lunedì 21 novembre 2011
The thing is gettin' unbelievable
The thing is getting unbelievable (cosi’ riporta il diario originario dell’autore). Ricordate la puntata dei Simpson, Homer contro la citta’ di NY, che avevo citato in precedenza? Ebbene, credevo di averlo fatto in modo genuino, simpatico, cosi’ per addolcire un po’ l’acidita’ di stomaco montata gia’ nella prima giornata a San Francisco. E invece mi ritrovo a pensare che devo essermi tirato dietro una nera (trad. SFORTUNA) da paura, di quelle mai viste prima zio cowboy. Il perche’ e’ presto detto. Esco di casa, anzi, d’albergo, alle ore 8, dopo una frugale colazione consumata nel piano interrato dell’hotel semifrancese. Della colazione non voglio ricordare nulla, perche’ rispetto ai comuni standard americani piu’ che una colazione e’ stata uno stuzzichino. E la cameriera mi ha anche semiforzato a lasciarle una mancia. Micragnosa fino all’osso. Le ho lasciato un dollaro giusto per darle il contentino, alla faccia sua! Ricordo invece di esser sceso con la mia brand-new tshirt dei Green Bay Packers (squadra di football americano, campione in carica di NFL) e di aver incontrato una signora che mi dice “Oh, Packers fan?” e io “Well, actually I’m an Italian Saints fan!” (I Saints sono un’altra squadra di football). E la signora scoppia a ridere. Le spiego che in realta’ sono anche simpatizzante di Green Bay, dopo aver letto un bel libro sulla storia del franchising. Lei, invece, ribatte dicendomi di essere una tifosa dei Chicago Bears. Quest’ultimi, per chi non lo sapesse, sono rivali dei Packers tanto quanto il Milan e’ rivale dell’Inter. Chiaramente, vedermi con la maglietta dei Packs non e’ stata la cosa piu’ bella che avesse potuto chiedere per iniziare la giornata! Ad ogni modo, ci scherziamo su, e addirittura si prende da sola un po’ in giro per tifare una squadra che non vince da parecchi anni. Infine, mi augura una buona giornata, dicendomi che potro’ comunque portare la tshirt con orgoglio, fino al prossimo Super Bowl. E per come stanno andando le cose in questa nuova stagione di NFL, direi forse anche fino a quello successivo! Football a parte, altro non ho di cui ricordare in merito alla colazione. Dunque, rieccomi, a saldare il conto alla reception e, con le mie due fide valigie, incamminarmi verso l’uscita. Apro la porta, ed eccomi in strada. Volgo il mio sguardo a destra, direzione nord-est, in cerca della mia macchina. Prima pero’ mi avvedo di una cosa, un piccolo particolare importante: non c’e’ una sola macchina lungo tutto il marciapiede, sia quello dove mi trovo che quello opposto. Ricordo di aver lasciato la macchina, ieri sera, schiacciata tra un’altra vettura e l’incombere di un incorcio, ogni buco lungo entrambi i lati della strada clamorosamente occupato. Non mi par di ricordare di aver assunto alcolici o usato stupefacenti la notte scorsa, quindi scarto l’ipotesi di ricordar male. Scruto l’orizzonte, lustrandomi gli occhi da quella sorta di patina mattutina che offusca la vista, ma il risultato e’ sempre quello: no cars. Allora, mi rivolgo a me’ stesso con una frase che e’ poi passata alla storia: “Va ben che e’ mattina presto, ma da qui a non vedere una macchina ce ne passa eh ragazzo!”. Giungo alla conclusione che sto guardando dalla parte sbagliata – anche se non son del tutto sicuro di cio’. Ma anche verso ovest, lo scenario e’ lo stesso, altrettanto desolante: una strada vuota come le pianure del Manitoba del sud. Devo risolvere questo inquietante dilemma mattutino. Stanno iniziando a farsi strada in me terribili, foschi dubbi. Per provare a fugarli, o alla peggio a confermarli, attraverso la strada in cerca di un simbolo che ricordo disegnato sulla strada, a pochi centimetri dal luogo dove ho lasciato l’auto la sera prima. Purtroppo, dannazione eterna, lo trovo li’, a confermare i miei dubbi e a gettarmi in un altro, scontato, baratro finanziario e psicologico. Evidentemente, la mia macchina dev’essere stata rimossa. O rubata. Credo poco pero’ al furto di un’intera macchina nel centro di SF, anche perche’ probabilmente farebbe risultare questa mia vacanza come l’ultima volta in cui misi piede negli Stati Uniti d’America. A questo punto, parte la consueta raffica di imprecazioni contro ignoti. Contro me stesso, contro la citta’, contro l societa’ che rimuove le macchine, contro la segnaletica, contro le solite divinita’ estranee al mio credo. Inoltre, per cercare di darmi una spiegazione plausibile della rimozione dell’auto, indago i dintorni in cerca di un cartello stradale chiarificatore. Lo trovo esattamente sopra la mia testa, in un posto dove uno potrebbe obiettarti “Se non lo vedi o sei un pirla o stai dormendo”, ma tu potresti rispondere “Era proprio sopra di me, come facevo a vederlo?!”. Ormai non conta piu’, e leggendolo vedo che pone un divieto di sosta giornaliero tra le 6 e le 8 del mattino. Sono appunto le 8, e se tutto va bene qualche stronzo adesso iniziera’ a riempire i lati della strada. Alla faccia mia. Maledetta segnaletica stradale posizionata in alto e dietro ad arbusti e maledetta fascia oraria. Non possono pulirla alle 10 la strada??! Per cosi’ dare il tempo ai poveri turisti stanchi di abbandonare il proprio rifugio notturno senza doversi dissanguare presso la societa’ di rimozione??! Ma porca.. Questa citta’ mi vuole morto, mi vuole imprecante, incazzoso. Non ho mai maledetto cosi’ tanto la vita di citta’ come in questi momenti. Mi faccio coraggio e approfitto di un policeman nei paraggi per chiedergli delucidazioni sul da farsi. Devo recarmi a sud presso l’autorimessa, pagare la megamulta e ritirare il mezzo. Lascio le valige in hotel – dove mi ammoniscono che dovro’ pagare un bel po’ (EVVAII) – e prendo un taxi. E’ la prima volta che ne prendo uno, e sinceramente spero proprio sia anche l’ultima. L’indiano (indiano dell’India intendo!) che lo guida parla malissimo e guida addirittura peggio. Credo abbia preso la patente a Napoli, ma porto piu’ a fondo la questione. Mi spaventerei credo. E poi, 10,5$ per 10 minuti mi sembrano un po’ tanti. Non so quali siano le tariffe usuali dei taxisti, ma se sono ovunque cosi’ credo debba pensare seriamente ad entrare nel business. Se lo faccio poi in una citta’ americana, potrei diventare milionario. Pazzo, ma milionario. Entro in ufficio, spiego alla signorina il fattaccio, e gia’, subito, mi gira il POS per pagare. Come per prepararsi ad una sparatoria, apro il portafoglio e metto mano alla carta di credito. Lei mi fissa negli occhi. Io faccio altrettanto. Una goccia di sudore, freddo, mi scende dalla tempia destra. Trepidazione. Lei spara. 394 DOLLARI! Io, troppo lento, vengo colpito a morte. La carta di credito mi cade a terra, ed io la seguo (drammatizzazione). Rinvenuto, con la bocca aperta come colpita da paralisi, realizzo l’ammontare della somma ed impreco davanti alla signorina. Infilo la carta nel POS e autorizzo il pagamento. Sono dolori. Penso a quanto dovro’ lavorare per pagare questa sanzione. Aggiungo i giorni gia’ calcolati per pagare l’altra multa. Mi vien da vomitare. Ma almeno potro’ farlo nella MIA macchina ora. Monto, mando a fan cuore gli addetti della societa’ e mi reco presso il mio nuovo hotel, quello per la notte odierna. Appena smonto pero’, faccio per recuperare i bagagli ma trovo il bagagliaio vuoto. Oh cazzo. E le valigie, mr. Idiota? Stanno ancora al vecchio hotel!! Ma daai! (Babbuino che non sei altro). E di nuovo, piu’ incazzato che mai, rasentando la commedia, torno indietro e recupero i bagagli. Alnuovo hotel la prima cosa che chiedo e’ se sono dotati di un parcheggio. L’unica cosa che hanno e’ una convenzione con un park poco distante per cui mi domaderanno 19$ per 24 ore. Non e’ cosi’ economico, ma e’ sempre meglio di 394 bombe, concludo. Cosi’, senza perder tempo lascio giu’ le valigie e mi reco al parcheggio, per lasciar li la macchina e poter finalmente iniziare la parte produttiva della giornata. Un’altra brutta sorpresa pero’: pare che senza un pass rilasciato dall’hotel non possa entrare e fruire della convenzione. Ora mi girano i coglioni di brutto. Cioe’, se volete che passi la giornata a girare per downtown con il buco del culo aperto ed il portafoglio pure, basta dirlo! Almeno non perdo tempo e benzina guidando su e giu’. Sbraito contro il parcheggiatore e gli dico che qui, cosi’, mi ci ha mandato l’hotel, ma il brutto ceffo mi fa tornare da dove sono venuto. Incazzato nero, affronto a muso duro i ragazzi dell’hotel, che rivoltano il tutto via telefono al parcheggiatore. Non so come si siano accordati, ma mi fanno tornare indietro e finalmente riesco ad ottenere il pass ed a lasciar giu’ la mia maledetta macchina. Credo qualcuno le abbia lanciato una maledizione, ogni volta che ci monto capita qualche merda! Finalmente, sono le 10.20 del mattino, posso dedicarmi all’esplorazione di questa infida citta’. Finora, via di imprecare, girare intorno e pagare, non ho fatto uno stracazzo. Volo verso il Wharf, chiamo la moglie del mio amico – credo che in due giorni avro’ speso 5-6$ solo in telefoni pubblici marsi – e sono pronto a prendere una bici a noleggio. Sin dai giorni gloriosi in cui giravo Vancouver in bici, ho imparato che in citta’ proprio questo e’ il mezzo migliore per muoversi. A parte Londra, dove la metro funziona a meraviglia, o Hong Kong, dove rischieresti di morire investito dopo 5 secondi, le citta’ si girano cosi’. Prendo la mia bici a noleggio e mi avvio di buona lena verso il Golden Gate. Mi fosse girata troppo bene finora, il cielo gia’ plumbeo inizia a rovesciare della pioggia, non troppo forte ma piuttosto fitta. Al mio arrivo sono un po’ umidiccio, sia per la pioggia sia per il sudore. Sono famosi i sali-scendi della downtown di SF, ma anche i sobborghi non scherzano. Per arrivare sul Golden Gate devo correre (con il mio zaino in spalla) una pista ciclabile piuttosto impervia, e con il mio allenamento ciclistico in condizioni deprecabili, fatico non poco. Quantomeno, arrivo sotto un sole che squarcia le nuvole. Pedalo fino a meta’ ponte, e mi godo lo spettacolo. A sinistra, l’oceano aperto, immenso, enorme, che fa sorgere nella mia mente immagini marittime, da lupi di mare, storie di navigazione e antiche aspirazioni marine. L’oceano su di me ha un’attrazione rara, non so perche’. A destra invece, le ultime propaggini della citta’, il porto, Alcatraz. Davanti a me invece, le colline che segnano l’ingresso nel Golden Gate Park. Il ponte invece, di per se’, e’ un normale ponte. Quel che cambia magari e’ il famoso colore rosso acceso che lo contraddistingue. Gli alti sostegni che si stagliano nel cielo azzurro dei giorni sereni e sono visibili fin dal porto. Per il resto, e’ solo un’infrastruttura che fa guadare uno stretto lembo d’oceano. Visto da sotto ad esempio, dal livello del mare, rende molto di piu’. Continuo il mio tour ciclistico della citta’ sotto il sole ormai fisso nel cielo, cosa che mi conforta, che rallegra lo spirito abbattuto dagli ultimi eventi. Girare in bici rende molto piu’ liberi, facilita gli spostamenti e soprattutto ti evita di venire inculato ad ogni minima occasione. Al massimo ti inculano la bici, ecco (ma io sono stato previdente e al modico prezzo di 2$ ho pagato anche l’asscurazione contro lo scippo del mezzo!). Mentre pedalo la mia via verso il Wharf, la citta’ finalmente, incredibilmente, mi fa un regalo che mi ripaga delle precedenti arrabbiature ed imprecazioni. Mi imbatto in uno dei miei posti favoriti in America: una gelateria Coldstone. Forse non ve ne ho mai parlato, ed e’ giunto il momento in cui devo farlo. Spero nessun concorrente di questa amabile catena legga codesto blog perche’ rischierei pesanti ritorsioni, ma perdonatemi, voi del mondo del gelato, perche’ fino ad ora non sono ancora riuscito a trovare un concorrente che regga la competizione dei miei paladini del gelato. Per me, Coldstone e’ IL POSTO dove mangiare un gelato negli Stati Uniti. Sono comunque aperto, a scopo dimostrativo, a rendermi cavia per test gratuiti di gelati altrui. Non posso sottrarmi a questo dovere commerciale. Per ora comunque, mi limito a tessere le lodi dei miei preferiti, i quali – spero leggano questo blog – dovrebbero elargirmi, per le parole che spendo, una fornitura annuale gratuita di gelato. Ci lavorero’ su. Coldstone e’ quindi una catena, ed ha dei punti vendita assolutamente allettanti. Il cliente viene accolto da giovani commesse carine e simpatiche che anche se non hai particolarmente voglia di gelato, te la fai venire per pura cortesia. Ci sono mega cartelloni in cui sono elencate tutte le creazioni della casa, dalle coppe gelato agli shakes, dagli smoothies alle torte. Secondo una mia stima, un turista che non parla come lingua nativa l’inglese potrebbe impiegare una decina di minuti per leggere tutto quanto scritto. E’ comunque un dolce leggere. Che alla fine porta ad una scelta altrettanto dolce, che varia a seconda di misura, condimenti, recipienti. Una coppa gelato ad esempio puo’ essere adagiata in un recipiente di cialda con cioccolato e cocco ai bordi, oppure con cioccolato e granella, o ancora cioccolato bianco. Il gelato invece, puo’ essere guarnito con una varieta’ di condimenti che il cliente nemmeno ha il tempo di vedere nella sua interezza. Dai Mars spezzettati con delle “cazzuole da muratore” come le chiamo io, ai Bounty al cocco che seguono lo stesso iter, oppure dalle classiche Smarties alla granella, dalle sprinkles ai Gummy Bears. Si, gli orsetti gommosi sul gelato. Questa la cito sempre, fa troppa impressione! Chissa’ come sono, sinceramente non ho mai avuto l’ardire glucosico di sperimentarli! Io pero’, quando entro in un Coldstone, a meno che non sia terribilmente affamato (dunque, coppa gelato medium size – che e’ sufficiente a farti saltare il pasto successivo) opto sempre per lo stesso item, risultando anche un po’ monotono. Il fatto che e’ paurosamente buono, dolce, creante assuefazione. Vado, anche stavolta, per un Very Vanilla Shake, “Gotta Have it!” size. Il nome dice tutto. Very Vanilla vuol dire che il gelato e’ alla French Vanilla, e al tutto viene aggiunto anche del caramello concentrato. Poi, la taglia. Non esiste small, medium o large. Qui, l’extra large si chiama GOTTA HAVE IT! Ed io vado sempre per quello. Credo, 600 e oltre ml di puro, dolcissimo godimento! Da paura. Me lo godo in velocita’ – perche’ non riesco a resistere sorseggiandolo, lo bevo avidamente! – e mentre lo finisco faccio due passi nei negozi vicini. Riesco a comprare un paio di occhiali da sole presso dei cinesi, che per 10$ risultano essere belli e decisamente polarizzanti (Nota: Col senno di poi, le campagne dietro casa mia agli inizi di Novembre mi sembrano il Vermont a meta’ Ottobre!). Gettato l’ingombrante bicchiere, entro nella catena di cappelli sportivi dove a Vegas comprai il mio cappello dei New Orleans Saints. Avendo le mani piu’ bucate di un uomo crocefisso, dopo un attento esame compro un altro cappellino, stavolta degli Indianapolis Colts, che subito metto in testa per riprendere il mio giro in bici. Ora, con cappellino, occhiali da sole, maglietta NFL e zaino in spalla, sembro un perfetto americano in viaggio! Mi sento bene. Pedalo fino al Wharf e di li giu’ verso downtown. Vedo la Chinatown, dove i passanti sono tutti, e dico TUTTI eccetto qualche turista, orientali, e poi mi reco verso Union Square, il centro commericale della citta’. Qui si trovano i negozi di tutti i marchi piu’ in. Come uno straccione, entro da Abercrombie sapendo che potrebbe essere una delle ultime volte che lo faccio con certe capacita’ economiche. Invece, gli resisto ed evito di aggravare ulteriormente il mio bilancio in rosso come un tulipano. Visito Adidas e Nike, ascolto la musica di un barbone potentissimo che con bottiglie, pentole e vasellame si e’ creato una batteria formidabile, e mi avvio verso il difficile, impervio ritorno IN SALITA sulle vie di SF. Ci arriverete anche da soli, ma ve lo sottolineo anch’io. Le strade del centro sono davvero pendenti, ripide. Secondo i miei calcoli, la pendenza di alcune si aggira intorno al 35%, che e’ davvero tanto! E fa sudare come pochi! Stremato, smonto dal mio mezzo e decido di proseguire a piedi, trainando la bici. Ed e’ li che, mentre riposo un attimo ad un semaforo, colgo di sfuggita una manifestazione che si sta snodando lungo il block adiacente (Non lo sapevo ancora, ma sono i famosi “Indignados” di cui sentiro’ parecchio parlare nei giorni a venire). Non e’ una manifestazione enorme, stile NY, ma basta per attirare l’attenzione e rendere l’idea di quel che sta accadendo nel mondo. I manifestanti espongono svariati cartelli, i piu’ ricorrenti dei quali sono “Tassate Wall Street”, “Fate pagare le banche”, “Obama R U listening?”. Quello che mi piace di piu’ invece e’ lo slogan “Tassate i ricchi, loro se lo possono permettere”. Mi trova assolutamente favorevole. La gente qui si sta lamentando semplicemente di una cosa: esasperata dalla crisi economica globale in atto, coglie l’occasione per lamentare come troppa poca gente abbia in mano troppa parte della ricchezza mondiale. Maledettamente giusto. Damn. Rimango immobile all’incrocio per 5 lunghissimi minuti, braccia appoggiate al manubrio della bici, piedi a terra. Penso a quanto vorrei anch’io che il mondo fosse piu’ equo, che ci fosse meno poverta’, che tutti fossimo piu’ abbienti. Penso a quanto sto scialacquando io in 15 giorni di vacanza. Eh si. Ora piove. Me ne torno verso l’hotel, k-way alla mano, dopo aver restituito la bici. Sono appena le 16, e di fronte a 3 ore di tempo decido inaspettatamente di usare il mio nuovo acquisto, il mio pc. Lo apro e ne vado subito fiero. Mi connetto ad internet, al mondo reale, dove puoi venire a sapere cosa accade ovunque, anche nel tuo paese. Questo pero’ non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Decido solo di aprire la mail, dove trovo la bellezza di 67 emails accumulate in appena 14 giorni. Non male. Le spulcio una ad una, non una bella notizia in 67 email ma fa niente, e vado a farmi la doccia. La doccia piu’ strana e scomoda che abbia mai trovato in giro per il mondo, peraltro. Infine, esco alle 19, in una serata abbastanza limpida ma anche ventosa, pronto ad incontrare il mio amico californiano Russell. Purtroppo leggo da un sms che non riuscira’ a raggiungermi, quindi vago per qualche negozio e poi mi siedo al tavolo di un ristorantino di pesce al Pier 39. Mi gusto la tipica Clam Chowder servita su Sourdough bread bowl, ovvero una zuppa di molluschi (perlopiu’ granchio a dire il vero) servita dentro un pane a forma di zucca, semiaperto in alto onde consentire al cucchiaio di ghermire il pasto. Ottima, veramente. Il contorno di gamberoni al chili dolce poi, delizioso! Contento, sazio, ma vestito troppo leggermente per sopportare altre lunghe esposizioni al vento oceanico, mi alzo da tavola diretto verso casa. Un breve passeggiata e ci sono, pronto ad una notte di riposo. Dopo una giornata strana, vissuta tra troppi stati d’animo, sentimenti, sensazioni. A volte dicono di dormirci su, e cosi’ faro’.
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