosi’, la prossima volta, la sfida la lancero’ ad un panino di 2 pound. No un attimo, proviamo 1 pound e mezzo. Non vorrei dover digiunare per 2 settimane per avere qualche chance di sconfiggere quello da 2! Esco dal bar fra gli applausi degli avventori e torno alla macchina. Mi spiace, ma non voglio piu’ saperne di stare in questa fornace a girarmi i pollici. Guidero’ a sud, fino a quando non trovero’ un posticino discreto, dove potermi comodamente mettere in motel a riordinare le valigie. Mi correggo: riordinare presuppone ordine pregresso. Cio’ e’ falso per le mie valigie, quindi direi piu’ “creare”, le mie valigie. Ecco. Ripercorrendo la tortuosa strada collinare fatta all’andata, trovo diverse occasioni per fermarmi a fotografare svariati rapaci in volo. Uno, stupendo, vola a circa una quindicina-ventina di metri al massimo sopra la mia testa (mi e’ difficile calcolare questo tipo di distanze, ma ritengo la stima piuttosto verosimile). Per ghermirlo, parcheggio la macchina in una posizione diciamo “difficile”. Per rendere l’idea, immaginate la curva di un circuito di Indy Car americano: 180 gradi, inclinata sempre piu’ mano a mano che si sale verso l’esterno della pista. La curva dove parcheggio io pero’ non e’ fatta di cemento bensi’ di sabbia e la cosa rende la stabilita’ meno certa. Inoltre, lo spazio e’ comunque ristretto ed invado con parte della macchina la carreggiata. Un must, oramai. Colgo qualche ottimo scatto, tra gli sguardi stupiti dei passanti – si chiederanno che diavolo stara’ fotografando questo qua per essersi messo cosi’! Sulla scia di questa piccola, temporanea felicita’ penso a rimediare ad un’altro piccolo inconveniente: ho ancora la tenda semiaperta dall’ultima volta che l’ho utilizzata (una settimana fa!) e sarebbe opportuno metterla via degnamente. Lo faccio – scelgo delle location impeccabili – davanti al cancello d’entrata di un pascolo per bovini, a pochi metri da grosse macchie marroni scure su cui preferisco non concentrarmi. Purtroppo, mi discolpo fra me e me, e’ l’unico spiazzo abbastanza grande lungo la strada per ospitare la mia tenda. Non ho di certo intenzione di mettermi a chiuderla nel parcheggio del motel! Ci metto solo pochi minuti, mi libero della tenda, delle mosche accorse e dell’odore non da profmeria e riprendo la mia strada. E’ presto, potrei fermarmi da qualche parte. Consulto alla mia solita maniera – pericolosa, non avendo alcun aiuto esterno – la mappa mentre guido, ed individuo un possibile punto d’interesse in Santa Barbara. Qui le localita’ hanno sempre San o Santa davanti al nome: Santa Barbara, Santa Monica, San Diego, San Buenaventura, San Bernardino, Santa Paula, Santa Ana, San Fernando, Santa Maria, Santa Ynez, San Clemente, San Marcos, Santa Clarita tanto per citarne alcuni. Ci fai un rosario, con i nomi delle citta’ del Sud della California. E non li ho detti tutti, solo alcuni tra i piu’ rilevanti. Vai sicuro che se chiedi indicazioni e sagli santo, finisci due o trecento miglia piu’ in la’! Ad ogni modo, giungo a Santa Barbara dove mi trovo involontariamente a partecipare al solito, triste gioco delle uscite della highway: ci sono 8 uscite, quale vuoi? E io: che diamine ne so? Me ne sia data una a caso, invoco! Ma il lume della ragione agisce prima della mia dabbenaggine e questa volta aspetto giustamente di imbattermi nell’uscita “downtown”. Dopo un paio di buchi nell’acqua riesco anche a trovare spazio in un parcheggio gratuito per 2 ore. Fantastico, non avrei potuto chiedere di meglio. Per quanto mi concerne, Santa Barbara non e’ certo una miniera d’attrazioni o un posto che potrebbe colpirmi al punto di decidere di passar qui la notte. Mi sembra solo e soltanto un posto da fighetti cagoni e con le tasche piene di grana. In effetti, dopo qualche passo sulla Main, scopro che non mi sbagliavo affatto. La citta’ non e’ nemmeno cosi’ male, anzi, sembra carina, simpatica, sempre in movimento. Influenza spagnola nelle costruzioni, basse e di color giallo quasi ovunque, palme anch’esse quasi ovunque e belle piazzette con panche in legno, fontane, ombra. L’atmosfera e’ gradevolissima. Le persone pero’, turisti a parte, mi ricordano le parole dell’amico di giornata Brent, che mi defini’ la citta’ come “expensive”. E chi puo’ permettersi di vivere in una citta’ expensive?! Ovvio, chi ha la grana. The dough. E la gente che cammina, tanti giovani anche, lo fanno trasparire senza remore. Tirati come la corda di un arco – l’effetto sulle tipe non e’ affatto deprecabile, anzi! – ricreano l’atmosfera del sabato pomeriggio in centro, solo che qui e’ venerdi’ e sono circa le 15. Mi faccio un giro sulla Main, metto il naso nei tantissimi negozi di souvenir e ancor piu’ nei locali che offrono cibo (ancora?!) ma non altro. L’atmosfera, per quel che ho fatto in questi giorni e per come sono conciato (da turista che viene da una spiaggia) mi mette un po’ a disagio. Non fa per me, questa dose di mondanita’ pura iniettata cosi’ di colpo ad un country boy. Proprio no. Qualcuno si offre di soccorrermi in questo breve momento di sconforto: e’ sempre lui, Coldstone, che mi alletta con un Gotta Have It! alla vaniglia a cui io non oppongo resistenza, per non offendere. Al tavolo, seduto a divorare i 600 ml e oltre di milkshake, ripenso a tante cose: alle cose esteriori, alle false impressioni, alla pochezza di certa gente, alla consistenza o meno di certe filosofie di pensiero. Penso alla bellezza di molte ragazze che ho visto qui. In effetti, potrei quasi affermare di averne viste piu’ a Santa Barbara che in tutto il resto del viaggio. Ovvio che Zion non e’ famoso per ospitare contest sulla ragazza piu’ carina dello Utah, pero’.. un po’ fa specie. Penso alle parole del mio vecchio amico Gretto, ai discorsi su sfighe generazionai varie ed eventuali e.. eh si, gli do proprio ragione! Questa e’ una citta’ collegiale probabilmente – vedo tanti gruppetti di giovani che camminano zaino in spalla per le vie – ma credo proprio che avendo vissuto in certe altre parti del mondo, in certi altri momenti, ce la saremmo spassata molto di piu’! Buon Gretto, sfiga generazionale si, ma anche geografica!! Quando gli zuccheri iniziano ad addolcire i miei pensieri, e a contribuire a dissipare cupi ragionamenti, decido di tornare in movimento, finire il mio piccolo giro in citta’ e riprendere la macchina. Le contigenze d’orario mi fanno fermare a Ventura, localita’ qualunque in riva al mare che pero’ sembra avere una nutrita schiera di motels. Bestemmio per una quindicina di minuti per trovare l’uscita giusta. Quella delle uscite dalle highway, ve lo dico, e’ una piaga. Se non sei munito di esatti riferimenti, di un numero, di una mappa seria, sei fregato. Soprattutto se non hai la minima idea dell’obiettivo da raggiungere. Questa e’ proprio la mia situazione, e si vede: passo i quindici minuti ad uscire, rientrare, riuscire alla stessa uscita ma dall’altro lato della strada, rientrare, provare una seconda uscita, girare il quartiere e finalmente, esalando l’ultima imprecazione, trovare un motel. Sono talmente provato da questa sfida stradale che accetto la camera propostami al prezzo propostomi. Accetto, stavolta non senza mostrare palesemente il mio dissenso, un prezzo di 3$ per l’uso del wi-fi. Purtroppo ho intenzione di girovagare nell’internet qualora finissi a tempo di record con le mie valigie, dunque pago (per la prima e ultima volta, un wi-fi) e mi rintano in camera. Solo dopo aver fatto i soliti 4-5-6 viaggi della disperazione, tra macchina e camera, portando oggetti di qualsiasi fattura, peso e colore. Sono i miei innumerevoli effetti, che dovro’ far entrare in valigia. Comincio con una bella, tonificante doccia. Poi, accendo il pc, ci attacco l’ipod e metto su una colonna sonora adeguata. Per l’impresa dovrebbe essere qualcosa come la colonna sonora della serie Rocky Balboa, ma opto per cose un po’ piu’ soft. Detergenza ok, musica ok, abbigliamento ok.. manca solo una cosa: da bere. Sono privo di qualsiasi forma di liquido che non sia l’acqua che esce dal rubinetto. Ma, e qui mi gioco l’asso, ho un Denny’s giusto dalla parte opposta della strada. Non devo pensare molto per ritrovarmi in infradito ad attraversare la pericolosa strada di fronte. Sono incorreggibile: d’altronde, era quasi scontato che la mia avventura volgesse al termine li’ dove era iniziata quindici giorni prima. In un Denny’s, a gustarsi un hamburger da favola. Entrato, ordino una coca cola e astutamente la chiedo gia’ munita di refill (secondo bicchiere, gratuito). Il cameriere mi guarda un po’ strano e mi dice “Ok, te ne do due”. Captando odore di truffa specifico “Si, ma sotto forma di refill!”. Alla mia seconda obiezione, il cameriere scuote la testa come a dire “ Questo e’ ubriaco”, e alla fine digita qualcosa sulla macchina di cassa, mi porta due grossi bicchieri pieni di ghiaccio e cola, due cannucce e mi porge lo scontrino. Totale: 1.99$. Sono – non so perche’ – felicissimo. Torno al motel con due missili sottomarini pieni di fresca, dissetante coca cola per aiutarmi a smaltire le prossime ore di fatiche. E comincio il mio duro lavoro. Fra vestiti, biancheria sporca, libri, cianfrusaglie varie, cappelli, scarpe, mappe e qualsiasi altra cosa abbia trovato in macchina, quest’operazione mastodontica di pulizia dura quasi 3 ore. 3 ORE! Ok, so che ora starete ridendo di me ma.. io preferisco fare con calma, ponderare sulla strategia migliore. E infatti, riesco a portare a casa comodamente in valigia anche la mia vecchia Wenzy, la tenda che mi ha ospitato per 4 notti negli altopiani del Sud. Sono orgoglioso di tutto cio’, e vado a riposare contento, con il letto – almeno per una volta – sgombro da qualsiasi cosa. Domani sara’ il mio ultimo giorno negli USA. La tristezza dell’imminente ritorno si scontra con la gioia per l’aver vissuto questi giorni stupendi, indimenticabili. Iniziano gia’ a tornare alla mente ricordi di luoghi e persone che hanno caratterizzato questo mio straordinario soggiorno, che certo mai scordero’. Ma non ho ancora messo il punto su questo viaggio, devo ancora scrivere l’ultima parola. L’ultima, infatti, si chiamera’ “Los Angeles”, anche se cio’ un po’ mi preoccupa.
domenica 27 novembre 2011
Giocare a tetris (con le cose da mettere in valigia) - pt.1
Com’e’ che dicono, “vivi ogni giorno come fosse l’ultimo”. Spero proprio non sia il mio ultimo giorno in America, spero di viverne tanti altri in questa dura, difficile ma dannatamente bella terra. Quel che so per certo e’ che per ora, purtroppo, questo e’ l’ultimo giorno intero che ho da spendere in questo viaggio. Quando la mattina ci si alza con questa sensazione e’ sempre difficile iniziare la giornata con il piede giusto. Io poi, per mia natura, sono sempre volto al futuro, e in questo caso futuro vuol dire volo, Italia, casa, LAVORO. Oh men! Pensiero angosciante. Riprendere il solito ritmo, nella solita citta’, con la solita gente. Il solito lavoro. Piu’ che svegliarmi, stamattina, piombo in una specie di incubo fin troppo reale. Mi schiaffeggio per costringermi a concentrarmi sul dolore fisico, mi alzo violentemente dal letto e vado in bagno per rinfrescarmi le idee con un bel po’ d’acqua fresca. Rewind, riparto da capo. Inizio quindi la mia giornata vestendomi in modo quantomeno civile, riordino le mie cianfrusaglie, che stasera (gia’ tremo al pensiero) dovro’ vedere di far stare nelle mie due valigie, e scendo le scale. Come al solito, sembro un addetto di un impresa di traslochi. Mi manca solo quache mobile e il trucco e’ perfetto. Scendo le scale con zaino, valigie, cappelli, scarpe, infradito, maglie & magliette varie che non stanno nelle valigie. Magari, ecco, piu’ che un’impresa di traslochi, uno zingaro. Di quelli seri e convinti. Passo alla reception a salutare la mia amica indiana, la saluto invitandola a venirmi a trovare in Italia prima o poi – magari prima, che non mi dispiacerebbe lasciare il mio paese per mete migliori sinceramente! – e mi imbarco sul mio mezzo, che parte in direzione “colazione”. Direzione piuttosto grossolana che mi conduce, stamane, in un modesto posticino di quelli che a me ispirano moltissimo ma che in questa fattispecie mi delude un po’. E’ un piccolo “bar”, come lo chiameremmo noi, dove una giovane ragazza si occupa del front-office e del servizio ai clienti. Ci sono appena una quindicina di coperti. Prendo posto al bancone fronte-strada e ordino un cinnamon & raisins waffle con panna montata. Bevo il mio caffe’, pago la mia colazione senza infamia senza lode e mi dirigo verso qualche bella spiaggia. O almeno, provo a trovarne qualcuna di bella. Per adempiere a questo compito vado ad orecchio: mi fermo su spiagge i cui nomi mi ricordano film, nomi famosi, gia’ sentiti, orecchiabili. E’ con questa metodica che arrivo a Pismo Beach (chi cazzo la conosce?!). Parcheggio la macchina sul lungo mare, o lungo oceano che dir si voglia, e faccio due passi sulla sabbia. Nell’aria fresca del mattino, quando il sole batte ma non scalda ancora, vedo gia’ parecchi temerari che surfano. Vedo un’allegra combriccola di arzilli vecchietti che passeggia raccontandosi chissa’ cosa e osservando i citati surfisti. Vedo, infine, la macchina gialla e rossa della LifeGuard, la pattuglia delle spiagge che noi conosciamo perlopiu’ per la serie Baywatch. La scena che vedo io fa molto film, molto Baywatch. Salgo sul pontile che si allunga verso le acque e scatto qualche foto. Sono pero’ stracciato in quanto ad attrezzatura e professionalita’ da un collega – collega, diciamo che lui e’ serio io no – che sta fotografando alla mia destra. Ha un teleobiettivo enorme, di marca, e non posso esimermi dall’ammirarlo. Quando mi accorgo che egli mi sta fissando, gli faccio un cenno d’assenso, un “ok” col pollice volto all’insu’, sorriso sulle labbra. Vedendolo ricambiare, con espressione simpatica, mi avvicino per scambiare due parole. Il mio nuovo amico si chiama Brent, ha 61 anni ed e’ Californiano. Chiedendogli un po’ del suo pezzo d’artiglieria – per cui ha speso la bellezza di 11mila dollarozzi – vengo a sapere che e’ un appassionato di surf, per cui (?) passa spesso del tempo a fotografare amici e sconosciuti mentre solcano impavidi le onde dell’oceano. E’ talmente appassionato di surf che ha addirittura un sito, rinomato a quanto pare, dove pubblica le foto che scatta. L’unica cosa che a me non torna e’ che, per quanto appassionato sia, non mi racconti neppure di quanto e dove surfa lui! Il perche’ e’ presto svelato: lascia surfare gli altri. Saggio, l’amico. E’ un repubblicano, che pensa che Obama non abbia il polso della situazione anche se e’ stato sfortunato ad esser eletto in un periodo cosi’ difficile. Dice che forse, altrimenti, sarebbe una brava persona. Parliamo di Berlusconi (la classica domanda, “Che ne pensi di Berlusconi?”, come fosse una sorta di divinita’ del teatro comico conosciuto in tutto il mondo), delle ragazze italiane (mi chiede quanto siano carine da uno a dieci. Per quanto mi riguarda, do un 6/7 sulla media) e di cosa sto facendo io. A tal proposito, mi da del ragazzino. Del “kid”. Mi dice di viaggiare, girare il mondo, esplorare, saziare la sete che sento dentro di me. Per fermarsi, mettersi a posto, far su famiglia, per quello c’e’ sempre tempo! Pare che abbia girato il mondo Brent, dalle parole che mi rivolge. Invece, scopro che non ha ancora visto posti bellissimi della sua nazione. Un po’ avventatamente, forse quasi scortesemente, manifesto meraviglia in cio’. Mi capita sempre quando sento di un americano che non ha ancora visto il Grand Canyon, o Yosemite, o Yellowstone. O Bryce. Dando un occhio all’orologio e vedendo il tempo scorrere inesorabilmente, lo quasi ammonisco dicendogli di andare in quei posti, di non perderseli. Di lasciare un po’ da parte il surf e di partire con sua moglie alla scoperta del proprio paese. Credo che un po’ gliene sia venuta voglia, tutto sommato! Ci salutiamo calorosamente e, scaldato da una stretta di mano sincera e dal sole sempre piu’ alto nel cielo, riprendo la mia via verso Sud. A Lompoc, un paesotto poco piu’ avanti, sono colto da un sottilissimo languorino amplificato ad incontenibile buco sullo stomaco dalla mia insaziabile golosita’. Infatti, mi avvedo di un piccolo chiosco di DONUTS a lato della strada che, essendo semi deserta, mi consente di svoltare repentinamente e di imboccare la via della ciambella. Entro: locale gestito da un cinese, ma poco importa. Non sono razzista, in quanto a cibo. Se sono in America, va tutto bene. L’assortimento affonda i sensi. Stordisce. Affogo fra ciambelle di ogni forma e colore, vuote o ripiene, con o senza sprinkles. Dopo i classici 5 minuti a braccia conserte meditando sull’amletico dubbio gastronomico, faccio la mia scelta: ordino al cinese una ciambella classica glassata bianca con sprinkles e una di forma allungata, glassata al fudge e ripiena di quella morbida, deliziosa cremina bianca (che sara’ grassissima e fatta prevalentemente di burro, vorrei supporre). Spendo felicemente quei pochi dollari e divoro le mie ciambelle non appena rientrato in macchina. E cosi’, tra una ciambella e una curva, una curva e una ciambella, arrivo a Jalama Beach, posto che un avventore al chiosco mi aveva caldamente consigliato e di cui aveva avuto cura di ripetermi le indicazioni stradali per una decina di volte. La strada che mi ci porta e’ poco frequentata, dispersa tra enormi piantagioni dove lavorano i classici, poveri messicani pagati forse 4-5$ l’ora, ma anche fra infiniti vigneti che fanno assomigliare questo paesaggio collinare alle nostre colline toscane. Solo che – e nessuno potra’ contraddirmi – l’orizzonte visivo e’ UN PO’ piu’ ampio. Giusto un po’. Virando bruscamente a destra e a sinistra la strada scava il suo percorso fino a raggiungere la spiaggia, passando qualche pascolo e qualche nido di rapaciazzi. Seguo la costa per un miglio ed eccomi arrivato. La sorpresa: la spiaggia, come dovevo imparare a conoscere prima, e’ un parco. E come tutti i parchi, statali, provinciali, comunali o rionali che siano, esigono un pedaggio per lasciarti entrare. Qui a Jalama Beach vogliono 10$. Gli esosi, vogliono vedermi mendicare per Los Angeles per mangiare! Eppure, attratto dalla promessa di spiagge favolose, e soprattutto di hamburger enormi (WORLD FAMOUS, mi sparano!) pago ed entro. Solo dopo realizzo, con un DOUH! alla Homer, che hamburger uguale altra spesa. Ormai il danno e’ fatto, ed entro in modalita’ “guadagna il massimo da questi 10$”. Mi cammuffo da bagnante – pantaloncini, canotta, cappello di paglia, occhiali da sole, infradito – ed inizio a camminare lungo la costa, sulla sabbia. Passo una bella addormentata sulla battigia, non una grande figura per quanto mi riguarda, e mi fermo a guardare l’orizzonte intero. Forse qui non hanno ben chiaro nella testa cosa sia una "bellissima spiaggia". Sara’ che si sbagliano loro, o sara’ che avendo girato un po’ fuori di casa ne ho viste molte altre di spiagge, ma i conti non mi tornano. Sinceramente, ho visto posti ben migliori in Scozia, ad esempio. Ripenso alla mia teoria secondo cui lassu’, se d’estate ci fosse qualche grado in piu’ e l’acqua non avesse pezzi di ghiaccio galleggianti, i turisti non andrebbero a Sharm, ma li’. Sharm fallirebbe, non se la filerebbe piu’ nessuno, a parte qualche conturbante signora single non piu’ sulla cresta dell’onda ma incorreggibile nella sua ricerca di qualche povero giovanotto da tormentare. Scozia, Irlanda, o perche’ no, Norvegia, Finlandia, diventerebbero le mete preferite dagli amanti della balneazione. Peccato che stando cosi’ le cose, nessuno di loro abbia voglia di buscarsi la malattia a meta’ estate. Dovranno aspettare solo qualche lustro pero’, continuare ad inquinare e degradare il pianeta come stiamo gia’ facendo, ed ecco che con l’aiuto di mr. Riscaldamento Globale nel giro di una ventina d’anni o poco piu’ potranno fare comodamente il bagno a Bettyhill, Scozia, durante le ferie di luglio. E senza tuta da sommozzatore!! Chiusa la mia quotidiana vena critica, focalizzo la mia attenzione al trarre il massimo dalla spiaggia in cui mi trovo. E’ molto lunga, sembra infinita, e abbastanza larga che al gestore di un lido a Sottomarina (Venezia) farebbe venire le bave alla bocca. Gli accessi praticamente non esistono: c’e’ solo quella piccola, ridotta imboccatura da cui sono entrato io, collegata al parcheggio. Poi, ci sono solo distese di alte scogliere che proteggono la spiaggia come fosse il castello di un antico re. Scogliere che, manco a dirlo, ospitano una nutrita schiera di uccelli marini, per cui mi ritrovo presto a camminare sorvolato da gabbiani prima, pellicani poi, e volatili non ben identificati in ultima istanza. Sembra una voliera a cielo aperto! Trovato uno scoglio abbastanza piatto da ospitare le mie onorevoli chiappe senza arrecar loro danno, mi ci appollaio e provo a prendere il sole. Impossibile: subito un paio di fameliche mosche si precipitano sul mio corpo senza scopo apparente se non quello di infastidirmi. Rinuncio al sole. Provo a dedicarmi alla fotografia: poca cosa, visto che l’unico soggetto interessante che trovo da immortalare e’ la risacca che, con tempo di esposizione lunghi, crea strani effetti. La mia vena pero’ si esaurisce presto e cosi’ anche la mia voglia di rimanere seduto su un sasso ad arrostirmi senza far nulla. Faccio per tornare allo zaino, deposto all’ombra della scogliera, quando maldestramente poso il piede su un’aguzza radice che si trova in mezzo alla sabbia. Credo non sia nulla, e vado avanti. Pochi secondi dopo pero’, sento un forte bruciore. Guardando in basso, vedo l’alluce destro di una tinta rossa che non ricordavo, cosa che mi fa esclamare “Cazzo!”. Mi son ferito – dai, tagliato, non esageriamo i termini! – al dito, evidentemente quella radice e’ stata piu’ perniciosa del previsto. Non volendo giocare ai castelli di sabbia su ferita, provo a pulirmi alla buona e a chiuderla. Tiro fuori dal mio zaino BearGrylls-equipped un po’ di cotone ed un cerotto, con i quali riesco a chiudere il taglio. Per il momento. L’area e’ piu’ grande del previsto. Non contento, anzi direi proprio incazzato, decido di tornare verso la macchina.
venerdì 25 novembre 2011
"..Cruising down Big Sur.." - pt.2
Rimango parecchi minuti a contemplare l’immensita’ che ho davanti, la forza delle onde che su questa larga spiaggia che osservo si trascinano a riva fino ad esaurirsi in una lunga cortina spumosa. Mi vengono in mente quelle volte in cui, alla tv, sento parlare di onde alte 10-15, addirittura 20 metri che distruggono tutto cio’ che incontrano. Gli tsunami, no? Io ascolto queste notizie piuttosto scettico, incredulo al pensiero che un onda marina possa essere alta come il palazzo in cui abito. Ebbene, solo ora capisco. Ora che mi trovo, in una giornata piatta, soleggiata e in assenza di vento – c’e’ solo l’immancabile brezza oceanica che mai potra’ assentarsi – a vedere onde di un paio di metri, capisco che quando le forze della natura si scatenano, non dev’essercene per nessuno. Come San Tommaso, ora ho visto e credo. In altre occasioni, per inciso, spero di poter credere anche senza dover per forza vedere, caro Tommaso! Tornando a Big Sur, continuo a meravigliarmi della natura che mi circonda. Se alla mia destra ho lo sconfinato oceano Pacifico e i suoi flutti, alla mia sinistra ho verdi colline che a volte son macchiate da qualche sporadico arbusto, da una piccola foresta, o dalla casa di qualche fortunato che – comprensibilmente – ha voluto muoversi fin qui per passare la vecchiaia in un posto decisamente delizioso. La strada si snoda lungo la costa fra dirupi, canyon e ponti che si sposano perfettamente con l’ambiente naturale, senza rovinarlo o degradarlo. I fiori, che spesso si incontrano anche in questa stagione, sono gialli, rossi, arancioni e bianchi, e contribuiscono nel loro piccolo a colorare ancor piu’ la scena. Guidare e’ un vero piacere. Senza fretta, senza l’assillo di dover per forza essere in un certo posto ad una determinata ora. Per quanto mi riguarda, potrei anche trovarmi a passar la notte nel bel mezzo della regione, in macchina, senza cibo. Tutto sommato, non sarebbe poi cosi’ brutto. Forse addirittura ne trarrei beneficio! Un luogo dove pero’ non posso (o non voglio) avventurarmi e’ la strada che dalla 1 svolta ad est verso Paso Robles, una strada tortuosa che si inerpica verso l’interno dei monti centrali e porta alla cittadina di Paso Robles appunto. Devono esserci dei gran begli scorci da quelle parti, e forse la natura risulterebbe ancor piu’ selvaggia, piu’ “The Last World”. Pero’, io che sono quello dei “rischi calcolati”, non mi accingo a dirigermi verso mete sconosciute, potenzialmente irraggiungibili e soprattutto all’imbrunire perche’ potrei rischiare di trovarmi in mezzo ai coyote e ai puma nel cuore della notte. Continuo sulla 1. Una cosa che mi si palesa altrettanto rapidamente e’ l’abbondanza di fauna. Avvisto, giusto sotto una curva che compie la strada, una piccola baia letteralmente ricoperta di elefanti marini. Mi avventuro in mezzo alla sabbia per fare qualche bella foto. Sono veramente tanti! Tutti assiepati su 5 metri di sabbia, a dormire, sonnecchiare, o giocare animatamente. Alcuni sono in acqua a procacciarsi del cibo. Quando sbadigliano, si intravedono i grossi denti che questi all’apparenza innocui animali sembrano non possedere. Piu’ in la’, dove l’oceano di apre, alcuni pellicani sorvolano le proprie prede acquatiche. Improvvisamente, eccoli tuffarsi “a chiodo”, aerodinamici, ali chiuse, verso il pesce che hanno individuato. In un attimo, l’uccello e’ in acqua con un pesce nel becco. Anche qui, non so perche’, ma e’ quasi ammaliante fissare questi uccelli mentre perlustrano le acque alla ricerca di un pesce, compiendo una sorta di dietro-front ogni 10-15 secondi, tornando indietro fino a quando l’obiettivo non e’ nel mirino. A quel punto, scatta l’attacco. Io vorrei provare invece a scattare una foto ma la lontananza del bersaglio e la complicita’ della luce ormai calante renderebbero l’impresa ardua. Mi concentro solo sulle bellezze che mi circondano. Scendendo verso sud, incontro sulla mia strada il paesino di Big Sur, un ammasso comunque modesto di motels e B&B, grazioso, non eccentrico ne’ eccessivo. Sempre sulla strada, incrocio dei campgrounds magnifici: erba verdissima e tagliata come fosse un campo da calcio, piazzole linde, panche bianche come quelle di una residenza presidenziale. In piu’, la bellezza inqualificabile dell’oceano dove tramonta il sole. Un sogno. Rimpiango di aver gia’ venduto il sacco a pelo e di non avere piu’ tarps. Le notti qui, a sensazione, devono essere piuttosto umide. Un’altra cosa che mi colpisce e’ l’abbondanza di quelli che io chiamo (ormai e’ un marchio di fabbrica), “rapaciazzi”. E’ pieno di rapaci ovunque: sugli alberi, in volo, per terra, sulle staccionate. Ovunque si giri lo sguardo si intravede qualcosa di piumato e piuttosto grosso. E poi, non solo rapaci, anche tanti altri pennuti di specie non identificabili, data la mia scarsa conoscenza in materia. E’ da tanto tempo che desidero acquistare una field guide o, ancor meglio, un libro della Audubon Society per erudirmi in merito ai volatili americani, ma non ho mai voglia di sborsare 25-28$ per un libro che, lo so, guarderei solo a colazione per le immagini colorate. Come un bambino. Come facevo da bambino: solo che all’epoca leggevo Topolino (cosa che peraltro faccio ancheadesso, saltuariamente). A proposito di rapaciazzi invece, volevo spezzare una lancia contro l’Irlanda, mia scorsa meta di viaggio. Ricordo benissimo le guide consultate che la dipingevano come un “paradiso del birdwatching”. Non faro’ il nome della guida per evitare di gettarvi discredito. Ma per Diana, l’Irlanda e’ tutt’altro che un paradiso del birdwatching! Vedere un rapace da quelle parti e’ come vedere un cammello alle Hawaii! Non ho una foto di tali creature tra 700 scatti presi in dieci giorni, a riprova. Questo, il Big Sur, puo’ dirsi un paradiso, soprattutto per quel che io chiamerei “rapaciaz-watching”. Here it’s amazing. Purtroppo, non ho tempo da perdere in appostamenti, scatti e quant’altro, e sapendo che gli ultimi sprazzi di luce mi varranno solo una bella foto del tramonto sul mare, lascio perdere i pennuti e cerco un bello spot dove godermi il sole che si inabissa sull’oceano. Lo trovo poco piu’ avanti sulla strada, in una piazzola dove mi fermo dopo che un poliziotto (e daje! Non vedo l’ora che finisca questo viaggio solo perche’ ne ho abbastanza di sentirmi un fuorilegge per qualsiasi cosa faccio!) mi aveva intimato di spostare la macchina in un baleno altrimenti mi avrebbe fatto una multa. La contravvenzione? Avevo lasciato la macchina per due minuti contromano MA a lato della strada, stavolta senza invadere la carreggiata. Bah, ormai ho rinunciato a guidare come si deve, tanto qualsiasi cosa faccio pare non vada bene. Mi sento braccato dalla legge. Mi conforta solo il caldo colore del tramonto oceanico. E’ l’imbrunire, e sono ancora beatamente in maniche corte. Immortalo un soggetto un po’ atipico, un gabbiano particolarmente a suo agio con i servizi fotografici a quanto pare, con il sole che, alle sue spalle, scende sotto le nuvole all’orizzonte. Mi giro verso sinistra e, magicamente, l’arcobaleno. La scena e’ idilliaca, di quelle che trovi dipinte solo in quadri esposti nei musei piu’ blasonati. Da una parte il blu dell’oceano, chiazzato di bianco dalla spuma delle onde. Dall’altra, il marrone scuro della nuda roccia e quello un po’ piu’ chiaro della terra, frastagliata, irregolare. Nel mezzo, non convenzionale, quasi verticale, un forte e ben definito arcobaleno, che quasi non arriva a lambire le acque. Un’immagine quasi irripetibile, di quelle che madre natura ci fa ammirare per pochi secondi soltanto, effimere. Un effetto tipo anteprima, come se stesse a dirti “Guarda un attimo qui, ma non dirlo a nessuno!”. Mi sento ancora una volta fortunato, graziato, dunque contento. Ho i brividi che mi corrono lungo la schiena mentre, con mano poco ferma per l’emozione, immortalo la scena. O almeno, ci provo, perche’ la maestria di madre natura non e’ immortalabile nemmeno da l piu’ bravo dei fotografi, tenetevelo bene in mente! Come un lupo di mare, piedi ben fissi su uno scoglio, scruto un’ultima volta l’arcobaleno che si dissolve all’orizzonte, inarco le labbra e annuisco col capo in segno di approvazione, e, realizzato, torno in macchina per l’ultimo, felice pezzo di strada. Questi momenti non si comprano. Quel che puoi comprare, al massimo, e’ un passaggio in aereo verso posti dove essi possono essere vissuti. Questo e’ quel che io credo di fare, adesso. E non mi stanchero’ mai di ripeterlo, non esiste a parer mio un modo migliore di spendere il denaro. Non esiste. La beneficenza e’ un’altra cosa, e in quanto a nobilta’ la cosa non si discute. Ma in quanto a comprare qualcosa, ecco, non c’e’ eguale. Una macchina non ti soddisfera’ mai altrettanto! Mi accontento della mia CuboCar per continuare lungo la 1 e scendere fino a Cambria, localita’ incastonata fra le colline che io trovo amabile. Assolutamente imperdibile. A prima vista, e credo anche a seconda, finisce dritta nella mia momentanea top 10 delle small towns in cui vorrei vivere. Cambria, California. Un villaggio di 6000 abitanti che sorge lungo la strada, protetta dalle colline e da fitti boschi che fanno sentire un po’ sicuri, danno una sensazione paragonabile al “calduccio” delle coperte in inverno. Poco distante, la spiaggia, bianca, assolata. Coyote e cervi visitano il paese, ogni tanto. La Main Street e’ tutta un negozio, una bottega, la casa del medico. I parcheggi sono fronte strada. Nessun WalMart, MostroMart o MegaShop qui. Nessun segno di megalomanie stile WestCoast, nessuna robaccia per turisti. Un semplice borgo vecchio stile, cosa che non posso fare a meno di amare. Ci guido attraverso per venti secondi, ma mi sembra di averci passato gli ultimi 6 mesi, a Cambria. Ci tornero’, spero. Un’altro posticino carino e’ la citta’ seguente, Morro Bay. La citta’ – 14.000 abitanti circa – prende il nome dalla grossa, possente roccia che si staglia sulla spiaggia di fronte, Morro Rock, appunto. Una roccia alta 177 metri che sa tanto da isola sperduta, stile Jurassic Park (troppe cose Jurassic style quest’oggi), e che all’alba e al tramonto e’ semplicemente bellissima. Sara’, forse, solo un rifugio per uccelli, coperto di feci d’uccello e penne d’uccello, ma visto dalla spiaggia al calar del sole e’ stupenda. Noto, e non serve che mi dia molte spiegazioni del fenomeno, che il 95% delle case piu’ prossime alla spiaggia ha una terrazza panoramica, con varie sdraio annesse. Con un panorama cosi’, credo che nessun abitante della citta’ voglia negarsi il piacere di rientrare da lavoro, accomodarsi sulla sua sdraio, un drink in mano, magar un bel libro, e godersi lo spettacolo del tramonto sull’oceano e la Morro Rock. Non sapete quanto invidio quelle persone. So che e’ una brutta cosa, l’invidia, ma vogliate perdonarmi, voi tutti. Quando passerete da quelle parti, forse capirete cio’ che intendo dire. Passo oltre Morro Bay, la sua roccia, le sue case con ampie finestre panoramiche e terrazze armate di sdraio, la sua via principale ampia e ornata di motel, e faccio le ultime miglia fino a San Luis Obispo. Non c’e’ nulla di carino qui, al contrario delle cittadine precedenti. E’ piu’ grossa, piu’ caotica, meno scenografica. Anzi il mare non si vede neanche di striscio. Se qualcuno si domandera’ perche’ abbia voluto fermarmi qua, ebbene, la ragione e’ presto detta: spero di trovare posti a dormire piu’ facilmente e a prezzi piu’ economici. Anche se trovare un motel qui in giro sembra un’impresa di non poco conto. C’e’ una festa giu’ in paese e molte strade mi sono precluse. Quelle che guido io sono ovviamente prive di alcuna struttura ricettiva. Non vedo le solite insegne luminose di motel e hotel (sto iniziando a pensare che di notte le spengano per complicarmi il compito, stronzi bastardi). Deciso a tornare indietro e ripercorrere tutta la Main dall’inizio alla fine, mi imbatto in un motel a lato della strada con un’insegna verdognola. Non ci penso due volte e giro bruscamente, guadagnando il parcheggio. Alla reception trovo una giovane ragazza indiana di nome Karamjit, con cui anche se son parecchio stanco parlo un po’. Le parlo del mio viaggio che aime’, sta finendo, di come sto viaggiando da solo, di quanto mi sia finora divertito. Le chiedo la password per usare internet e alla fine, ci scambiamo il contatto Facebook. “Dammi 5 minuti che salgo in camera, mi connetto, e ti confermo l’amicizia”, le dico! E cosi’ faccio. Dopo una giornata quantomai mutevole, ricca di imprevisti, di bellezze, di momenti gloriosi, sono pronto a coricarmi per il mio penultimo riposo americano. Sono contento di aver incontrato Karamjit: nonostante il tempo che abbiamo passato assieme si possa quantificare in 10 minuti – e nonostante non mi abbia fatto sconti sulla camera! (scherzo!) – questa semplice conversazione mi ha reso di ottimo umore. Queste sono le persone che servono mentre viaggi da solo, quelle che anche se sei stanco, o triste, o nostalgico, ti fanno tornare sereno con una bella risata o con un po’ di sana, semplice buona compagnia. Queste sono quelle persone che cito come esempio alle persone che mi chiedono “Ma non ti annoi a viaggiare da solo?”. No, in realta’, ho tanti amici diversi, giorno dopo giorno. E piu’ divertente che mai! Vado a dormire oggi, 6 ottobre, con il Big Sur nel cuore.
mercoledì 23 novembre 2011
Last call: razza umana
Interrompo il mio diario di viaggi per una sola, significativa nota suggeritami dalla visione del TG di questa sera. Cosa voglio dire? Semplice: che il mondo sta ufficialmente andando a puttane. Ha iniziato ufficialmente la discesa verso un punto di non ritorno. Ci siamo voluti male per troppo tempo, abbiamo fatto male per troppo tempo, ed ora iniziamo a sentirne gli effetti. Ma andiamo con calma.
Secondo i Maya il mondo dovrebbe finire il 21 dicembre 2012. Non finire, secondo alcuni, ma quantomeno subire profondi, begativi mutamenti che potrebbero come no mettere a repentaglio l'esistenza della vita umana. Guerre? Meteoriti? Invasioni aliene? Scarichi dei cessi che esplodono e inondano il mondo di merda? Puo' darsi.
Io a riguardo ho la mia teoria. All'inizio era balzana, ora la vedo corroborata giorno dopo giorno dalle notizie che sento al TG.
ECONOMIA: tracollo dei mercati, sfiducia degli investitori, crollo delle quotazioni di qualsiasi titolo, difficolta' per qualsiasi azienda, meno soldi, meno ricchezza (per la gente media), piu' ingiustizia. Scenario tragico, questo. Credetemi, lavoro in banca e ho modo di tastare parecchi polsi per quanto riguarda il pensiero sulla situazione economica attuale. La gente ha paura, e non solo i pensionati. Io stesso, ho paura. Lavoro da due anni e vedo i miei pochi risparmi evaporare giorno dopo giorno. Perdere cifre a 4 zeri a 24 anni.. cazzo, non e' bello. Ti mette una strizza da paura, e' roba da farti nascere male e finire peggio la giornata. Devi essere forte per sorridere durante il giorno, e grazie a Dio spesso lo sono. L'economia - per ragioni che non capisco a fondo e che non provo a dibattere in questa sede - sta andando in malora, il dio denaro ha schiavizzato troppa gente ed ora sta pretendendo il suo avido compenso in termini di rovina finanziaria di molte persone. L'economia, e' una causa e un motivo per cui il mondo potrebbe finire.
GUERRA: dai cazzo, pensate alla fame dei popoli africani. Pensate a tutta quella gente che sotto il culo ha oro, diamanti e chissa' cos'altro ma mangia merda una volta alla settimana. Mentre il vicino potente si prende tutta la grana e si costruisce le ville in Thailandia, i campi da golf in Scozia e le spa private a Miami. Quell gente - in Africa come in Asia, in Europa e in Sud America - prima o poi si rompera' le palle. Prima o poi - lo stiamo vedendo in Nord Africa - si stanchera' di tiranni, conquistatori e prepotenti e spacchera' culi a destra e a sinistra. E allora, saranno cavoli. E il bello e' che non potremo nemmeno avere il coraggio di contraddirli, perche' fondamentalmente saranno nel giusto. Le guerre, per fame, ricchezza o potere che siano, sono causa e motivo per cui il mondo potrebbe finire.
AMBIENTE: perche' diavolo alla tv sento gente allarmata che parla di riscaldamento globale? Anzi, perche' diavolo sento gente che si lamenta che d'estate fa troppo caldo, d'inverno troppo freddo, in autunno piove troppo e in primavera.. e' troppo primavera?! Perche'?? Perche' siamo una razza - si, noi esseri umani - di teste di cazzo. Siamo noi che distruggiamo il pianeta, che ci siamo impegnati alacremente per decenni a portarlo alla disfatta, ed abbiamo anche il coraggio di lamentarci. Ah, giusto. Forse la gente non collega le cose. Chiaro. Poveri cretini. Chissa', magari quel giorno di pioggia fissa come una cagata di una mucca e che provoca alluvioni, frane e morti, e' il segno di qualcosa?! Forse no. Ma magari il fatto che capiti anche due giorni dopo a poca distanza puo' voler dire qualcosa?! Naa. Dunque, anche il fatto che queste piogge che sembrano semplici.. piogge, non monsoni, portino morte e distruzione a nord, al centro, a sud, indistintamente, questo potrebbe essere un segno che qualcosa non va?! ASSOLUTAMENTE NO! Ma chi ci pensa! NESSUNO! Ma allora, emeriti cretini che non siamo altro, vogliamo prendere un po' di dati, anche solo riguardanti la nostra povera, malferma Italia, e vedere che le catastrofi ambientali si sono moltiplicate anno dopo anno negli ultimi decenni?! Che sia il caso di darci una mossa?! Che sia il caso di inquinare meno, distruggere meno, fare meno gli irresponsabili?! NO. Perche' vediamo solo quel che ci fa comodo vedere, e continuiamo a fare quel che ci fa comodo di fare. Sappiao benissimo trovare altri colpevoli, diversivi, pagliativi piu' o meno adeguati. Ma come si dice, "il lupo perde il pelo ma non il vizio". Occhio pero', che se questo e' l'andazzo il lupo rischia di perdere anche la vita, stavolta. L'ambiente, l'ambiente e' causa e motivo per cui il mondo potrebbe fallire.
Ne ho dette abbastanza? Tre. Il numero perfetto: economia, guerra, ambiente. Tre materie, tre macrosfere che rischiano potenzialmente di far esplodere il mondo. In senso metaforico, per ora. Si, perche' non si sa mai che qualche meteora non decida di fare un viaggetto sul nostro pianeta. Ma questo, forse, e' da escludere.
I Maya hanno predetto questa fine del mondo. Loro poi, qualcuna ne hanno gia' azzeccata. E allora, cari esseri umani, noi che crediamo alle cose piu' stupide e facciamo le cose piu' stupide, proviamo a credere anche a loro. Noi che crediamo ai politici e ai loro programmi elettorali, che siamo colti da compassione per i cagnolini abbandonati ma facciamo morire di fame milioni di bambini africani, che crediamo a Nostradamus e ai Maya ma non al signore Gesu', che pensiamo che le alluvioni siano demerito delle amministrazioni locali (a volte, un fondo di verita' c'e') ma non pensiamo che in realta' tutto il mondo incontra catastrofi sempre piu' grandi a causa della nostra sciatteria.. Ebbene, cari esseri umani, proviamo a credere sul serio a questi Maya. L'ANNO PROSSIMO FINIRA' IL MONDO! SUL SERIO!
Chissa' che finalmente, tutti, davvero, iniziamo a riparare alle nostre malefatte, ad essere tutti piu' buoni, piu' diligenti e piu' assennati. Come i propositi di un bambino in una lettera a Babbo Natale.
Altrimenti, nemmeno lui potra' salvarci, stavolta.
Secondo i Maya il mondo dovrebbe finire il 21 dicembre 2012. Non finire, secondo alcuni, ma quantomeno subire profondi, begativi mutamenti che potrebbero come no mettere a repentaglio l'esistenza della vita umana. Guerre? Meteoriti? Invasioni aliene? Scarichi dei cessi che esplodono e inondano il mondo di merda? Puo' darsi.
Io a riguardo ho la mia teoria. All'inizio era balzana, ora la vedo corroborata giorno dopo giorno dalle notizie che sento al TG.
ECONOMIA: tracollo dei mercati, sfiducia degli investitori, crollo delle quotazioni di qualsiasi titolo, difficolta' per qualsiasi azienda, meno soldi, meno ricchezza (per la gente media), piu' ingiustizia. Scenario tragico, questo. Credetemi, lavoro in banca e ho modo di tastare parecchi polsi per quanto riguarda il pensiero sulla situazione economica attuale. La gente ha paura, e non solo i pensionati. Io stesso, ho paura. Lavoro da due anni e vedo i miei pochi risparmi evaporare giorno dopo giorno. Perdere cifre a 4 zeri a 24 anni.. cazzo, non e' bello. Ti mette una strizza da paura, e' roba da farti nascere male e finire peggio la giornata. Devi essere forte per sorridere durante il giorno, e grazie a Dio spesso lo sono. L'economia - per ragioni che non capisco a fondo e che non provo a dibattere in questa sede - sta andando in malora, il dio denaro ha schiavizzato troppa gente ed ora sta pretendendo il suo avido compenso in termini di rovina finanziaria di molte persone. L'economia, e' una causa e un motivo per cui il mondo potrebbe finire.
GUERRA: dai cazzo, pensate alla fame dei popoli africani. Pensate a tutta quella gente che sotto il culo ha oro, diamanti e chissa' cos'altro ma mangia merda una volta alla settimana. Mentre il vicino potente si prende tutta la grana e si costruisce le ville in Thailandia, i campi da golf in Scozia e le spa private a Miami. Quell gente - in Africa come in Asia, in Europa e in Sud America - prima o poi si rompera' le palle. Prima o poi - lo stiamo vedendo in Nord Africa - si stanchera' di tiranni, conquistatori e prepotenti e spacchera' culi a destra e a sinistra. E allora, saranno cavoli. E il bello e' che non potremo nemmeno avere il coraggio di contraddirli, perche' fondamentalmente saranno nel giusto. Le guerre, per fame, ricchezza o potere che siano, sono causa e motivo per cui il mondo potrebbe finire.
AMBIENTE: perche' diavolo alla tv sento gente allarmata che parla di riscaldamento globale? Anzi, perche' diavolo sento gente che si lamenta che d'estate fa troppo caldo, d'inverno troppo freddo, in autunno piove troppo e in primavera.. e' troppo primavera?! Perche'?? Perche' siamo una razza - si, noi esseri umani - di teste di cazzo. Siamo noi che distruggiamo il pianeta, che ci siamo impegnati alacremente per decenni a portarlo alla disfatta, ed abbiamo anche il coraggio di lamentarci. Ah, giusto. Forse la gente non collega le cose. Chiaro. Poveri cretini. Chissa', magari quel giorno di pioggia fissa come una cagata di una mucca e che provoca alluvioni, frane e morti, e' il segno di qualcosa?! Forse no. Ma magari il fatto che capiti anche due giorni dopo a poca distanza puo' voler dire qualcosa?! Naa. Dunque, anche il fatto che queste piogge che sembrano semplici.. piogge, non monsoni, portino morte e distruzione a nord, al centro, a sud, indistintamente, questo potrebbe essere un segno che qualcosa non va?! ASSOLUTAMENTE NO! Ma chi ci pensa! NESSUNO! Ma allora, emeriti cretini che non siamo altro, vogliamo prendere un po' di dati, anche solo riguardanti la nostra povera, malferma Italia, e vedere che le catastrofi ambientali si sono moltiplicate anno dopo anno negli ultimi decenni?! Che sia il caso di darci una mossa?! Che sia il caso di inquinare meno, distruggere meno, fare meno gli irresponsabili?! NO. Perche' vediamo solo quel che ci fa comodo vedere, e continuiamo a fare quel che ci fa comodo di fare. Sappiao benissimo trovare altri colpevoli, diversivi, pagliativi piu' o meno adeguati. Ma come si dice, "il lupo perde il pelo ma non il vizio". Occhio pero', che se questo e' l'andazzo il lupo rischia di perdere anche la vita, stavolta. L'ambiente, l'ambiente e' causa e motivo per cui il mondo potrebbe fallire.
Ne ho dette abbastanza? Tre. Il numero perfetto: economia, guerra, ambiente. Tre materie, tre macrosfere che rischiano potenzialmente di far esplodere il mondo. In senso metaforico, per ora. Si, perche' non si sa mai che qualche meteora non decida di fare un viaggetto sul nostro pianeta. Ma questo, forse, e' da escludere.
I Maya hanno predetto questa fine del mondo. Loro poi, qualcuna ne hanno gia' azzeccata. E allora, cari esseri umani, noi che crediamo alle cose piu' stupide e facciamo le cose piu' stupide, proviamo a credere anche a loro. Noi che crediamo ai politici e ai loro programmi elettorali, che siamo colti da compassione per i cagnolini abbandonati ma facciamo morire di fame milioni di bambini africani, che crediamo a Nostradamus e ai Maya ma non al signore Gesu', che pensiamo che le alluvioni siano demerito delle amministrazioni locali (a volte, un fondo di verita' c'e') ma non pensiamo che in realta' tutto il mondo incontra catastrofi sempre piu' grandi a causa della nostra sciatteria.. Ebbene, cari esseri umani, proviamo a credere sul serio a questi Maya. L'ANNO PROSSIMO FINIRA' IL MONDO! SUL SERIO!
Chissa' che finalmente, tutti, davvero, iniziamo a riparare alle nostre malefatte, ad essere tutti piu' buoni, piu' diligenti e piu' assennati. Come i propositi di un bambino in una lettera a Babbo Natale.
Altrimenti, nemmeno lui potra' salvarci, stavolta.
"..Cruising down Big Sur.." - pt.1
Sono negli Stati Uniti d’America, dunque appena suona la sveglia, mi alzo e finisco la lattina di coca cola acquistata ieri notte in corridoio durante un tremendo attacco di sete. Stupida zuppa di molluschi, sarai anche buona ma fai venire piu’ sete della piu’ piccante delle pizze. Poi svegliarsi alle 7 e bere coca cola, ve lo posso assicurare, non e’ il massimo. E detto da me, abituato a qualsiasi (o quasi) brutalita’ culinaria, la cosa rende. Questo risveglio frizzante anche se un po’ sgasato mi appronta per la giornata, e dopo aver riordinato tutto sono deciso ad uscire fuori dall’hotel, effetti essenziali alla mano, per fare colazione. Faccio per aprire la porta, cappellino in testa e occhiali da sole gia’ infilati – auspicante una lunga giornata di sole per la mia avventura on the road giu’ nel Big Sur – ma anziche’ i raggi del sole trovo ad accogliermi na acqua che Dio a manda. Passatemi l’espressione dialettale, ma necessaria. Colto di sorpresa, mi avvio mestamente dietro l’angolo, quartiere malfamato, ed entro in un bieco localino messicano che ha appena aperto. Anzi, ad onor del vero sta aprendo, perche’ lo colgo mentre sta sistemando gli ultimi tavoli e accendendo le luci. Inaguro la sua spoglia giornata lavorativa. Per colazione desidero una tortillas con mexican beans, egg and cheddar cheese, piu’ breakfast potatoes come contorno. Da bere, ispirato dal clima, una cioccolata calda. Posto pietoso, colazione appena sufficiente, giornata che se inizia cosi’ passera’ agli annali come una delle peggiori delle mie vacanze. Mentre esco dal locale, come nel cartone di Robin Hood quando arrestano il povero Frate Tuck, scende una pioggia battente. Stavolta sopra il cappellino alzo anche il cappuccio della felpa e, come un criminale dei peggiori ghetti di Chicago, torno scuro verso l’hotel. In poco tempo sono pronto per partire, per lasciare questa citta’ avara e puntare altrove. Carico le valigie in macchina e parto, maledicendo per un ultima volta San Francisco. Di sicuro non la recensiro’ e pubblicizzero’ come la citta’ amabile, carina e pittoresca che tutti pensano e descrivono. Il fatto e’, purtroppo, che non e’ ancora finita. Mi viene dato un altro motivo per odiare questo posto: le sue stramaledette strade che vietano di svoltare in uno dei due sensi di marcia. Lungo una delle tante vie del reticolato cittadino in cui mi ritrovo a guidare, molto vicino al’entrata della freeway che devo prendere, mi trovo sommerso da cartelli “NO TURNS” che mi impediscono di prenderla. E avanti uno, due, tre, quattro incroci.. nessuno che mi faccia svoltare a sinistra, il lato dove devo girare ed il lato, fatalita’, proibito. Mi domando: come diavolo faccio ad entrare in autostrada? Mi ci devo teletrasportare forse? Sono forse i cittadini di San Francisco muniti della tecnologia – il teletrasporto – che tutto il mondo vorrebbe possedere? Ne dubito, ed intravedo una soluzione grazie ad una macchina che mi sta di fronte. Infischiandosene bellamente del divieto posto sopra la corsia piu’ verso sinistra, mette la freccia e svolta. Oppresso, stanco, incazzato gia’ all 8 del mattino, lo imito in barba alle possibili conseguenze. Potrei far cambiare idea anche ad un vigile, ora come ora. Salgo sulla 101 e guido verso Sud, direction Los Angeles. La 101, One-O-One, come dicono qui. Quella della canzone “California”, che canta “..driving down the One-O-One..”, proprio come faccio io. Oh, mi piace troppo fare qualcosa che ogni tanto mi capita di canticchiare! E’ una bella sensazione! E con questo stato d’animo idiota, continuo a macinare miglia. Purtroppo, visto il tempo crudele, non posso far altro che volare basso in quanto ad obiettivi di giornata, e cio’ che di piu’ alto posso pormi e’ di visitare il famoso acquario di Monterey. Famos, si, almeno per chi si interessa abbastanza di Stati Uniti e segue NatGeo channel. Diciamo che non e’ molto noto al di fuori della propria nazione. Forse ne capisco il perche’, mentre lo visito. Nonostante il biglietto esoso – 29$, sui quali ottengo un gentile sconto “in fiducia” di 2$ quando dico di essere studente ma senza mostrare alcun documento! – l’acquario non regala molto. O almeno, non regala molto d piu’ degli acquari che ho gia’ visto, ad esempio, a Vancouver o a Denver. Vado sempre a vedere degli acquari, quando posso! I pesci sono una mia passione. Se devo essere onesto, vi diro’, Vancouver rimane ancora il migliore, fra i tre. Monterey e’ comunque notevole, ha tutti i grossi pesci che un grosso acquario deve annoverare, ed addirittura proclama una vasca con il mitico squalo bianco. Appena vedo il cartello vado in brodo di giuggiole. Non vedevo l’ora di vederne uno dal vivo. Vengo pero’ presto smontato, quando nella penombra creata di fronte alla vasca intravedo la creatura nuotare lentamente in acqua. Sara’ un’esemplare di due metri se tutto va bene. Che fregatura, non lo chiamerei neanche squalo bianco. Tutto questo puzza da fregatura, tecnicamente regolare ma comunque fregatura. Cioe’, c’e’ un pesce luna affianco allo squalo che e’ piu’ grande di lui tra un po’! Lascio perdere, e procedo innanzi. Passo veloce le varie stanze, al solito non filo di striscio nessuna delle didascalie esplicative sotto ogni vasca, facendo il turista ignorante e solo osservante. Esco ed al posto della pioggia trovo una bella aria frizzante ed un sole promettente. Felice, esploro quella che sembra una bella stradina vivace, Cannery Rd. Mi imbatto, lungo questa strada che vive sulle spalle degli afflussi turistici al’acquario, in una vecchia conoscenza di Denver, il “Bubba Gump Shrimp Co.”, catena dove mi sono abbuffato di gamberi lo scorso anno. Visito qualche negozio di souvenirs e infine, con calma olimpica, prendo un cinnamon roll con un’invitante glassa bianca, appena sfornato. Mi viene servito quasi fumante, su un piatto fondo di cartone, con forchetta e coltello. Il cinnamon, bello spesso e consistente, e’ DE-LI-ZIO-SO. Spesso ho argomentato contro queste creazioni dolciarie dal sapore troppo deciso dato dalla canella. Invece, devo ricredermi. E’ stupendo, e me lo godo boccone dopo boccone seduto su una panca esposta al sole. Altro che Red Bull ti mette le ali. Potrebbe scoppiare una bomba a cento metri da me e nemmeno me ne accorgerei, tanto sono concentrato su e deliziato da cio’ che sto mangiando. Ripresomi dallo shock – anzi, finito il roll – mi alzo e in macchina guido per Monterey. Sembra una citta’ assolutamente piacevole, vivibile. Le sue dimensioni ridotte, credo attorno ai 37mila abitanti, l’assenza di grattacieli, l’influenza marcatamente spagnola, ne fanno un centro marittimo molto gradevole, di quelli senza eccessi. C’e’ l’oceano e tutto cio’ che comporta (spiagge, surf, pesca, aria fresca), ma anche tanti spazi verdi verso l’interno ed un’urbanistica senza gli obbrobri architettonici delle grandi citta’. L’atmosfera sembra quasi quella familiare delle cittadine del West. Mi piace, mi piace. E’ un peccato non aver tempo a sufficienza per potersi dire “Ora mi faccio due passi qui attorno”, e godersi la citta’ con i giusti tempi. Mi ritaglio del tempo, invece, non appena vedo un Denny’s. L’appetito non e’ grande, tant’e’ che ho da poco terminato il mio dolce spuntino, ma ragazzi, vedere un Denny’s e’ come vedere.. no, ho in mente una battutaccia sporca che per non rovinare il mio appeal britannico omettero’ di scrivere. Comunque, vedere un Denny’s per me vuol dire che sono gia’ dentro. E cosi’ e’ anche stavolta, non fa eccezione. Passato un balordo che si aggira con aria losca per il parcheggio, in cerca di qualche spicciolo o meglio di qualcuno che si fumi un cannone con lui, entro ed ordino una cosa che avevo assolutamente voglia di assaggiare di nuovo. Una mia vecchia conoscenza, dei tempi gloriosi di Page, AZ (sembrano passati millenni invece era solo una decina di giorni fa! Magia del viaggio). Parlo del Mozzarella Sticks Sandwich. Ne prendo uno, giusto per levarmi quel fastidioso, leggerissimo languorino, ma gia’ che son seduto non vedo perche’ non prendere anche un aperitivo, ovvero delle patatine fritte con bacon e formaggio fuso. Sono ormai, tristemente, ufficialmente, un maiale all’ingrasso. Un pollo ruspante lasciato libero di pascolare in America sotto la tentazione di ogni golosita’. Prima o poi il fattore (colui che lavora nella fattoria) mi accoppera’ e si godra’ le mie ricche carni alla vigilia di Natale. Maledizione. Degusto il mio banchetto, assieme alla solita, generosa lemonade mentre leggo i valori nutrizionali di ognuno dei piatti dei Denny’s, tratti da un menu’ apposito che non avevo mai visto prima. Mi pare citi la parola HEALTHY in copertina. Ma dove? Forse davanti c’era scritto anche THAT’S NOT ma non ci metterei la mano sul fuoco. Chissa’. Fattosta’ che non vi diro’ nulla a proposito, primo perche’ il menu’ e’ interamente scaricabile dal sito del franchising, secondo perche’ vi verrebbe la pelle d’oca e mi dareste un’aspettativa di vita piuttosto bassa! Su quest’ultima, spero vi sbaglierete! Colto da improvvisa, lancinante pienezza di stomaco, lascio il locale, passo di nuovo il balordo, faccio un po’ di benzina e parto, stavolta senza piu’ stop fino a San Luis Obispo, una cittadina di media grandezza senza infamia senza lode, che per me segnera’ la fine del Big Sur. Eccolo qui, il Big Sur. Questo e’ cio’ che sto andando a vedere. Ne ho sentito parlare molto bene: selvaggio, pittoresco, scenico, amabile, incarna l’anima selvaggia della California pur non tralasciandone tratti caratteristici come sabbia, oceano e surf. Il Big Sur e’ una regione prevalentemente montuosa, dove l’interno e’ selvaggio tanto da ospitare (ancor’oggi) al suo interno i puma e le aquile che da queste parti stavano invece seguendo il cammino dell’orso grizzly, visto per l’ultima volta ben piu’ di un secolo fa. La vicinanza dell’oceano e delle sue correnti fa si che bassissime nuvole semi-perenni offoschino di continuo le cime dei rilievi montuosi della regione, non molto alti ma estremamente belli e rigogliosi in quanto a vegetazione. La strada che permette di assaporare al meglio questi posti e’ la California 1, un simbolo, lo fa pensare anche il nome. La numero uno. Serpeggia fra spiagge da film, scogliere a picco sull’oceano, altipiani rigogliosi e foreste incantate. Insomma, pare proprio sia uno spettacolo imperdibile, e conscio di cio’ imbocco la 1, speranzoso. Sono solo – che dico “solo”, decisamente! – triste per il fatto che il tempo non sia dalla mia. Il poco sole comparso in precedenza e’ tornato dietro ad un fitto strato di nubi, addirittura seguito da qualche leggera pioggia. Mi viene male al pensiero di guidare una regione mozzafiato come questa circondato da banchi di nubi e con la continua seccatura della pioggia. Il morale scende a picco. Sono combattuto quando mi fermo alla prima piazzola che incontro sulla via. Scendo per ammirare un paesaggio che definisco “primordiale”, in quanto composto da una fitta foresta di alberi tetri, scuri, con quella specie di muschio, lichene, color verde chiaro, che penzola da qualsiasi ramo. Questi alberi, che fanno molto atmosfera Jurassic Park, o per stare ai giorni nostri, mi ricordano molto il Nord Ovest (l’Olympic National Forest), crescono su ripide scogliere di colori che vanno dal rosso all’ocra, per gettarsi sull’oceano che ora e’ ancora scuro, minaccioso, possente. Continuo a guidare, sono appena all’inizio, prima o poi se Dio vuole un po’ di sole mi aiutera’. Non tarda troppo ad avverarsi questo mio sogno. Mr. Sun si rivela in tutta la sua possenza, per non lasciarmi piu’ fino alla fine della giornata, fino al calar delle tenebre. Le nuvole d’ora in poi, nemmeno tante a dire il vero, serviranno solo a rendere il cielo ancor piu’ scenografico nelle mie fotografie. Ed ora che inizio finalmente a godermi la guida, ora che con il sorriso stampato in volto ascolto e canticchio qualche bella canzone country, posso capire a fondo la bellezza di questa splendida regione. Voglio provare – anche se e’ la missione e’ difficile – a descrivere un po’ di questa bellezza. Anzitutto, l’oceano. Con le sue onde, bianche, spumose e apparentemente enormi anche se spira solo una leggera brezza. Appunto, la brezza, che rende l’aria piacevolmente fresca e profumata, un profumo che risveglia il mio spirito marinaro. Il mio pensiero vola quindi a qualche astratta considerazione suggeritami dal mio fissare l’acqua, per qualche minuto. Penso che l’oceano, questa tremenda forza della natura, sia una cosa alquanto temibile. Puo’ distruggere, persino uccidere, creare catastrofi. Spesso pero’, per fortuna, ammalia le persone, le fa innamorare di se’ al punto che alcuni decidono di dedicargli la propria vita. Io sono inspiegabilmente attratto dall’acqua, dal mare, e dall’oceano ancor piu’. Sottolineo la parola “inspiegabile”, non c’e’ un motivo preciso per cui uno e’ attratto da esso. Non e’ perche’ a qualcuno piace il colore dell’acqua che si finisce per spendere una vita tra i flutti. Pur affascinato dall’acqua, sono anche il primo a temerla. Di conseguenza, a rispettarla. E alla fin fine, credo che il nocciolo della questione sia questo, il rispetto. Come noi otteniamo amicizia e benevolenza da una persona che ammiriamo e rispettiamo, cosi’ funziona con il mare – e con la natura in genere. Potremmo mai ottenere benevolenza da qualcuno che noi per primi non rispettiamo, tralasciamo o addirittura ignoriamo? Non credo, a meno che non ci troviamo di fronte a dei veri e propri santi. Purtroppo pero’ le forze della natura non sono “sante” e nemmeno “benefattrici”, e se non le rispettiamo e allo stesso tempo temiamo, non ci restituiranno mai nulla. Forse anzi, ci toglieranno qualcosa.
lunedì 21 novembre 2011
The thing is gettin' unbelievable
The thing is getting unbelievable (cosi’ riporta il diario originario dell’autore). Ricordate la puntata dei Simpson, Homer contro la citta’ di NY, che avevo citato in precedenza? Ebbene, credevo di averlo fatto in modo genuino, simpatico, cosi’ per addolcire un po’ l’acidita’ di stomaco montata gia’ nella prima giornata a San Francisco. E invece mi ritrovo a pensare che devo essermi tirato dietro una nera (trad. SFORTUNA) da paura, di quelle mai viste prima zio cowboy. Il perche’ e’ presto detto. Esco di casa, anzi, d’albergo, alle ore 8, dopo una frugale colazione consumata nel piano interrato dell’hotel semifrancese. Della colazione non voglio ricordare nulla, perche’ rispetto ai comuni standard americani piu’ che una colazione e’ stata uno stuzzichino. E la cameriera mi ha anche semiforzato a lasciarle una mancia. Micragnosa fino all’osso. Le ho lasciato un dollaro giusto per darle il contentino, alla faccia sua! Ricordo invece di esser sceso con la mia brand-new tshirt dei Green Bay Packers (squadra di football americano, campione in carica di NFL) e di aver incontrato una signora che mi dice “Oh, Packers fan?” e io “Well, actually I’m an Italian Saints fan!” (I Saints sono un’altra squadra di football). E la signora scoppia a ridere. Le spiego che in realta’ sono anche simpatizzante di Green Bay, dopo aver letto un bel libro sulla storia del franchising. Lei, invece, ribatte dicendomi di essere una tifosa dei Chicago Bears. Quest’ultimi, per chi non lo sapesse, sono rivali dei Packers tanto quanto il Milan e’ rivale dell’Inter. Chiaramente, vedermi con la maglietta dei Packs non e’ stata la cosa piu’ bella che avesse potuto chiedere per iniziare la giornata! Ad ogni modo, ci scherziamo su, e addirittura si prende da sola un po’ in giro per tifare una squadra che non vince da parecchi anni. Infine, mi augura una buona giornata, dicendomi che potro’ comunque portare la tshirt con orgoglio, fino al prossimo Super Bowl. E per come stanno andando le cose in questa nuova stagione di NFL, direi forse anche fino a quello successivo! Football a parte, altro non ho di cui ricordare in merito alla colazione. Dunque, rieccomi, a saldare il conto alla reception e, con le mie due fide valigie, incamminarmi verso l’uscita. Apro la porta, ed eccomi in strada. Volgo il mio sguardo a destra, direzione nord-est, in cerca della mia macchina. Prima pero’ mi avvedo di una cosa, un piccolo particolare importante: non c’e’ una sola macchina lungo tutto il marciapiede, sia quello dove mi trovo che quello opposto. Ricordo di aver lasciato la macchina, ieri sera, schiacciata tra un’altra vettura e l’incombere di un incorcio, ogni buco lungo entrambi i lati della strada clamorosamente occupato. Non mi par di ricordare di aver assunto alcolici o usato stupefacenti la notte scorsa, quindi scarto l’ipotesi di ricordar male. Scruto l’orizzonte, lustrandomi gli occhi da quella sorta di patina mattutina che offusca la vista, ma il risultato e’ sempre quello: no cars. Allora, mi rivolgo a me’ stesso con una frase che e’ poi passata alla storia: “Va ben che e’ mattina presto, ma da qui a non vedere una macchina ce ne passa eh ragazzo!”. Giungo alla conclusione che sto guardando dalla parte sbagliata – anche se non son del tutto sicuro di cio’. Ma anche verso ovest, lo scenario e’ lo stesso, altrettanto desolante: una strada vuota come le pianure del Manitoba del sud. Devo risolvere questo inquietante dilemma mattutino. Stanno iniziando a farsi strada in me terribili, foschi dubbi. Per provare a fugarli, o alla peggio a confermarli, attraverso la strada in cerca di un simbolo che ricordo disegnato sulla strada, a pochi centimetri dal luogo dove ho lasciato l’auto la sera prima. Purtroppo, dannazione eterna, lo trovo li’, a confermare i miei dubbi e a gettarmi in un altro, scontato, baratro finanziario e psicologico. Evidentemente, la mia macchina dev’essere stata rimossa. O rubata. Credo poco pero’ al furto di un’intera macchina nel centro di SF, anche perche’ probabilmente farebbe risultare questa mia vacanza come l’ultima volta in cui misi piede negli Stati Uniti d’America. A questo punto, parte la consueta raffica di imprecazioni contro ignoti. Contro me stesso, contro la citta’, contro l societa’ che rimuove le macchine, contro la segnaletica, contro le solite divinita’ estranee al mio credo. Inoltre, per cercare di darmi una spiegazione plausibile della rimozione dell’auto, indago i dintorni in cerca di un cartello stradale chiarificatore. Lo trovo esattamente sopra la mia testa, in un posto dove uno potrebbe obiettarti “Se non lo vedi o sei un pirla o stai dormendo”, ma tu potresti rispondere “Era proprio sopra di me, come facevo a vederlo?!”. Ormai non conta piu’, e leggendolo vedo che pone un divieto di sosta giornaliero tra le 6 e le 8 del mattino. Sono appunto le 8, e se tutto va bene qualche stronzo adesso iniziera’ a riempire i lati della strada. Alla faccia mia. Maledetta segnaletica stradale posizionata in alto e dietro ad arbusti e maledetta fascia oraria. Non possono pulirla alle 10 la strada??! Per cosi’ dare il tempo ai poveri turisti stanchi di abbandonare il proprio rifugio notturno senza doversi dissanguare presso la societa’ di rimozione??! Ma porca.. Questa citta’ mi vuole morto, mi vuole imprecante, incazzoso. Non ho mai maledetto cosi’ tanto la vita di citta’ come in questi momenti. Mi faccio coraggio e approfitto di un policeman nei paraggi per chiedergli delucidazioni sul da farsi. Devo recarmi a sud presso l’autorimessa, pagare la megamulta e ritirare il mezzo. Lascio le valige in hotel – dove mi ammoniscono che dovro’ pagare un bel po’ (EVVAII) – e prendo un taxi. E’ la prima volta che ne prendo uno, e sinceramente spero proprio sia anche l’ultima. L’indiano (indiano dell’India intendo!) che lo guida parla malissimo e guida addirittura peggio. Credo abbia preso la patente a Napoli, ma porto piu’ a fondo la questione. Mi spaventerei credo. E poi, 10,5$ per 10 minuti mi sembrano un po’ tanti. Non so quali siano le tariffe usuali dei taxisti, ma se sono ovunque cosi’ credo debba pensare seriamente ad entrare nel business. Se lo faccio poi in una citta’ americana, potrei diventare milionario. Pazzo, ma milionario. Entro in ufficio, spiego alla signorina il fattaccio, e gia’, subito, mi gira il POS per pagare. Come per prepararsi ad una sparatoria, apro il portafoglio e metto mano alla carta di credito. Lei mi fissa negli occhi. Io faccio altrettanto. Una goccia di sudore, freddo, mi scende dalla tempia destra. Trepidazione. Lei spara. 394 DOLLARI! Io, troppo lento, vengo colpito a morte. La carta di credito mi cade a terra, ed io la seguo (drammatizzazione). Rinvenuto, con la bocca aperta come colpita da paralisi, realizzo l’ammontare della somma ed impreco davanti alla signorina. Infilo la carta nel POS e autorizzo il pagamento. Sono dolori. Penso a quanto dovro’ lavorare per pagare questa sanzione. Aggiungo i giorni gia’ calcolati per pagare l’altra multa. Mi vien da vomitare. Ma almeno potro’ farlo nella MIA macchina ora. Monto, mando a fan cuore gli addetti della societa’ e mi reco presso il mio nuovo hotel, quello per la notte odierna. Appena smonto pero’, faccio per recuperare i bagagli ma trovo il bagagliaio vuoto. Oh cazzo. E le valigie, mr. Idiota? Stanno ancora al vecchio hotel!! Ma daai! (Babbuino che non sei altro). E di nuovo, piu’ incazzato che mai, rasentando la commedia, torno indietro e recupero i bagagli. Alnuovo hotel la prima cosa che chiedo e’ se sono dotati di un parcheggio. L’unica cosa che hanno e’ una convenzione con un park poco distante per cui mi domaderanno 19$ per 24 ore. Non e’ cosi’ economico, ma e’ sempre meglio di 394 bombe, concludo. Cosi’, senza perder tempo lascio giu’ le valigie e mi reco al parcheggio, per lasciar li la macchina e poter finalmente iniziare la parte produttiva della giornata. Un’altra brutta sorpresa pero’: pare che senza un pass rilasciato dall’hotel non possa entrare e fruire della convenzione. Ora mi girano i coglioni di brutto. Cioe’, se volete che passi la giornata a girare per downtown con il buco del culo aperto ed il portafoglio pure, basta dirlo! Almeno non perdo tempo e benzina guidando su e giu’. Sbraito contro il parcheggiatore e gli dico che qui, cosi’, mi ci ha mandato l’hotel, ma il brutto ceffo mi fa tornare da dove sono venuto. Incazzato nero, affronto a muso duro i ragazzi dell’hotel, che rivoltano il tutto via telefono al parcheggiatore. Non so come si siano accordati, ma mi fanno tornare indietro e finalmente riesco ad ottenere il pass ed a lasciar giu’ la mia maledetta macchina. Credo qualcuno le abbia lanciato una maledizione, ogni volta che ci monto capita qualche merda! Finalmente, sono le 10.20 del mattino, posso dedicarmi all’esplorazione di questa infida citta’. Finora, via di imprecare, girare intorno e pagare, non ho fatto uno stracazzo. Volo verso il Wharf, chiamo la moglie del mio amico – credo che in due giorni avro’ speso 5-6$ solo in telefoni pubblici marsi – e sono pronto a prendere una bici a noleggio. Sin dai giorni gloriosi in cui giravo Vancouver in bici, ho imparato che in citta’ proprio questo e’ il mezzo migliore per muoversi. A parte Londra, dove la metro funziona a meraviglia, o Hong Kong, dove rischieresti di morire investito dopo 5 secondi, le citta’ si girano cosi’. Prendo la mia bici a noleggio e mi avvio di buona lena verso il Golden Gate. Mi fosse girata troppo bene finora, il cielo gia’ plumbeo inizia a rovesciare della pioggia, non troppo forte ma piuttosto fitta. Al mio arrivo sono un po’ umidiccio, sia per la pioggia sia per il sudore. Sono famosi i sali-scendi della downtown di SF, ma anche i sobborghi non scherzano. Per arrivare sul Golden Gate devo correre (con il mio zaino in spalla) una pista ciclabile piuttosto impervia, e con il mio allenamento ciclistico in condizioni deprecabili, fatico non poco. Quantomeno, arrivo sotto un sole che squarcia le nuvole. Pedalo fino a meta’ ponte, e mi godo lo spettacolo. A sinistra, l’oceano aperto, immenso, enorme, che fa sorgere nella mia mente immagini marittime, da lupi di mare, storie di navigazione e antiche aspirazioni marine. L’oceano su di me ha un’attrazione rara, non so perche’. A destra invece, le ultime propaggini della citta’, il porto, Alcatraz. Davanti a me invece, le colline che segnano l’ingresso nel Golden Gate Park. Il ponte invece, di per se’, e’ un normale ponte. Quel che cambia magari e’ il famoso colore rosso acceso che lo contraddistingue. Gli alti sostegni che si stagliano nel cielo azzurro dei giorni sereni e sono visibili fin dal porto. Per il resto, e’ solo un’infrastruttura che fa guadare uno stretto lembo d’oceano. Visto da sotto ad esempio, dal livello del mare, rende molto di piu’. Continuo il mio tour ciclistico della citta’ sotto il sole ormai fisso nel cielo, cosa che mi conforta, che rallegra lo spirito abbattuto dagli ultimi eventi. Girare in bici rende molto piu’ liberi, facilita gli spostamenti e soprattutto ti evita di venire inculato ad ogni minima occasione. Al massimo ti inculano la bici, ecco (ma io sono stato previdente e al modico prezzo di 2$ ho pagato anche l’asscurazione contro lo scippo del mezzo!). Mentre pedalo la mia via verso il Wharf, la citta’ finalmente, incredibilmente, mi fa un regalo che mi ripaga delle precedenti arrabbiature ed imprecazioni. Mi imbatto in uno dei miei posti favoriti in America: una gelateria Coldstone. Forse non ve ne ho mai parlato, ed e’ giunto il momento in cui devo farlo. Spero nessun concorrente di questa amabile catena legga codesto blog perche’ rischierei pesanti ritorsioni, ma perdonatemi, voi del mondo del gelato, perche’ fino ad ora non sono ancora riuscito a trovare un concorrente che regga la competizione dei miei paladini del gelato. Per me, Coldstone e’ IL POSTO dove mangiare un gelato negli Stati Uniti. Sono comunque aperto, a scopo dimostrativo, a rendermi cavia per test gratuiti di gelati altrui. Non posso sottrarmi a questo dovere commerciale. Per ora comunque, mi limito a tessere le lodi dei miei preferiti, i quali – spero leggano questo blog – dovrebbero elargirmi, per le parole che spendo, una fornitura annuale gratuita di gelato. Ci lavorero’ su. Coldstone e’ quindi una catena, ed ha dei punti vendita assolutamente allettanti. Il cliente viene accolto da giovani commesse carine e simpatiche che anche se non hai particolarmente voglia di gelato, te la fai venire per pura cortesia. Ci sono mega cartelloni in cui sono elencate tutte le creazioni della casa, dalle coppe gelato agli shakes, dagli smoothies alle torte. Secondo una mia stima, un turista che non parla come lingua nativa l’inglese potrebbe impiegare una decina di minuti per leggere tutto quanto scritto. E’ comunque un dolce leggere. Che alla fine porta ad una scelta altrettanto dolce, che varia a seconda di misura, condimenti, recipienti. Una coppa gelato ad esempio puo’ essere adagiata in un recipiente di cialda con cioccolato e cocco ai bordi, oppure con cioccolato e granella, o ancora cioccolato bianco. Il gelato invece, puo’ essere guarnito con una varieta’ di condimenti che il cliente nemmeno ha il tempo di vedere nella sua interezza. Dai Mars spezzettati con delle “cazzuole da muratore” come le chiamo io, ai Bounty al cocco che seguono lo stesso iter, oppure dalle classiche Smarties alla granella, dalle sprinkles ai Gummy Bears. Si, gli orsetti gommosi sul gelato. Questa la cito sempre, fa troppa impressione! Chissa’ come sono, sinceramente non ho mai avuto l’ardire glucosico di sperimentarli! Io pero’, quando entro in un Coldstone, a meno che non sia terribilmente affamato (dunque, coppa gelato medium size – che e’ sufficiente a farti saltare il pasto successivo) opto sempre per lo stesso item, risultando anche un po’ monotono. Il fatto che e’ paurosamente buono, dolce, creante assuefazione. Vado, anche stavolta, per un Very Vanilla Shake, “Gotta Have it!” size. Il nome dice tutto. Very Vanilla vuol dire che il gelato e’ alla French Vanilla, e al tutto viene aggiunto anche del caramello concentrato. Poi, la taglia. Non esiste small, medium o large. Qui, l’extra large si chiama GOTTA HAVE IT! Ed io vado sempre per quello. Credo, 600 e oltre ml di puro, dolcissimo godimento! Da paura. Me lo godo in velocita’ – perche’ non riesco a resistere sorseggiandolo, lo bevo avidamente! – e mentre lo finisco faccio due passi nei negozi vicini. Riesco a comprare un paio di occhiali da sole presso dei cinesi, che per 10$ risultano essere belli e decisamente polarizzanti (Nota: Col senno di poi, le campagne dietro casa mia agli inizi di Novembre mi sembrano il Vermont a meta’ Ottobre!). Gettato l’ingombrante bicchiere, entro nella catena di cappelli sportivi dove a Vegas comprai il mio cappello dei New Orleans Saints. Avendo le mani piu’ bucate di un uomo crocefisso, dopo un attento esame compro un altro cappellino, stavolta degli Indianapolis Colts, che subito metto in testa per riprendere il mio giro in bici. Ora, con cappellino, occhiali da sole, maglietta NFL e zaino in spalla, sembro un perfetto americano in viaggio! Mi sento bene. Pedalo fino al Wharf e di li giu’ verso downtown. Vedo la Chinatown, dove i passanti sono tutti, e dico TUTTI eccetto qualche turista, orientali, e poi mi reco verso Union Square, il centro commericale della citta’. Qui si trovano i negozi di tutti i marchi piu’ in. Come uno straccione, entro da Abercrombie sapendo che potrebbe essere una delle ultime volte che lo faccio con certe capacita’ economiche. Invece, gli resisto ed evito di aggravare ulteriormente il mio bilancio in rosso come un tulipano. Visito Adidas e Nike, ascolto la musica di un barbone potentissimo che con bottiglie, pentole e vasellame si e’ creato una batteria formidabile, e mi avvio verso il difficile, impervio ritorno IN SALITA sulle vie di SF. Ci arriverete anche da soli, ma ve lo sottolineo anch’io. Le strade del centro sono davvero pendenti, ripide. Secondo i miei calcoli, la pendenza di alcune si aggira intorno al 35%, che e’ davvero tanto! E fa sudare come pochi! Stremato, smonto dal mio mezzo e decido di proseguire a piedi, trainando la bici. Ed e’ li che, mentre riposo un attimo ad un semaforo, colgo di sfuggita una manifestazione che si sta snodando lungo il block adiacente (Non lo sapevo ancora, ma sono i famosi “Indignados” di cui sentiro’ parecchio parlare nei giorni a venire). Non e’ una manifestazione enorme, stile NY, ma basta per attirare l’attenzione e rendere l’idea di quel che sta accadendo nel mondo. I manifestanti espongono svariati cartelli, i piu’ ricorrenti dei quali sono “Tassate Wall Street”, “Fate pagare le banche”, “Obama R U listening?”. Quello che mi piace di piu’ invece e’ lo slogan “Tassate i ricchi, loro se lo possono permettere”. Mi trova assolutamente favorevole. La gente qui si sta lamentando semplicemente di una cosa: esasperata dalla crisi economica globale in atto, coglie l’occasione per lamentare come troppa poca gente abbia in mano troppa parte della ricchezza mondiale. Maledettamente giusto. Damn. Rimango immobile all’incrocio per 5 lunghissimi minuti, braccia appoggiate al manubrio della bici, piedi a terra. Penso a quanto vorrei anch’io che il mondo fosse piu’ equo, che ci fosse meno poverta’, che tutti fossimo piu’ abbienti. Penso a quanto sto scialacquando io in 15 giorni di vacanza. Eh si. Ora piove. Me ne torno verso l’hotel, k-way alla mano, dopo aver restituito la bici. Sono appena le 16, e di fronte a 3 ore di tempo decido inaspettatamente di usare il mio nuovo acquisto, il mio pc. Lo apro e ne vado subito fiero. Mi connetto ad internet, al mondo reale, dove puoi venire a sapere cosa accade ovunque, anche nel tuo paese. Questo pero’ non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Decido solo di aprire la mail, dove trovo la bellezza di 67 emails accumulate in appena 14 giorni. Non male. Le spulcio una ad una, non una bella notizia in 67 email ma fa niente, e vado a farmi la doccia. La doccia piu’ strana e scomoda che abbia mai trovato in giro per il mondo, peraltro. Infine, esco alle 19, in una serata abbastanza limpida ma anche ventosa, pronto ad incontrare il mio amico californiano Russell. Purtroppo leggo da un sms che non riuscira’ a raggiungermi, quindi vago per qualche negozio e poi mi siedo al tavolo di un ristorantino di pesce al Pier 39. Mi gusto la tipica Clam Chowder servita su Sourdough bread bowl, ovvero una zuppa di molluschi (perlopiu’ granchio a dire il vero) servita dentro un pane a forma di zucca, semiaperto in alto onde consentire al cucchiaio di ghermire il pasto. Ottima, veramente. Il contorno di gamberoni al chili dolce poi, delizioso! Contento, sazio, ma vestito troppo leggermente per sopportare altre lunghe esposizioni al vento oceanico, mi alzo da tavola diretto verso casa. Un breve passeggiata e ci sono, pronto ad una notte di riposo. Dopo una giornata strana, vissuta tra troppi stati d’animo, sentimenti, sensazioni. A volte dicono di dormirci su, e cosi’ faro’.
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