domenica 27 novembre 2011

Giocare a tetris (con le cose da mettere in valigia) - pt.1

Com’e’ che dicono, “vivi ogni giorno come fosse l’ultimo”. Spero proprio non sia il mio ultimo giorno in America, spero di viverne tanti altri in questa dura, difficile ma dannatamente bella terra. Quel che so per certo e’ che per ora, purtroppo, questo e’ l’ultimo giorno intero che ho da spendere in questo viaggio. Quando la mattina ci si alza con questa sensazione e’ sempre difficile iniziare la giornata con il piede giusto. Io poi, per mia natura, sono sempre volto al futuro, e in questo caso futuro vuol dire volo, Italia, casa, LAVORO. Oh men! Pensiero angosciante. Riprendere il solito ritmo, nella solita citta’, con la solita gente. Il solito lavoro. Piu’ che svegliarmi, stamattina, piombo in una specie di incubo fin troppo reale. Mi schiaffeggio per costringermi a concentrarmi sul dolore fisico, mi alzo violentemente dal letto e vado in bagno per rinfrescarmi le idee con un bel po’ d’acqua fresca. Rewind, riparto da capo. Inizio quindi la mia giornata vestendomi in modo quantomeno civile, riordino le mie cianfrusaglie, che stasera (gia’ tremo al pensiero) dovro’ vedere di far stare nelle mie due valigie, e scendo le scale. Come al solito, sembro un addetto di un impresa di traslochi. Mi manca solo quache mobile e il trucco e’ perfetto. Scendo le scale con zaino, valigie, cappelli, scarpe, infradito, maglie & magliette varie che non stanno nelle valigie. Magari, ecco, piu’ che un’impresa di traslochi, uno zingaro. Di quelli seri e convinti. Passo alla reception a salutare la mia amica indiana, la saluto invitandola a venirmi a trovare in Italia prima o poi – magari prima, che non mi dispiacerebbe lasciare il mio paese per mete migliori sinceramente! – e mi imbarco sul mio mezzo, che parte in direzione “colazione”. Direzione piuttosto grossolana che mi conduce, stamane, in un modesto posticino di quelli che a me ispirano moltissimo ma che in questa fattispecie mi delude un po’. E’ un piccolo “bar”, come lo chiameremmo noi, dove una giovane ragazza si occupa del front-office e del servizio ai clienti. Ci sono appena una quindicina di coperti. Prendo posto al bancone fronte-strada e ordino un cinnamon & raisins waffle con panna montata. Bevo il mio caffe’, pago la mia colazione senza infamia senza lode e mi dirigo verso qualche bella spiaggia. O almeno, provo a trovarne qualcuna di bella. Per adempiere a questo compito vado ad orecchio: mi fermo su spiagge i cui nomi mi ricordano film, nomi famosi, gia’ sentiti, orecchiabili. E’ con questa metodica che arrivo a Pismo Beach (chi cazzo la conosce?!). Parcheggio la macchina sul lungo mare, o lungo oceano che dir si voglia, e faccio due passi sulla sabbia. Nell’aria fresca del mattino, quando il sole batte ma non scalda ancora, vedo gia’ parecchi temerari che surfano. Vedo un’allegra combriccola di arzilli vecchietti che passeggia raccontandosi chissa’ cosa e osservando i citati surfisti. Vedo, infine, la macchina gialla e rossa della LifeGuard, la pattuglia delle spiagge che noi conosciamo perlopiu’ per la serie Baywatch. La scena che vedo io fa molto film, molto Baywatch. Salgo sul pontile che si allunga verso le acque e scatto qualche foto. Sono pero’ stracciato in quanto ad attrezzatura e professionalita’ da un collega – collega, diciamo che lui e’ serio io no – che sta fotografando alla mia destra. Ha un teleobiettivo enorme, di marca, e non posso esimermi dall’ammirarlo. Quando mi accorgo che egli mi sta fissando, gli faccio un cenno d’assenso, un “ok” col pollice volto all’insu’, sorriso sulle labbra. Vedendolo ricambiare, con espressione simpatica, mi avvicino per scambiare due parole. Il mio nuovo amico si chiama Brent, ha 61 anni ed e’ Californiano. Chiedendogli un po’ del suo pezzo d’artiglieria – per cui ha speso la bellezza di 11mila dollarozzi – vengo a sapere che e’ un appassionato di surf, per cui (?) passa spesso del tempo a fotografare amici e sconosciuti mentre solcano impavidi le onde dell’oceano. E’ talmente appassionato di surf che ha addirittura un sito, rinomato a quanto pare, dove pubblica le foto che scatta. L’unica cosa che a me non torna e’ che, per quanto appassionato sia, non mi racconti neppure di quanto e dove surfa lui! Il perche’ e’ presto svelato: lascia surfare gli altri. Saggio, l’amico. E’ un repubblicano, che pensa che Obama non abbia il polso della situazione anche se e’ stato sfortunato ad esser eletto in un periodo cosi’ difficile. Dice che forse, altrimenti, sarebbe una brava persona. Parliamo di Berlusconi (la classica domanda, “Che ne pensi di Berlusconi?”, come fosse una sorta di divinita’ del teatro comico conosciuto in tutto il mondo), delle ragazze italiane (mi chiede quanto siano carine da uno a dieci. Per quanto mi riguarda, do un 6/7 sulla media) e di cosa sto facendo io. A tal proposito, mi da del ragazzino. Del “kid”. Mi dice di viaggiare, girare il mondo, esplorare, saziare la sete che sento dentro di me. Per fermarsi, mettersi a posto, far su famiglia, per quello c’e’ sempre tempo! Pare che abbia girato il mondo Brent, dalle parole che mi rivolge. Invece, scopro che non ha ancora visto posti bellissimi della sua nazione. Un po’ avventatamente, forse quasi scortesemente, manifesto meraviglia in cio’. Mi capita sempre quando sento di un americano che non ha ancora visto il Grand Canyon, o Yosemite, o Yellowstone. O Bryce. Dando un occhio all’orologio e vedendo il tempo scorrere inesorabilmente, lo quasi ammonisco dicendogli di andare in quei posti, di non perderseli. Di lasciare un po’ da parte il surf e di partire con sua moglie alla scoperta del proprio paese. Credo che un po’ gliene sia venuta voglia, tutto sommato! Ci salutiamo calorosamente e, scaldato da una stretta di mano sincera e dal sole sempre piu’ alto nel cielo, riprendo la mia via verso Sud. A Lompoc, un paesotto poco piu’ avanti, sono colto da un sottilissimo languorino amplificato ad incontenibile buco sullo stomaco dalla mia insaziabile golosita’. Infatti, mi avvedo di un piccolo chiosco di DONUTS a lato della strada che, essendo semi deserta, mi consente di svoltare repentinamente e di imboccare la via della ciambella. Entro: locale gestito da un cinese, ma poco importa. Non sono razzista, in quanto a cibo. Se sono in America, va tutto bene. L’assortimento affonda i sensi. Stordisce. Affogo fra ciambelle di ogni forma e colore, vuote o ripiene, con o senza sprinkles. Dopo i classici 5 minuti a braccia conserte meditando sull’amletico dubbio gastronomico, faccio la mia scelta: ordino al cinese una ciambella classica glassata bianca con sprinkles e una di forma allungata, glassata al fudge e ripiena di quella morbida, deliziosa cremina bianca (che sara’ grassissima e fatta prevalentemente di burro, vorrei supporre). Spendo felicemente quei pochi dollari e divoro le mie ciambelle non appena rientrato in macchina. E cosi’, tra una ciambella e una curva, una curva e una ciambella, arrivo a Jalama Beach, posto che un avventore al chiosco mi aveva caldamente consigliato e di cui aveva avuto cura di ripetermi le indicazioni stradali per una decina di volte. La strada che mi ci porta e’ poco frequentata, dispersa tra enormi piantagioni dove lavorano i classici, poveri messicani pagati forse 4-5$ l’ora, ma anche fra infiniti vigneti che fanno assomigliare questo paesaggio collinare alle nostre colline toscane. Solo che – e nessuno potra’ contraddirmi – l’orizzonte visivo e’ UN PO’ piu’ ampio. Giusto un po’. Virando bruscamente a destra e a sinistra la strada scava il suo percorso fino a raggiungere la spiaggia, passando qualche pascolo e qualche nido di rapaciazzi. Seguo la costa per un miglio ed eccomi arrivato. La sorpresa: la spiaggia, come dovevo imparare a conoscere prima, e’ un parco. E come tutti i parchi, statali, provinciali, comunali o rionali che siano, esigono un pedaggio per lasciarti entrare. Qui a Jalama Beach vogliono 10$. Gli esosi, vogliono vedermi mendicare per Los Angeles per mangiare! Eppure, attratto dalla promessa di spiagge favolose, e soprattutto di hamburger enormi (WORLD FAMOUS, mi sparano!) pago ed entro. Solo dopo realizzo, con un DOUH! alla Homer, che hamburger uguale altra spesa. Ormai il danno e’ fatto, ed entro in modalita’ “guadagna il massimo da questi 10$”. Mi cammuffo da bagnante – pantaloncini, canotta, cappello di paglia, occhiali da sole, infradito – ed inizio a camminare lungo la costa, sulla sabbia. Passo una bella addormentata sulla battigia, non una grande figura per quanto mi riguarda, e mi fermo a guardare l’orizzonte intero. Forse qui non hanno ben chiaro nella testa cosa sia una "bellissima spiaggia". Sara’ che si sbagliano loro, o sara’ che avendo girato un po’ fuori di casa ne ho viste molte altre di spiagge, ma i conti non mi tornano. Sinceramente, ho visto posti ben migliori in Scozia, ad esempio. Ripenso alla mia teoria secondo cui lassu’, se d’estate ci fosse qualche grado in piu’ e l’acqua non avesse pezzi di ghiaccio galleggianti, i turisti non andrebbero a Sharm, ma li’. Sharm fallirebbe, non se la filerebbe piu’ nessuno, a parte qualche conturbante signora single non piu’ sulla cresta dell’onda ma incorreggibile nella sua ricerca di qualche povero giovanotto da tormentare. Scozia, Irlanda, o perche’ no, Norvegia, Finlandia, diventerebbero le mete preferite dagli amanti della balneazione. Peccato che stando cosi’ le cose, nessuno di loro abbia voglia di buscarsi la malattia a meta’ estate. Dovranno aspettare solo qualche lustro pero’, continuare ad inquinare e degradare il pianeta come stiamo gia’ facendo, ed ecco che con l’aiuto di mr. Riscaldamento Globale nel giro di una ventina d’anni o poco piu’ potranno fare comodamente il bagno a Bettyhill, Scozia, durante le ferie di luglio. E senza tuta da sommozzatore!! Chiusa la mia quotidiana vena critica, focalizzo la mia attenzione al trarre il massimo dalla spiaggia in cui mi trovo. E’ molto lunga, sembra infinita, e abbastanza larga che al gestore di un lido a Sottomarina (Venezia) farebbe venire le bave alla bocca. Gli accessi praticamente non esistono: c’e’ solo quella piccola, ridotta imboccatura da cui sono entrato io, collegata al parcheggio. Poi, ci sono solo distese di alte scogliere che proteggono la spiaggia come fosse il castello di un antico re. Scogliere che, manco a dirlo, ospitano una nutrita schiera di uccelli marini, per cui mi ritrovo presto a camminare sorvolato da gabbiani prima, pellicani poi, e volatili non ben identificati in ultima istanza. Sembra una voliera a cielo aperto! Trovato uno scoglio abbastanza piatto da ospitare le mie onorevoli chiappe senza arrecar loro danno, mi ci appollaio e provo a prendere il sole. Impossibile: subito un paio di fameliche mosche si precipitano sul mio corpo senza scopo apparente se non quello di infastidirmi. Rinuncio al sole. Provo a dedicarmi alla fotografia: poca cosa, visto che l’unico soggetto interessante che trovo da immortalare e’ la risacca che, con tempo di esposizione lunghi, crea strani effetti. La mia vena pero’ si esaurisce presto e cosi’ anche la mia voglia di rimanere seduto su un sasso ad arrostirmi senza far nulla. Faccio per tornare allo zaino, deposto all’ombra della scogliera, quando maldestramente poso il piede su un’aguzza radice che si trova in mezzo alla sabbia. Credo non sia nulla, e vado avanti. Pochi secondi dopo pero’, sento un forte bruciore. Guardando in basso, vedo l’alluce destro di una tinta rossa che non ricordavo, cosa che mi fa esclamare “Cazzo!”. Mi son ferito – dai, tagliato, non esageriamo i termini! – al dito, evidentemente quella radice e’ stata piu’ perniciosa del previsto. Non volendo giocare ai castelli di sabbia su ferita, provo a pulirmi alla buona e a chiuderla. Tiro fuori dal mio zaino BearGrylls-equipped un po’ di cotone ed un cerotto, con i quali riesco a chiudere il taglio. Per il momento. L’area e’ piu’ grande del previsto. Non contento, anzi direi proprio incazzato, decido di tornare verso la macchina.

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