lunedì 31 dicembre 2012

Il 2012 che mi ha cambiato la vita


Se il 31 dicembre dello scorso anno mi aveste chiesto dove pensavo di poter essere tra un anno, vi avrei risposto probabilmente “A casa”. Se mi aveste posto la stessa domanda un giorno dopo, vi avrei risposto con ogni probabilita’ “Da qualche parte a Belgrado”. Mi ci son voluti 8 mesi, un sacco di avventure, viaggi, gioie e dolori per arrivare a contemplare la possibilita’ di rispondere “In Nuova Zelanda” alla medesima domanda. Si, 8 mesi che verosimilmente hanno enormemente cambiato il corso della mia vita, come una strada dritta, piu’ o meno, che vira bruscamente ad un certo punto. E per me, quel punto ha una data ben precisa: 30 agosto 2012. Ma andiamo per ordine. Forse a qualcuno non importera’ nulla di saperne di piu’ del mio anno, ma per chi volesse, ecco come sono andate le cose.

Il 1 gennaio di quest’anno ero in piazza S.Marco a Venezia, bellissima location per trascorrere un capodanno. Specialmente se sei in compagnia della tua ragazza, e non col Gretto (un amico). Ricordo benissimo di aver chiesto un segno, dall’alto. Un segno che mi aiutasse a prendere la decisione migliore. Ero gia’ all’epoca tentato di mollare tutto e partire, senza troppe mete, senza troppi obiettivi. Girare, vedere il mondo, conoscere gente. Non sapevo se andavo a prendere la decisione piu’ giusta per me, e ricordo di aver pregato, in mezzo alla folla esultante, danzante, urlante, per ricevere quanto prima un segno piu’ chiaro possibile. Come se tutto ad un tratto dall’alto scendesse un enorme cartellone lampeggiante con scritto cosa devo fare. Magari! Nella vita pero’, a volte accade qualcosa di strano, di inaspettato, che guardando in retrospettiva si riconosce come “un segno”. Il 1 gennaio 2012, appena all’inizio del giorno, a me arrivo’ un segno, aveva i capelli corvini, lisci da far invidia, e uno sguardo da cui semplicemente non riuscivo a staccarmi. Venni a conoscerla, si chiamava Dejana e viveva a Belgrado. Quella stessa notte, dopo aver smaltito il capodanno, in una Jesolo deserta e fredda da farmi gelare anche dentro le mutande, capii che il mio destino non era quello del giramondo. Capii che, almeno per ora, non sarei partito, se non per Belgrado. E cosi’ andarono le cose.

Trascorsi i mesi successivi in uno strano stato d’animo. Il lavoro in banca non mi era simpatico da un pezzo ormai, ed il cambio di filiale non aveva reso le cose di certo migliori. Continuavo a lavorare per guadagnare i soldi necessari per i miei viaggetti, ma ora la cosa era diversa. Ora pensavo anche a rivedere lei, cosa che comportava anche un certo impegno economico. Belgrado non e’ proprio distante come Camposampiero. Cosi’, pianificai il piano ferie in sua funzione, eliminando il mio consueto “viaggio-breve” per diluirlo in 3 puntate in Serbia. Salvavo solo i miei amati States per maggio/giugno. Quest’idea mi porto’ per la prima volta in Serbia a febbraio, in aereo, solo, nel bel mezzo di uno degli inverni piu’ duri degli ultimi 50 anni a detta di tutti. Ricordo strade totalmente sommerse dalla neve, il centro citta’ con marciapiedi con un metro di essa. Un freddo da panico. Io bello in cappottino e camicetta. Idiota. Mai ho tanto maledetto quel proverbio “Per apparire bisogna soffrire” che mia madre mi cita sempre. Fanculo, la prossima volta, mi dissi, sono MonBoot e tuta da sci. Passai 3 notti in un albergo a 4 stelle in centro citta’, spendendo quel che ho spes e soffrendo il tempo che ho sofferto per vederla per un totale di 5 ore in 4 giorni. Fui capace di prendere un taxi alle 7 di sera, nel mezzo di una tempesta di neve, per un totale di 100 km a/r per vedere lei all’uscita da lavoro, totale 15-20 minuti prima di prendere il bus. Se questa non e’ pazzia, poco ci manca. Almeno lei, rimase molto colpita. I suoi amici – forse piu’ razionali – ricordo commentarono (cosi’ mi riferi’) qualcosa tipo “Questo e’ pazzo”.

Le cose andavano tutto sommato bene, e anche se la lontananza a volte uccide, e soprattutto lascia adito a diversi sospetti (fondati, col senno di poi), sembrava che i margini fossero buoni. Tornai in Serbia dopo Pasqua, in aprile. Presi un minilocale per un paio di notti. Nella mia mente non si lavano le immagini di me e lei che camminiamo per mano in centro a Belgrado. Lei, seppur appena uscita da lavoro, tirata come il freno di una Mbike. Io in uno dei miei look migliori. Tom Brady & Giselle Bundchen. Io ero al settimo cielo, e ne avevo ben donde. Passammo una bella nottata assieme, anche se a mia insaputa dovemmo salutarci il giorno successivo. I suoi turni erano cambiati e doveva essere a lavoro anziche’ star con me. Quando, dopo averla riportata nel suo paese (60 km da Belgrado) , la salutai e le dissi che ci saremmo rivisti dopo il mio viaggio in USA, non so perche’ ma mi sentivo male dentro. Avevo una strana sensazione. Arrivato a casa, dopo un viaggio sembrato interminabile, scoppiai a piangere, tanto, senza fermarmi. Non riuscivo piu’ a controllare le mie emozioni. Vedere i luoghi dove ero stato con lei, a mangiare, a vedere la tv, a dormire. E in cuor mio non so come, sapevo che forse non ci saremmo piu’ rivisti.

E cosi’ fu.

Di lei, dopo menzogne, rivelazioni, sospetti e quant’altro, non seppi piu’ nulla. Me ne andai in America felice per il tempismo, pronto per concentrarmi sul viaggio e dimenticare un’altra, dolorosa love-story. Fu uno dei viaggi piu’ piovosi di sempre, ma mi divertii. Conobbi diversa gente, vidi vecchi amici, al solito guidai un sacco ed ebbi la mia dose di adrenalina, come quando mi trovai a 15 metri da un grizzly, o camminai su un lago ghiacciato in giugno, durante una tormenta, o infine quando, dopo essere entrato in Canada per fuggire il freddo Nord degli USA, mi ritrovai a fare il bagno ad Osoyoos. Dolci ricordi di un viaggio, tutto sommato, indimenticabile. Tornai a casa convinto che quello era cio’ che realmente volevo. Sapevo che ero stato in posti incredibili, ma di cui avevo goduto forse il 25% delle possibilita’ reali. La pioggia e la neve mi avevano troppo intralciato i piani, e gia’ dopo pochi giorni, avevo gia’ un malessere dentro. Quello del “Devo tornare, non ho fatto/visto troppe cose che avevo in mente di fare”. Quella era la strada.

Agosto fu il mese. Per tanti motivi. Solitamente agosto e’ un mese scialbo: tutti in ferie, un caldo del demonio, a casa nessuno fa nulla, con gli amici ci sono i soliti piani di 3-4 giorni al mare/montagna/lago che sembrano tanti le vacanza organizzate da Fantozzi e Filini, quindi solitamente, agosto per me e’ un mese del cazzo. Eccetto a lavoro: aziende chiuse, pacchia per il sottoscritto. Avevo risentito Dejana quasi per caso, inaspettatamente, ed anche se non avevo nessuna intenzione di tornare in Serbia col mio cuore in mano, avevo salvato qualche giorno da piano ferie, e approfittando del ponte di Ferragosto, partii con un amico verso l’Est Europa. Le mete: Vienna, Bratislava, Budapest e Belgrado. Le “3B” del divertimento. Si insomma, capite cosa intendo. A Budapest non ci vado certo per mangiare qualche piatto tipico o per correre lungo il Danubio. Il viaggio – a parte le sere passate a ricoprire le strade di tutte le citta’ con litri di bava colante dalle nostre bocche aperte – non mi sembro’ granche’. Nulla di eccezionale. Qualche bel posticino, quintali di *OHMYGOOOD!*, poi poco altro. In retrospettiva invece, un gran viaggio, 5 giorni da ricordare. Soprattutto perche’ mi hanno dato la spinta giusta, le motivazioni giuste.

Tornai a casa il 19 agosto. Il 30 agosto presentai formalmente le mie dimissioni dalla banca, entrando nell’ufficio tranquillo del mio direttore e turbando un po’ la quite di quel sereno, afoso pomeriggio di fine agosto. Le cose erano cambiate cosi’ velocemente. Per tanti motivi. Il primo, lampante. Avevo chiesto un segno, l’avevo avuto sotto forma di una ragazza. Pensavo il messaggio fosse “Stai con lei” o qualcosa del genere. Alla fine dei conti, il messaggio era forse “Stai piu’ lontano possibile da queste cose, per ora!”. Questo “affair” serbo mi aveva fatto varcare nuovi confini geografici, conoscere nuovi amici, una nuova cultura, ma mi aveva portato tanti dolori dentro. E’ stat dura tirare avanti mesi vedendo una persona cosi’ cara una volta a bimestre. E’ stata dura accettare che tutto era finito cosi’ di colpo, senza una spiegazione sincera, cosi’ tutto di nascosto. Alla fine di tutto, questa e’ stata la spinta piu’ grande. Perche’ restare? Non ho una ragazza, non voglio soffrire ancora cosi’ nel breve termine, quindi, girando la domanda, perche’ non partire ora? Era il momento.

Un’altra grande motivazione e’ stato il lavoro stesso. Stavo diventando un vegetale brontolone. Mi lamentavo di qualsiasi cosa. Mi stava passando la voglia di ridere e divertirmi. Non ero piu’ chi sono veramente. Vivevo e lavoravo per vivere il weekend. Ed anche li, la differenza non si sentiva troppo. La noia mi stava avviluppando. Cosa facevano gli amici, poco mi importava. Qualsiasi proposta era noiosa, senza senso, qualsiasi persona con cui parlavo mi sembrava insulsa. Sentire le stesse cose, l’animazione, la politica, il coro, il patronato, qualsiasi cosa di cui sempre abbiam parlato. Sempre il solito, orrido minestrone. I miei viaggi, un tampone temporaneo che non poteva durare in eterno. Qualcosa doveva cambiare, lo sapevo. Ne andava della mia salute psico-fisica. Come iniziavo anche a realizzare che avrei avuto una paga ben maggiore un giorno, per il coraggio dimostrato nel caso avessi preso quella decisione.

Un terzo motivo, fin troppo facile a dirsi, divennero i viaggi. Stavo iniziando a pensare solo a quello. Tornato a casa da uno, pianificavo subito nuove mete, nuove destinazioni. Mi stava diventando lapalissiano il fatto che io ero per il viaggio. E seppur il mio lavoro – privilegiato nel contesto – mi consentisse quasi un mese di vacanza, sapevo che per me, non era sufficiente. Un mese di liberta’ contro 11 di catene, non era la vita che ero per ora disposto a fare. Ora, mi sentivo troppo, troppo pronto a prendere, librarmi in volo, partire senza avere per una volta un biglietto di ritorno.

Ormai era ora. Il 29 agosto, prima di andare a letto, ricordo di aver fatto un discorso molto chiaro ed onesto con me stesso. Le fondamenta furono: se continuo a lavorare in banca, duro 2 mesi poi mi suicido. Se mollo la banca e cerco un altro lavoro qui in Italia, mi suicido subito. Non voglio suicidarmi, quindi devo mollare la banca ed andarmene di qui. Dopotutto, non ho una ragazza che mi ancori qui a Cadoneghe. Perdipiu’, ho una voglia matta di iniziare a girare il mondo. Non ho nulla da perdere qui, via che una scia infinita di noia.

Alla fine di quel mini discorso con me stesso durato uno o due minuti, avevo smontato qualsiasi motivazione residua potessi avere per stare a casa.

Nel giro di 3 mesi, dal quel 30 agosto al 21 ottobre, la mia vita si era rivoltata come un calzino. Da giovane bancario a backpacker giramondo. Iniziai a studiare itinerari, fattibilita’ economica, commiati con amici e parenti. Non mi dilungo su tutto cio’. Dico solo che sono attimi – soprattutto quelli immediatamente precedenti una partenza del genere – che mi auguro di non dover rivivere troppe volte nella mia vita. La consapevolezza di lasciarsi cosi’ tanti affetti alle spalle e di intraprendere una strada che all’inizio sembra cosi’ lunga e deserta, atterrisce anche il piu’ forte.

Beh, oggi e’ ancora il 31 dicembre, stavolta 2012. E’ passato un anno da quando, a quest’epoca, mi preparavo ad una fredda notte a Venezia. Queste e tante altre cose sono accadute nel mio anno. Quali altre? Mah, ad esempio, in 2 mesi, sono arrivato in Nuova Zelanda, ho camminato per 250 km di sentieri, guidato 8mila chilometri di strade, fatto il bagno in laghi di montagna, in splendidi oceani, ho fatto skydiving, caving, abseiling, ho conosciuto gente da un sacco di posti, ho fatto couchsurfing, ho preso un lavoro in una delle luxury lodge migliori al mondo. Ho trovato una persona speciale. Sempre col senno di poi, facendo un secco confronto, mille volte migliore di quella conosciuta un anno fa. Lei ha i capelli biondi e gli occhi azzurri, azzurri come mai visti prima.

Sembra poco?!

A me, no. Ed e’ soltanto l’inizio!

 

Io in questo giorno, nella coda di questo anno speciale che sempre portero’ nel mio cuore e che ricordero’ come l’anno in cui la mia vita e’ cambiata, voglio ringraziare Dio.

Lo ringrazio per il coraggio immenso che mi ha dato, al momento giusto. Lo ringrazio per i segni che ho avuto lungo la mia strada. Lo ringrazio per le persone, che ha messo sulla mia strada – per tutti quelli che mai mi hanno detto “No, non dovresti partire”. Grazie per i sentimenti che ho provato. Per la fortuna che ho avuto (chiamiamola fortuna? Io dico che la fortuna arride agli audaci). Per i sorrisi, i pianti, le chiacchierate. Io ringrazio Dio perche’ ogni giorno mi alzo e vedo che la fuori ci sono tante cose per cui vale la pena vivere. Lo ringrazio perche’ tanta gente il sorriso non ce l’ha piu’, e la voglia di vivere nemmeno. Lo ringrazio perche’ mi ha illuminato con dei capelli biondi e due occhi azzurri, mi ha fatto incontrare la sua strada, e spero sia nei suoi piani di farmela incrociare ancora. Io lo prego Dio, per questo.

Infine, lo ringrazio perche’ finalmente, ora mi sento veramente me stesso. Mi sento libero, felice, pieno di vita. Sento che sto vivendo senza vincoli, sto capendo cosa voglia dire liberta’, cosa voglia dire essere pieni. Ogni volta che conosco una persona valevole, o che respiro dell’aria pura, o che vedo dei fiori colorati che si specchiano su un lago, io mi ricordo che questo e’ merito di qualcuno lassu’, e’ un suo dono. Per questo lo prego.

E a voi che avete letto tutto cio’, non posso far altro che augurare un anno pieno di responsabilita’. Si, responsabilita’. Siate responsabili prima di tutto con voi stessi. Prendete le scelte che dovete e volete prendere, non mascheratevi, non riparatevi dietro scudi fittizi. E’ tutto a vostro favore. Siate coraggiosi, lottate per essere liberi. Questo e’ il mio augurio.

Manu

 

domenica 30 dicembre 2012

Guerra al disordine, lavoro, Dallas

Qui si sta mettendo male eh, vi avviso. Se le cose continuano cosi’, mi metto in testa l’elmetto, tiro fuori l’artiglieria e parte la guerra. Il campo di battaglia sara’ la casa dove vivo ora. La zona rossa, la cucina. Io semplicemente non posso vivere in un casino del genere. Saro’ pure zingarante alla grande quando sono per conto mio, soprattutto in macchina, ma almeno so che l’onto prodotto e’ farina del mio sacco. Non vorrei dover riposare, mangiare, sedermi e vivere in un posto lercio di farina che non e’ del mio sacco. Da backpacker ancora un po’ raffinato come sono, non riesco ancora a calarmi in questa situazione – e onestamente spero di non volermici calare mai! Capisco che siamo tutti giovani, che alcune ragazze qui sono 18enni e non gliene sbatte un cazzo di niente via di far su due soldi e trombarsi qualche foresto una volta ogni tanto, capisco che siamo tutti stanchi dopo lavoro ma oh.. ci vuole tanto a mettere due piatti in lavastoviglie?! A questo punto pero’, il lettore mi perdoni una lieve regressione per narrare lo stato pietoso della zona di guerra, in un minuzioso quanto raccapricciante diario delle condizioni di vita in questo luogo infetto (a giudicare poi da mosche e insetti presenti ogni giorno qui dentro, grazie alle porte aperte e mai chiuse – nati in barca qua – potrei pensare circolino diverse malattie solo dentro casa).

Entrando dalla porta di servizio, alla sinistra l’utente trova un frigo che sembra normale all’apparenza, ma come ben risaputo l’apparenza inganna, ed aprendolo si verra’ sommersi da un’ondata di effluvi malsani che sembrano pesce in decomposizione misto a verdura di pessima qualita’. Devo ancora appurare la vera fonte di tali effluvi, anche se non ci tengo granche’. Lascio la gloria a qualcun’altro. La cucina che subito si fa avanti alla sinistra del frigo e’ un vero e proprio macello: attualmente vi si possono contare, tra angolo cottura e bancone/tavolo da pranzo, 15 tazze, 5 scodelle, 2 bicchieri, 4 piatti e un’esercito di posate, sporchi, alcuni con ancora avanzi di cibo da diversi giorni, lasciati li. Senza contare scatole di cibo vuote, carte e cartine varie, confezioni di cibo aperte. Ah, e due tazze lasciate per terra. Con i due stracci per pulire i piatti in cucina, da quanto sporchi sono, non ci pulirei nemmeno il culo di un maiale. Le briciole sono ovunque, sotto il frigo, davanti al microonde, sul bancone, per terra. Sembra quasi che le inquiline qui pensino che uno stormo di colombi o un plotone di capre passi giornalmente a pulire o mangiare il disastro prodotto. Non funziona proprio cosi’. Se l’utente comunque, non sazio e domo dall’inferno visto, volesse addentrarsi in salotto, immediatamente adiacente alla cucina, troverebbe: due paia di scarpe lasciate in mezzo, come a decorare l’ambiente. Un’aspirapolvere mai usato. 3 calzini sporchi. Due tappi di bottiglie di birra. Un telecomando. Due infradito. La custodia di un cd. Una bottiglia di latte al cioccolato vuota. Due divani semiuniti con due lenzuola e un ipod. Una macchinette fotografica. Ripeto, il tutto per terra. Infine, non so se il grigio su cui cammino sia una specie di moquette o uno strato rilevante di polvere, ma non voglio andare a fondo nella questione.

Ecco, contro tutto questo sto per iniziare a combattere la mia guerra. Un po’ come Rambo. Lui pero’ i coltelli li usava per accoppare la gente, io devo accontentarmi di pulirli. Ad ogni modo, credo iniziero’ con qualche frase tranquilla, accompagnata da un bel sorriso, del tipo “Che ne dite se iniziamo (ma si, mi ci butto dentro anch’io, menzogna) a mettere direttamente in lavatrice le cose sporche?!”. Poi, anzi forse subito, passero’ a post-it semi-minacciosi, del tipo “Preferirei evitare di svegliarmi e trovare tutto sto casino, se iniziamo a lavare le nostre cose forse funziona meglio”. Infine, cosa che non e’ poi cosi’ remota, potrei prenderle una ad una e dir loro “Eora, mi e ti no parlemo a stessa lingua.. e fin qua ghe rivo.. ma se no te capissi che vivere in sto luamaro a mi proprio me da soo che el voltastomego, teo fasso capire mi, coe bone o coe cattive! Quindi vei ben de tacare lavarte a to lea se no tea fasso leccare, anca ee bricioe che ghe ze par tera! E el goldon.. te fasso magnare anca queo! All right?!”

Per il resto, va bene. Ho l’unico giorno di riposo tra 8 giorni consecutivi il 31, cosa che mi fa molto piacere perche’ potro’ guidare fino in citta’ verso meta’ pomeriggio, comprare due-tre cosette, mangiarmi un Fergburger e vedere i fuochi li a Queenstown in compagnia di qualche amica. Inoltre, sono reduce da un paio di ottimi giorni a lavoro. Punto primo, sto cercando di lavorare il piu’ possibile, e questi due giorni son riuscito a far su 17 ore. Qui, non e’ niente male come bottino. Avete presente 8 miles, il film di Eminem? Ad un certo punto lui cerca di farsi dare piu’ turni possibili per racimolare la grana necessaria per registrare. Ecco, ora so cosa si prova in quella situazione. Hai bisogno di denaro, e fai di tutto per farti dare piu’ lavoro possibile. Elemosini al capo un’ora di straordinario, fai vedere che lavori sodo, chiedi in cucina se serve anche un lavapiatti o qualcosa del genere, sacrifichi giorni in cui saresti a riposo, pur di far su qualche ora in piu’. Eminem lo fece per registrare, qualcuno – purtroppo – deve farlo perche’ ha delle bocche da sfamare a casa. Io lo faccio perche’ devo recuperare soldi per continuare a viaggiare. Non perdo di vista il mio obiettivo.

Il punto secondo invece, e’ legato a quest’obiettivo, viaggiare. Ho conosciuto una famiglia di americani da NY alla lodge, ospiti per 3 sere. Due di loro erano i figli, due ragazzi quasi miei coetanei uno dei quali studia in un college a Dallas mentre l’altro risiede a NY. Dopo poche chiacchiere tra un drink e l’altro, e tra una zuppa e un secondo, siamo diventati buoni amici, dopotutto si condividono parecchi interessi: il football, la pesca, la storia (con uno di loro), le college girls. Haha. Io, come mi lamentavo, non posso chiedere i contatti di nessuno, li’. Ma l’altra sera, uno dei ragazzi mi fa: ‘Ah, poi lasciami il tuo contatto FB o mail, devi passare a trovarci quando vieni in America!”. E via, in portico alle regole della lodge, uahuah! E poi continua: “Quando passi a Dallas ti porto al college, andiamo a qualche party, e vedrai le ragazze, diventeranno matte solo quando le dirai che sei italiano!”. Stavo per andare via e andare a prenotare un sola andata per Dallas.
No dai, scherzo, non sono cosi’ veniale. Il fatto e’ che sono molto felice per tutto cio’. E’ cosi’ semplice socializzare anche qui per me, anche in un ambiente cosi’ elitario, aristocratico. Io sono quello un po’ fuori dagli schemi, un po’ poco elegante e raffinato se vogliamo, ma semplice, cordiale, genuino. Sono abbastanza convinto che un sorriso sincero copra tanti altri errori che possiamo fare allo stesso tempo. E di questo, faccio la mia arma migliore. Anche in questo ambiente, son riuscito a portare a casa gia’ qualche buona amicizia, dei complimenti, dell’ammirazione. Uno dei ragazzi mi ha invitato a NY di fronte ai suoi genitori, e sua madre, subito: “Ah si si, certo, devi venire assolutamente a trovarci!”. Fantastico, non ho parole.

Talvolta anche questi signori di mezz’eta’, ricchi, danarosi, quando parlano con me si meravigliano e si affascinano per cio’ che ho fatto. Le volte che son stato negli USA, gli amici che ho li, la mia conoscenza di quei posti. Uno dei ragazzi ha detto a suo padre, in fronte a me, che appena finisce il college parte e fa la stessa cosa che sto facendo io. Vedete, per me tutto cio’ e’ motivo di fortissimo orgoglio. Mi rende felice, mi carica per superare i momenti piu’ difficili, di solitudine, di tristezza. So che ci sara’ sempre qualcuno felice per me, che mi ammira, che vorrebbe condividere qualche momento con me. So che potro’ sempre colpire, stupire qualcuno, con le mie parole. E’ una gioia incredibile.

Oggi sono stato un po’ iracondo, domani saro’ piu’ tranquillo. Tocchera’ al consueto riepilogo di fine anno.

mercoledì 26 dicembre 2012

Vecchi ricordi


Oggi non avevo un cazzo da fare. Veramente nulla. Frustrato dal fatto di lavorare ben al di sotto delle ore immaginate, e alla ricerca di un secondo lavoro part-time, dopo aver passato la mattinata ad allenarmi, a cucinarmi qualcosa di buono, e a chiedere ai vicini se avessero bisogno di una mano ad ore con i cavalli, ho dovuto cercare qualcosa con cui ammazzare il tempo.

Mentre trasferivo le ultime foto sull’harddisk portatile, mi sono imbattuto nelle foto di un tempo. Non mi son messo a guardarle, ma ho cercato i video nelle rispettive cartelle. Apriti cielo.

Ho passato un’ora, dico un’ora, a guardare video di scherzoni, di battute di pesca, di cucina improbabile, di gente che in piazza non aveva altro da fare se non filmarsi mentre sparava cazzate.

Ora condividero’ con voi alcune delle nostre perle. Sto parlando di me e dei miei amiconi di Cadoneghe, gli amici con cui sono cresciuto. Voglio che sappiate che seppur lontano e sebbene non vi vedro’ per un bel pezzo, non vi dimentico e vi porto sempre con me. Ne abbiamo fatte un sacco insieme, e ci porteremo questi ricordi fino all’altro mondo, ne sono sicuro! Grazie amici!

 

Partiamo con un po’ di battute di pesca..

Un giorno ad esempio, Auri mi domanda “Manu aiutami ti prego!”, per slamare l’ennesimo sfortunato pesce finito al suo amo. Questo da la misura della sua proverbiale abilita’ nello slamare efficientemente ed in rapidita’ i pesci.

Una volta invece, mentre Auri stava per tirare su il primo gobbo di giornata, l’Abo irrompe dicendo “Me lo fai tagliare?!”. Ansioso di sperimentare nuove tecniche di pesca con l’esca morta. Ovviamente infruttifere.

Un giorno io e il Gretto decidemmo di travestirci da arabi e fare un video-sequestro-uccisione di un pesce. Non so in realta’ se facessimo una voce da nero o da arabo, fattosta che era comica. Poi al momento del video, ricordiamo il Barzy fifone che per salvare la pellaccia non inquadrava il luogo del delitto. Miserabile.

Una bella domenica di luglio invece, si era a pesca in cascatella. Fabio allamava e tirava su con incredibile goffaggine un boccalone. Lo appoggiava su una straccia, mentre Barzy, che filmava, gli urlava prontamente “No dove mi siedo io puttana!”

Un’altra volta io stavo liberando un pesce di discrete dimensioni, e appena esso toccava l’acqua, il Gretto meschino buttava in acqua la sua lenza dicendo “Dai abbocca abbocca!”

Un giorno decidemmmo di dedicarci alle larve esplosive.. era tutto ormai pronto per l’esplosione, stavo inserendo il petardo acceso nella scatola delle larve, quando Auri irrompe impaurito dicendo “Aspetta io ho lo zaino aperto!”. Lo zaino era a un metro dalla zona X e rischiava di essere inondato di vermetti famelici e/o carbonizzati.

Mentre una sera stavamo sbaraccando l’argine dei nostri attrezzi di pesca, io andavo lestamente ad infastidire il Gretto versione ScoattoDiBrutto appoggiandogli delicatamente il panno onto di pesce, di escrementi di pesce e di budelli di pesce, sulla testa. Il suo “Brrrleeahh!” tirato fuori con tanto orrore che meta’ bastava mi fa tuttora ridere per interi minuti.

Altre varie:

Come non ricordare il celebre detto che andava una volta, “Giacomazzi che mangia, beve e gradisce i cazzi”.

La celebre discesa nelle grotte del Lagazuoi con Bepi&Maria. Bepi che scendendo dice “A go a machineta su na man, su chealtra a pia, e go anca da picarme!”. Attimi di panico misti a ironia. Di quella giornata non dimenticheremo mai anche il TG “Ammazza che ascesa”.

Il giorno in cui in montagna salutammo DG – ovvero Don Gabriele – prese parte uno scherzone poco riuscito all’Abo. Venne chiamato “The scherzone with the Libellulone”.

Mentre spulciavo i filmati, mi sono imbattuto in quelli della GMG ’05, anche. Ho posato l’occhio su un filmato girato a Marienfeld, dove in condizioni da rifugiat di guerra si era accampati tra ratti e sporcizia e cinesi. Dietro di noi pero’, ho visto diverse bandiere russe. Ora che so di che pasta son fatte le donne russe.. noi che cazzo abbiamo fatto quella notte scusate???! (ZIO C)

Ma una delle sere piu’ top che ricordi e’ stata quella in cui mi trovai col Gretto ai fornelli, su a Soraga. Strano che non ci troviamo a condurre Hell’s Kitchen al posto di Gordon Ramsay, la cosa mi sorprende sinceramente. Ad ogni modo, mi piace ricordare, tra i vari modi in cui si impanavano le cotolette o si aprivano le confezioni di gnocchi, un paio di momenti:

Io che esclamo “Go spanto meta’ gnocchi par tera!” e Grette, rassicurante “E mi meta’ ovo paa cusina!”

E per finire, la Giorgia che si rivolge a Fabio dicendogli “Ti ho detto che ce n’era uno in piu’!”. E il comico Gretteria “Ma non ti ascolto quando parli, non l’hai ancora capito?!”

domenica 23 dicembre 2012

Notte stellata

A volte maledico il fatto che noi esseri umani proviamo dei sentimenti.

Stasera uscito da lavoro stavo ascoltando qualche canzone che si chiamerebbe "romantica, d'amore". Un po' tristarella. Chiusa la portiera della macchina, le cuffiette ancora su, butto gli occhi al cielo e rimango paralizzato.

La luce della luna illumina una buona fetta del cielo, mentre la restante parte oscura prende vita grazie all'infinita' di stelle che sono puntellate in quella porzione della volta celeste. Rimango immobile per qualche secondo, come se il tempo si fosse fermato. Solo la canzone continua ad andare.

E poi, diventa uno dei momenti piu' tristi mai vissuti qui.

Ancora vestito "d'ordinanza", me ne frego e mi stendo in veranda, sul legno. Le tristi noti di "Kiss me", Ed Sheeran, scorrono mentre i miei occhi fissano la luna, le stelle, il profilo aguzzo delle montagne, nere come la pece.

E il mio pensiero va ovviamente a lei, cosi' lontana, cosi' irraggiungibile, cosi' distante anche nel tempo che ci separa. I suoi occhi sono piu' brillanti della luna. Piu' delle stelle. Ci metto la mano sul fuoco. La vorrei qui vicino a me, ad ascoltare questa canzone, a vivere insieme questo momento.

E invece mi trovo in compagnia di me stesso, a versare una lacrima che nessuno vedra', e che non mi aiutera' ne' a sentirmi meglio, ne' tantomeno ad avvicinarmi a lei.

sabato 22 dicembre 2012

Mamahaki Falls, Te Urewera NP, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

mercoledì 19 dicembre 2012

Mt.Alfred summit

Panorama from Mt.Alfred summit, Glenorchy, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

La trail che porta a questo posto sta a 10 km da dove abito ora. Fare queste foto mi e' costato un paio di ginocchia, qualche ruzzolone qua e la (tot.4), trovarmi con la punta dei piedi sull'orlo di un precipizio (dopo ruzzolone n.2), e un macello di sole che mi ha distrutto. Ma da li, ho potuto vedere, da sinistra a destra: i monti che celano, poco piu' avanti, Milford Sound, a nord-ovest. La strada che poco oltre porta alla fine della Routeburn Track. Sylvan Lake. Il Dart River e il suo delta. Mount Earnslaw, la torreggiante montagna li a nord. Paradise Road. E infine, ad est, non inquadrato, Diamond Lake.
Pazzesco.

Oggi, alla fine di una dura camminata (2h40' contro il solito cartello "dalle 6 alle 8 ore" - con qualsiasi male sono sempre in formissima hehe!), un urlo alla Bear Grylls c'e' stato tutto quanto!

sabato 15 dicembre 2012

Come ebbi il mio lavoro

Beh, l'ho detto a poche persone e tutto sommato magari qualcuno si sara' anche chiesto da dove diamine mi sia piovuto il lavoro che mi sto ritrovando a fare. Dico, non e' cosa da tutti i giorni iniziare a lavorare in un settore, e farlo presso un'azienda che fa parte dell'elite in quel campo. Direi che sembra cosa piuttosto pretenziosa e utopistica. Ebbene, ecco la mia storia:

Ero arrivato in Nuova Zelanda da poco meno di una settimana, 6 giorni per l'esattezza. Mi ero appena sorbito un tragitto Auckland - Queenstown che, comprensivo di traghetto, fanno 1550 km circa, e che io ho sapientemente allungato volendo passare per quella o quell'altra citta'. Ero arrivato a Queenstown finalmente, dove pero' non avevo nemmeno fatto a tempo a depositare le valigie e riposare un po', dopo una notte passata a dormire in macchina e con precoce sveglia alle 6 del mattino. I miei affittuari erano via, ed io decisi - era piu' o meno mezzogiorno - di guidare altri 40 chilometri fino ad una vicina, minuscola cittadina di nome Glenorchy. Avevo letto essere un piacevole villaggio sulle sponde del lago, affacciata sulle montagne e circondata da nulla se non da acqua e rocce. Un ottimo posto dove passare qualche ora. Iniziai a guidare con quella meta.

Al mio arrivo a Glenorchy, realizzo cosa vuol dire "villaggio": un general store, un cafe', un ristorante, un albergo. Qualche casa qua e la, ed una scuola. Stop. Questa e' Glenorchy. Ah, poi c'e' il lago, lake Wakatipu, stupendo in questa giornata calma, senza vento, dove le nuvole sono quasi inchiodate nella loro posizione su nel cielo, e le acque del lago sembrano ghiacciate, immobili. Faccio due passi sul molo, ammiro le montagne che per me ora non hanno un nome, ma di cui spero presto diventare esperto conoscitore. Pare esserci, piu' avanti, una specie di laguna, indicata peraltro da un cartello che mostra la via per il tracciato camminabile. Non vedo motivi per non farne almeno un pezzo. E' parecchio caldo, ma non porto ne' cappello ne' occhiali, anche perche' un'ora qua sotto con gli occhiali varrebbe una bellissima abbronzatura stile ciclista che preferirei decisamente evitare. Inizio a camminare seguendo il lago, ammirandone le acque cosi' azzurre, vedendo grosse trote che sollazzano nei torrenti laterali, e bambini che incredibilmente giocano allegri sulle sponde, in costume, sebbene l'acqua (almeno questa e' la mia percezione!) non sia di certo a venti gradi di temperatura. Cammino per una ventina di minuti, poi trovo un albero, dell'ombra, e una panca - anch'essa all'ombra. Stavolta non vedo un motivo per non fermarmi e sorseggiare dell'acqua. Ci voleva proprio, specialmente qui: vedo montagne innevate che si sciolgono in erba di color arancione, per trasformarsi in verde ai piedi dei monti, dove ci sono i pascoli per le pecore e per i cavalli. Il cielo e' di un blu da favola. John Denver cantava del "Wild Montana Sky", il cielo del Montana che spesso e' definito come blu ed immenso, infinito. A me ora riesce difficile immaginare un blu piu' blu di questo. Ma tornero' in Montana, e se il tempo mi aiuta stavolta, provero' a trovare l differenze!

Mentre sorseggio la mia acqua, mi si fa incontro una signora non piu' giovanissima, che stimo sulla sessantina abbondante, che sta camminando con un bastone e con il suo cane. Mi dice subito "Hello!". Io rispondo con un sorriso, ed anziche' tirare dritta e continuare la sua camminata, la signora si ferma ed inizia a parlare con me. "Bella giornata vero? Di dove sei?". Credo si capisca lontano un miglio che non sono di qui. Ad ogni modo rispondo, ed inizia la conversazione vera e propria. Spiego, rispondendo alle diverse domande postemi, che sono italiano, che mi son licenziato per iniziare a viaggiare, che la Nuova Zelanda e' la mia prima meta, quali sono i miei piani. "Sei in cerca di un lavoro qui?". Ecco, la mia risposta suona strana. Del tipo, si, la risposta e' si, anche se in realta' non ho ancora iniziato a cercarlo. E' domenica, e secondo la mia tabella di marcia, avrei iniziato domani con un'ufficiale ricerca di un lavoro, in Queenstown, dove ho la mia camera. Oggi, le spiego, sono semplicemente un turista qui. Lei mi dice, "Hai fatto domanda alla Blanket Bay lodge? Sai, la luxury lodge che c'e' proprio prima di entrare qui in paese? Sai, non e' proprio a Queenstown, quindi per te forse sarebbe impossibile venire qui ogni giorno.. pero' sarebbe bello, e so che stanno ancora cercando personale". Le rispondo che si, conosco la lodge, che l'avevo vista (quantomeno il cartello) proprio mentre guidavo verso il paese. In realta' - mi si accende la lampadina, e le spiego tutto di conseguenza - "Conoscevo la lodge anche prima di partire. Avevo visto che cercavano camerieri ed avevo fatto domanda via internet, ma ero stato scartato". La signora quindi, prosegue, lasciandomi a bocca aperta. "Davvero? Beh allora, vedi, tu dovresti tornare alla lodge. Se vai li oggi stesso, dalle 3 in poi, dovresti trovare Lucia (nome fittizio), la F&B manager. Dille che hai incontrato Matilde (altro nome fittizio), che sono io e sono LA PROPRIETARIA, e che ti ho mandato io li. So che stanno ancora cercando personale, quindi potrebbe essere buona cosa andare e farci due chiacchiere se ti va!".
Quasi cado all'indietro. Mi viene una goccia in fronte grande come una palla da football, stile Dragonball. Bocca aperta.

Vedete, Blanket Bay e' una luxury lodge. "Luxury" nel senso che tutto e' strafigo, dal setting, agli interni, al cibo servito, alle forchette usate, alla qualita' del personale. E' la luxury lodge piu' quotata del paese. Di piu', e' stata la seconda lodge AL MONDO per 3 anni di fila. Tanto per spiegare, la prima era una lodge sudafricana dove gli ospiti cenano mentre scimmie, giraffe, gnu, zebre ed altri animali passeggiano a pochi metri di distanza. E' una lodge dove per arrivare alle strutture, dal cancello, a piedi ci si impiega quasi un quarto d'ora. Questa e' Blanket Bay. Ed io sto parlando con la proprietaria. Nella mia mente iniziano ad affollarsi pensieri, mentre la goccia diventa grande come un cinghiale. Immagino quanto la signora avra' speso per l'orologio che porta al polso, quanti rotoli di banconote da 100 avra' in tasca in questo momento, quanti maledettissimi zeri abbia il suo conto in banca, quanto grande sara' l'aereo che l'avra' trasportata qui da dove di solito vive. Nonostante tutto cio', e' una persona alla mano, cordiale e gentile, che sta perdendo del tempo per aiutare me, poveraccio venuto da un paese instabile. Ora la goccia e' grande come un armadio. Se cade faccio la doccia al paese intero, uno tsunami.

Cerco di chiudermi la bocca e l'espressione da citrullo che ho sul momento, e apro bocca di nuovo. Dico qualcosa tipo "Wow!", oppure "Really?! That's amazing!", ovvero due tra le cose piu' cretine che possa dire. Passo falso amico. Poi riarticolo il mio discorso e cerco di far capire che si, sarebbe fichissimo ma mi costringerebbe a interrompere subito il mio affitto, a vivere in questo buco dimenticato dalla civilta', e comunque non sarei all'altezza. Mi do poche speranze. La signora, sebbene non del tutto rassegnata, ammette le mie ragioni, e mi invita solo ad andare e fare un tentativo. Nel caso, avrei il suo supporto.
Cammino parlando con lei per un'altra mezzoretta, scoprendo che e' sposata ad un americano (nota di cronaca: ..qualcosa tipo l'ex CEO di Levis..!) e tante altre cose interessanti. Mi piace la conversazione. La saluto perche' incontra un'amica e non vorrei essere in mezzo alle palle piu' di tanto. Mi invita di nuovo ad andare alla lodge, oggi. Io sorrido, la ringrazio di cuore, e la saluto.
Sono arrivato da 6 giorni e mi va gia' cosi'.

In realta', sulla mia via del ritorno verso Queenstown, non mi fermo alla lodge. Sono cosciente del fatto che ho una possibilita' su un miliardo di essere assunto. Non ho mai fatto il cameriere in vita mia. Di piu', non ho mai lavorato nell'hospitality in vita mia. Di piu', non ho mai servito un piatto come si deve in vita mia, ed io e il galateo siamo tipo il diavolo e l'acqua santa. Non ho chance.
A volte pero' il destino, il fato, intreccia i fili delle nostre vite in un modo che noi non vorremmo, o non penseremmo, o nemmeno lontanamente sogneremmo. Il giorno dopo ricevo una chiamata da Lucia, la F&B manager alla lodge. "Emanuele, sono Lucia, come stai? Ho saputo che hai incontrato Matilde, la proprietaria, ieri a Glenorchy. Bella persona vero? Mi ha detto che stai cercando un lavoro, perche' non passi qui oggi alle 3, ti va? Facciamo due chiacchiere e vediamo un po'! Ti aspetto!".
Stavolta non cado, ma divento bianco in faccia. Questa telefonata vuol dire una cosa: devo essere piaciuto, o devo aver per qualche motivo colpito la proprietaria cosi' tanto che deve aver parlato di me alla lodge, e che si sono messi a cercare il mio recapito tra i dati nel database degli applicanti, mi hanno chiamato e invitato alla lodge. Pazzesco. Non ci credo. E stavolta proprio non posso dire di no.

Quando vado alla lodge, e' come diventare un riccone per un momento. A parte il macinino che sto guidando, che sfigura tra i Mercedes e BMW parcheggiati in parcheggio, mi sento un VIP. Pavimenti in legno, muratura in "roccia", caminetti ovunque, legna vera, fuochi veri, vetri ovunque, giardino con fontana. Un sogno. La gente paga anche 3000$ a notte per stare qui, e non meno di 1500$. Tantino eh? Beh, mentre parlo con Lucia, parlo di questo e di altro ancora. Mi illustra la lodge, come funziona, cosa c'e'. Mi viene proposto di prendere il posto di un ragazzo che andra' via a meta' dicembre. Barman, e cameriere. Chiedo, "Sul serio?". Ebbene si, mi vorrebbero assumere sul serio.

E a questo punto, non posso dire di no. Dopo un'ora di chiacchierata, una stretta di mano suggella il tutto: ho trovato un lavoro.

Per le statistiche, non avevo ancora iniziato a cercarlo, il lavoro. Non ho dovuto nemmeno far la fatica di stampare un CV e girare a piedi a consegnarne qualcuno. Non ho dovuto sudare una goccia per avere questo lavoro. E che lavoro! C'e' gente che gira bar per bar per due settimane prima di avere uno straccio di lavoro in citta', paga minima. Io non ho nemmeno aperto bocca ed ho avuto un lavoro che mi paghera' piu' della paga minima, che se saro' disponibile, mi consentira' di fare turni extra e guadagnare i miei soldini, e in una location che non e' di certo un bar qualsiasi a Queenstown.

Signori, la Blanket Bay lodge. Sono orgoglioso di lavorare qui, ora.
E mi vien da ridere ripensando al detto, "Nato con la camicia". Haha. No, non sono io!
Non credo alla fortuna.

 

venerdì 14 dicembre 2012

Avalanche Peak

Panoramic view from Avalanche Peak summit, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

domenica 9 dicembre 2012

Ultime emozioni pre-job


Avevo atteso con ansia il momento in cui sarei tornato dalle parti di Lake Tekapo e Lake Pukaki. Sapevo che sarei tornato perche’ ero stato troppo rapito dai posti che avevo visto, poco piu’ di un mese fa. E cosi’, scappando dalla piovosa, grigia Arthur’s Pass, mi dirigo piu’ velocemente possibile verso sud, verso la fine dei miei giretti neozelandesi, ma anche verso uno dei posti piu’ belli che questa terra abbia da offrire.

Burke’s Pass si trova a circa 600 metri s.l.m., cosa che per quanto mi riguarda non lo rende un “passo”, quanto una salitella. Lo trovo, non esattamente come lo ricordavo. Vi passai la prima volta all’imbrunire, l’erba gialla tendente all’arancione, freddo. L’erba oggi e’ ancora dello stesso colore, le montagne in lontananza sono ancora innevate, ma complice il momento del giorno (sno circa le 3 del pomeriggio) c’e’ un caldo abbastanza intenso, anche se smorzato dal vento, e soprattutto, ci sono distese di fiori lungo i lati della strada. Lupini. Ovunque. Ne avevo gia’ visti qua e la, ma in misura minore. Ora sembra che piu’ mi diriga a sud, piu’ mi diriga verso i monti, e piu’ i lupini facciano la loro comparsa lungo il mio percorso. Gialli, bianchi, viola, rosa, rossi, blu, ce ne sono di ogni colore. Sono magnifici, uno dei fiori piu’ belli che si possano trovare in natura, a mio parere. Per le foto poi, sono stupendi. Il passo assume una tonalita’ piu’ accogliente, festosa, giubilante per l’arrivo del caldo, la fine del freddo. I colori si sprecano in questo quadro che nemmeno il miglior artista riuscirebbe ad immortalare alla perfezione. Raggiungo Lake Tekapo e sono subito, ancora, rapito dal colore dell’acqua, un azzurro puro e profondo che raramente si vede. Le montagne sullo sfondo. I lupini sulle rive. Scorgo una coppia di neosposi che si fanno immortalare di fronte al lago: beati loro, ad avere un setting del genere. Altro che ville, Pedrocchi o centri citta’. Pagherei per avere una foto con la mia sposa in un posto del genere. Io di mio son talmente contento che salto di roccia in roccia per trarre gli scatti migliori. Sono stanco morto, puzzo come una capra, ma non m’interesso di andare all’ostello a procacciarmi un letto per la notte, per ora. E faccio male. Quando lo faccio infatti, trovo diversi cartelli “NO VACANCY”. Fregato. Mi offrono la soluzione “montati la tenda in giardino e sgancia 16 bombe”. La accetto volentieri, salvo un coupon per quando mi sara’ piu’ utile. E campeggero’ nel posto piu’ bello in cui abbia mai campeggiato forse. Di sicuro, nel posto piu’ ventoso: montare la tenda mi richiede piu’ imprecazioni di quanto sia disposto a profondere in tempo di pace, e una razione extra di pietre per ancorare la tenda al terreno mentre fisso i picchetti. Sandflies e altri insetti malefici non mi danno tregua, il che rende il montaggio della tenda quest’oggi un vero macello. Sono contento e getto via le pietre con soddisfazione quando finalmente la tenda e’ in piedi e regge da sola, sebbene scossa di brutto da potenti raffiche di vento. Non oso immaginare stanotte.. meglio non pensarci, per ora.

Poco dopo sono dentro l’ostello, semiaccampato in sala da pranzo, e da vero zingaro armeggio nella valigia allo scopo di tirar fuori l’occorrente per una doccia. Non proprio il massimo della finezza, ma suvvia, ci sta. Non siamo in centro a L.A. Con cio’ che mi serve mi dirigo in bagno pronto a lavarmi, apro la porta.. e la chiudo subito dopo. Non ci credo. Ho visto una faccia che pensavo sarebbe stata l’ultima faccia che avrei potuto statisticamente vedere sulla faccia del creato. Lascio andare la porta dicendo “Can’t believe it, it’s not possible, you’re tracking me!”. Sto piu’ o meno inveendo dallo sbigottimento contro una persona che avevo conosciuto a Queenstown durante una camminata, che avevo ritrovato senza saperlo nella stessa citta’, stesso ostello e per giunta stessa camera a Wanaka (e di cui avevo gia’ scritto qui), e che ora mi ritrovo tra le palle per la terza volta. E’ il mio amico francese Yoann. Riapro la porta, lo abbraccio, e ci facciamo una bella risata. Ci sembra veramente impossibile, ritrovarci ancora nello stesso paese, e nello stesso ostello. Stavolta nello stesso cesso per giunta! Quante probabilita’ ci sono?! Mi piacerebbe essere bravo in matematica al punto da poterlo appurare e meravigliarmi della piccolezza di quella percentuale. Ma fa niente. Ci raccontiamo da che parti ci hanno portato i nostri trampings nelle ultime 3 settimane – i miei ben piu’ a lungo raggio dei suoi – e ci diamo appuntamento per una cena in velocita’ prima del tramonto.

In cucina, piu’ tardi, mi metto ai fornelli per cucinare qualcosa. Prevedo un tris, che ordino per gradiente di schifosita’ (a livello di porcherie alimentari): quella pessima, un intero pane ripieno all’aglio, ottimo, ma Dio solo sa quanto grasso e onto. Poi, nel mezzo, una cheese&steak pie, molto buona, ma anche li, di dubbia qualita’. Infine, per pulirmi un po’, finisco con un salutare mix di asparagi e spinaci. Gli spinaci, noto purtroppo, spruzzano acqua da ogni poro quando li inforchetto. Degli innaffiatoi. Cerco solo una cosa che mi manca, tra gli attrezzi utili a questa missione: la forbice per aprire la busta del caffe’ in modo decente (caffe’ che va a servire per fornirmi un buon caffe’latte freddo come bevanda per la cena. Ora vi ho fatto vomitare di brutto credo.. pane all’aglio e caffe’latte). Forbici. Non mi e’ nuovo. Hehe. Cercavo le forbici anche quando una ragazza splendida mi si e’ fatta avanti, chiedendomi se stessi cercando proprio quelle. E’ la stessa catena di ostelli. Purtroppo non sono piu’ in quel paese pero’, e purtroppo ora non c’e’ lei a spalancarmi un sorriso magnifico, splendente, e a fornirmi le forbici che cerco. Delle quali onestamente, fossi li con lei, non mi fregherebbe un cazzo.

Il tramonto e’ sempre un momento intenso, anche se a volte la sua vena magica, spirituale, viene rovinata. Purtroppo cose accessorie quali gente intorno a te, una macchina fotografica, chiasso, non sempre – anzi quasi mai – sono optional che aiutano a rendere il momento migliore. Tutto sommato pero’, riesco a godermi quel che mi serve del sole che va a tramontare alla sinistra del lago, verso ovest, lasciando il posto immerso in un totale, profondo blu, che li si scurisce, li si schiarisce, tingendosi di varie tinte di mezzo. Cammino con i miei due amici (si, ho trovato un italiano in ostello. Volete sapere da dove? Da Padova. Non e’ piccolo il mondo? Io lo penso sempre di piu’) fino a tornare all’ostello, alla mia tenda. Dove immergo il muso alle 22.45, terribilmente in ritardo per la mia tabella di marcia. Infatti, conto di svegliarmi presto, sulle 5 o anche prima, per assistere all’alba e fare qualche bella foto. 6 ore di sonno, dopo i giorni precedenti, non mi rendono granche’ felice. Ma questo e’ il prezzo da pagare, se vogliamo immergerci totalmente nella natura, negli spettacoli che ha da offrirci, e condividerli in altri momenti con la gente che si ha attorno. Ed e’ un prezzo che sono ben disposto a pagare, tutto sommato.

Nel cuore della notte, almeno e’ quel che penso, sento che la mia temperatura corporea inizia a calare. Finora sono stato bene invece. Scosso dal vento, i paletti della tenda che sbattono sui miei piedi durante le raffiche piu’ potenti, ma la tenda ha tenuto ed io sono stato abbastanza caldo. Ora il freddo e la mia vestizione poco efficiente (senza cannottiera, con una semplice maglietta di cotone come primo strato – sbagliatissimo!) stanno prendendo il sopravvento. Prendo l’orologio e accendo la spia luminosa per rendermi conto quanto ho ancora di sonno, o di tormento: sono le 4.30. Penso. Guardo in alto, sembra quasi luminoso fuori. Mi mando a fare in culo e apro la tenda, deciso a partire ORA per vedere l’alba. Metto il naso fuori dalla tenda, lo faccio seguire dal mio intero corpo, mi giro verso sud, alzo gli occhi al cielo. E vedo una stella cadente, subito. Un brivido lungo corre sulla mia schiena. Rimango fermo a fissare quel preciso punto del cielo per qualche istante. Possibile? Non e’ una notte famosa per le stelle cadenti. Voglio dire, non e’ San Silvestro. Eppure, alzo gli occhi al cielo appena svegliato, e vedo una stella. Quasi mi viene una lacrima agli occhi a pensarci. Si esprime un desiderio? No, non ci credo. Ma penso a lei. E’ la mia stella ora, l’unica a cui penso.

Mi dirigo dentro l’ostello per un caffe’latte caldo prima di incamminarmi, sono ancora piuttosto infreddolito. Dentro la temperatura e’ mite, piacevole. Mi siedo su una poltroncina, e dopo aver sorseggiato il caffe’latte, mi calo il berretto sugli occhi e dormo per una ventina di minuti. Forse riesco anche a sognare qualcosa, non ricordo. So che mi tiro su il berretto, alla fine, con una voglia del tipo “Mangerei una merda piuttosto di tirarmi su ora”. Mi metto in macchina e arrivo alla chiesa del Good Shepherd attorno alle 5. Pensando di essere solo, ma non lo sono. Ci sono due macchine in parcheggio, una che se ne sta andando, con a bordo dei giappi mattutini, una che rimane. E vedo gia’ il suo occupante, credo. Piu’ mi avvicino e piu’ ho la sensazione che si tratti tipo di un monaco. Un tibetano. Ha una specie di coperta rossa attorno al collo, che gli scende fino alle ginocchia. Pero’ non e’ pelato, non e’ in sandali, e non sta pregando o meditando, bensi’ facendo foto con una reflex professionale. Ovviamente ci inizio a parlare, e scopro che e’ un thailandese emigrato in NZ che attualmente risiede a Christchurch. Inizia subito – e’ motlo gentile – a darmi consigli su come fotografare, cosa fotografare, etc. Non che me ne sbatta molto sinceramente, sono sempre abbastanza ribelle e “do it myself” quando si tratta di queste cose. Pero’ parliamo di diverse cose, mentre vaghiamo qua e la attorno alla chiesa, mentre vediamo il cielo tingersi di un rosa surreale, dietro alle montagne. E’ fantastico, in slow-motion, sento lui parlare strano, lentissimo, un suono gutturale, io invece punto lo sguardo al sole che lentamente sorge, che non vedo ancora, ma che so essere la dietro da qualche parte dietro foreste e cime innevate. I lupini colorati si vedono e distinguono gia’ nella fioca luce che per ora c’e’ sul lago. Il rosa nel cielo si spinge piano piano piu’ lontano da est, dove invece si fanno largo arancioni possenti, rossi fuoco. E’ una scena incredibile, difficilmente ho assistito ad un sorgere del sole cosi’ drammatico in termini di spettacolarita’, e diversita’ cromatica. I lupini sembrano schizzi di colore che un pittore distratto ha gettato sulla tavolozza. Il resto pero’, l’opera del migliore, innarivabile, degli artisti. Vorrei che tutto questo non finisse mai, che il sole non sorgesse, che la chiesa rimanesse un po’ oscura, avvolta nell’ombra del mattino. Ma i minuti passano, e alle 5 e mezza sembra che siano gia’ le 8. Per me, e’ tempo di muovermi, non voglio trascorrere li’ tutto il mattino. So cosa c’e’ oltre, e non voglio perdermelo. Saluto quindi l’amico thailandese e mi dirigo verso Lake Pukaki. Sto per vivere il momento piu’ bello del mio viaggio forse, almeno per quanto riguarda l’aspetto “naturale” della faccenda. La luce e’ ideale, ancora agli albori. Non c’e’ praticamente nessuno per strada. La strada piega poco, perlopiu’ rettilinea, cosa che mi permette di girare spesso la testa, e perdermi nelle praterie, nei declivi, nelle montagne che si stagliano tutte attorno a me. E poi, lupini ovunque. Dico ovunque. La strada ne e’ letteralmente circondata, come guardrail di fiori. Di mille colori. Creano un contrasto con l’erba giallastra che fa venire le lacrime agli occhi. Avevo solo visto delle foto, di prati ammantati di lupini, e le avevo guardate dicendomi “Un giorno spero di finire in un posto come questo, mi piacerebbe da matti”. Ora ci sono, ed e’ veramente fantastico. Mi fermo innumerevoli volte, macchina accesa in mezzo alla strada, per scattare una foto qui e una li. Entro in strade private, siti di costruzione, cantieri, scavalcando reti e cancelli per avere lo scatto che voglio. Ci sono alcune pozze – non me la sento di chiamarli laghi, o laghetti – che riflettono quasi perfettamente le montagne di fronte, dorate dai primi raggi di sole. Dico, letteralmente dorate, un arancione mai visto prima. Mi capita per sbaglio di girare la testa un po’ di piu’, verso nord piu’ o meno.. e vedo una montagna che troneggia sulle altre, una specie di forma trapezioidale, dorata, come avvolta da una pellicola d’oro: e’ Aoraki Mt.Cook. Possente. Lo si raggiugne con una strada che costeggia Lake Pukaki sul lato destro. Io non lo raggiungero’, la strada mi porterebbe via circa 90 km e i relativi soldi per la benzina. E in piu’, lo sto contemplando ora, e ne sono felicissimo. Non e’ esattamente la cosa piu’ facile che ci sia, vederlo. E vederlo in quest’aura dorata. Quasi ogni mattina, dopo l’alba, viene avvolto da diversi banchi di nubi, salvo fare sporadiche comparse durante la giornata, con venti benevoli. Mi sento estremamente fortunato ad assistere a questo spettacolo, anche se poi ripenso al detto “La fortuna aiuta gli audaci” e “Chi dorme non piglia pesci”. Si, ho pagato il mio prezzo in termini di sonno e salute psicofisica credo, ma sono stato fortunato e ho pigliato il mio bel pesce. Potrei gia’ dirmi soddisfatto per la giornata: anche se sono in piedi da un’ora appena, e’ come fossi vissuto due giorni. Tanto intensi sono stati questi momenti. E’ pazzesco, la vita certe volte e’, seppur lunga, cosi’ insignificante, brulla, insapore. La vita di molte persone scorre via senza un significato preciso, senza del sale, senza momenti intensi. Io sono contento per quello che faccio, per quello che sono, per come vivo. Sono convinto che un giorno guardero’ indietro alla mia vita, e mi scorrera’ una lacrima di felicita’ sul viso, consapevole di aver fatto cose che hanno dato una svolta, poi un senso, importante, alla mia esistenza.

Una volta arrivato, dopo innumerevoli stop, a Lake Pukaki, mi fermo sulla prima rientranza della strada. Prendo macchina fotografica e cavalletto ed inizio a correre come un bambino, verso le sponde del lago. Non voglio perdere neanche un secondo di questo spettacolo. Mt.Cook sta per venire inghiottito dalle nubi quotidiane, il sole e’ definitivamente sorto ormai, e la magica luce intensa ma allo stesso tempo dolce del primo mattino sta svanendo. Scatto qualche foto, quelle che mi interessano, poi prendo un momento per me stesso. Mi perdo nel bianco della neve lontana, in cima alle montagne. Mi perdo nella grandiosita’ delle catene montuose stesse. Nelle fredde acque del lago. Nelle praterie tutto attorno a questo idilliaco posto. Penso a quando, un giorno, tornero’ a casa. Avro’ talmente tante esperienze da raccontare che qualcuno non mi credera’. Potro’ intrattenere gente per serate intere. Soprattutto, potro’ far viaggiare, con le mie foto e le mie storie di viaggio, un sacco di persone che per un motivo o per l’altro, non viaggiano. Questo mi rende un sacco felice, contento, ed orgoglioso. Potro’ raccontare a tanti bambini quante meraviglie ci sono al mondo e quanto valga la pena aiutare questo pianeta a sopravvivere. Potro’ cercare di invogliare tanta gente a casa, a viaggiare, a provare quest’ esperienza che a volte sembra impossibile ma che e’ proprio dietro l’angolo. Non vedo l’ora. Intanto mi godo questo angolo di mondo.

Arrivo a Queenstown attorno a mezzogiorno, e mi dirigo subito al supermercato per rimpinguare il mio frigorifero (il bagagliaio della mia macchina), fermandomi anche ai magazzini generali per comprare le mie scarpe “da lavoro”. Delle schifosissime scarpe dal tipico gusto “inglese”, o americano, cioe’ nere, insulse, non curate, banalissime, che confrontate alle mie Prada che hanno 6 anni o qualcosa del genere e sono distrutte dall’uso, sono comunque anni luce addietro. Ma questo richiede la posizione, quindi facciamolo. Sono allo scaffale delle scarpe da lavoro, cerco fra i modelli. Riguardo la mail della manager riguardo a quale modello sarebbe stato il piu’ adatto. Non ci credo. Guardo bene fra le varie etichette per cercarlo, per scoprire se quello che ho letto esiste davvero. Volete sapere come si chiama? ESTONIAN.

E poi qualcuno dice che non esistono “segni” o cose del genere.

martedì 4 dicembre 2012

My last day hiking (for a while)


It’s up to your own perception, whether you call it a challenge or just a hike.

It’s already 12.30, but I still have a bunch of hours to go. I go to the DOC office in town – oh, the town is Arthur’s Pass by the way – and ask for the highlights of the area (typical, silly question asked by every person entering that door). The reply includes what I was looking for, Avalanche Peak trail. A steep, not-too-long climb up to a peak right behind the township, with gorgeous views of all the area, including surrounding peaks both on the North and South side. Checking out the forecast for the next few days, I discover that tomorrow is not supposed to be what I’d call a fine day: heavy rains and snow showers lowering. First, I gotta cancel tomorrow's night at the hostel. No way I’ll stay a full day closed there. Second, I must hurry up and take the most out of the park, before to leave. And before it starts with that heavy rains stuff. I tell the ranger I’m gonna go up there, by myself. “Are you aware that it could be extremely cold?”. “I know”, I reply. “Are you aware that usually the hike takes between 6 to 8 hours to return?”. “Yep, just read it!”. “Ok, so, first, hurry up if you really want to go up. Then, tell somebody you know what you’re gonna do. Finally, take up with you food, water, and heavy clothing. Remember that heavy rains are supposed to start by late afternoon”. Uh, like to say “If you really want to die young, at least bring some food and clothing to let you enjoy your last hours.. and don’t say I didn’t tell you!”.

5 minutes later I was back to the hostel, where I wanted to let the manager knows that I was going up there and, if something should have gone wrong, call the police, fire department, CIA, FBA and the Interpol. It’s never enough, you never know. But, apparently she doesn’t want to know. She refuses me to say more. I stop, stare at her like “the hell are you saying?!”, while she handles me a couple of sheets with, basically, all you should know about hiking safety rules. “So?”, I reply. “I can’t hear intentions, if you do want to let somebody knows, find another person. That’s not me”. Ok, fuck it, you and the intentions. I’m gonna be back soon anyway.

Since the first steps I can tell it’s gonna be really steep. I mean, I know when a trail should be dubbed steep. And that’s the case. No way to climb up gently on a leveled, paved path, just a rocky, messed, rough trail tangled with roots and limbs. Sometimes, big rocks build up stairs that your legs would pay to get rid of. Muscles killers. Big and small roots make it difficult to get up with a constant pace, even more difficult to balance your body when setting down the feet. Finally, limbs here and there from the incumbent vegetation make it necessary to take a look up, unless you want to get your teeth slapped by some green and brown stuff. Not really my case. After just a couple minutes, my shins are collapsed. I don’t know what it is (lactic acid?!) but it’s just a heck of an obstacle to hike with that. Simply I can’t keep the pace I want. So, gotta slow down, relax for a while, climb up easily. That’s how it works, hopefully. But the weather is changing, you can tell it from the wind, kicking up steadily, the clouds, moving pretty quickly. I must, hurry up if I want to make it to the summit. I just think, that I can do the hike in 3 hours, but I’m not still sure: I don’t know how many km I’m gonna hike, don’t know if it will keep as steep as I saw so far, and finally, I don’t know if my legs will make it. I hiked a lot, 250 km in the last month, with just a few days of complete rest. My toes have been smashed into the boots quite a few times, running downhill. That’s gonna be my last big hike for a while, anyway it’ll go. But by now, let’s move.

After a painful series of stairs, rocks and roots, I finally reach the end of the bushline. Kind of relief uh? It’s not. The wind is strong, I bet it’s at least 50 km/h, and the temperature dropping down. But I don’t want to stop and take another layer, I just want to make it as soon as I can, so I keep going. From here, I find nobody on the trail. The only 3 people I met were already down the bushline, almost safe and close to the road, the civilization, a car. I think I can say which is my goal, which one is the peak I’m climbing to. But eventually, when I think I’m close to get there – as often happens in the mountains – I understand it was just a ghost. An illusion. The peak is way up there. It’s actually kind of another mountain. I’m just at its feet. Crap. I stop, and stare. It’s still steep, the terrain not definitely reliable. All around me, except to the East, a compact bank of grey clouds loom closer and closer, quickly. I can’t exactly tell how much time I still have before it’ll start, but one thing that I know, is that the forecast was amazingly correct. I decide to move on, again. Trying to keep the steady pace I finally acquired, I skip rock to rock avoiding pebbles and sand, both on my hiking black list. Stopping for a few seconds just to check the sky, I eventually reach the summit, at more than 18 hundreds meters, allowing you to see the closest world to yourself. It’s mountains all over here. At least till a certain height. Then, it’s just grey clouds. The wind it’s stronger. I decide to take a few steps back, trying to protect myself from the fiercest gusts, and take out my light parka and winter hat. Necessary. No people around for a picture, I go for a self-shot which tastes like and odyssey. Choosing the rightest rock, balancing the camera, adjusting the subject. I’m freezing my hands. So I take a few shots, quickly, put my camera back into the bag, and get ready. “Let’s get my ass out of here as soon as I can”, I think.

But it’s not always as easy as you may want. There has to be something spicy. Crappy, say it whatever you prefer. I feel a drop on my hand, while I’m concentrated in my usual rock-jumping style to go downhill. That’s painful: I cannot figure out how it should be all of that rocks and roots tangle with a heavy rain. So, I pray for it to stop to a drop, and wait for a few quarters of hour. But it simply doesn’t agree. It rains. I try to get down quickly but wisely, trying to maximize my balance on every rock, evaluating every pace to avoid to slipper or worse, to fall to the ground. Here it would be massive. Well, say tragic. Overall forwards. Through rough wind gusts that change my body moves and some “Oh-my-goodness-this-time-I’m-screwed” moments, I got the bushline pretty soon fortunately, but it’s not as sweet as one can think. Roots are as slippery – if not more – than wet rocks, so it’s complicated to choose where to put your feet. Rain is evening up, and down here you start to splash your feet into water, and occasionally mud. I got to a point I pointed out as the most difficult yet coming uphill, but with a little of attention and some slow-motion moves I do it well. Feeling good, I think the worst has gone. Not yet man. On a tricky passage made of a couple small trees and some small rocks, a descent of 2 meters or so, the rock I choose to set my foot collapse. I just fall down. In that fraction of second, I can’t even imagine how painful, fatal should be my ass-smashing to the rocky ground. Bad stuff. Really bad stuff this time. But somehow, my left arm manages to grab a strong limb of one of the two trees I was passing through, holding firmly to it. I save my ass. Just hurting the rocks behind me with the backpack. Still holding on the limb, I breathe a relief breath. Still alive, not even scratched or wounded or whatever. Cool uh? (Yep, to me it is)


Later on I was sitting at the toilet, reading those hiking safety rules sheets that the hostel manager handled me before I started to hike. Sheets which I didn’t read at that time, and that are now pinned to the toilet’s door. “Most of the people find it a challenge, some are just terrified by the experience”, it’s underlined in a passage. I’m just close to grab a pen and write, “I did it in 2hours and 45minutes!”

Un giorno molto, molto lungo. E difficile.


Mi riesce davvero difficile in questo momento prendere e scrivere. Perche’ dovrei? E soprattutto, di cosa dovrei scrivere? Della tristezza che provo, di quanto ogni canzone un po’ melanconica mi metta le lacrime agli occhi? Perche’ dovrei scrivere quando l’unica, l’unica cosa che vorrei fare sarebbe prendere il mio catorcio e tornare indietro da lei, costi quel che costa di ferry e di benzina. Perche’ dovrei continuare a girare, camminare, parlare e fotografare quando so che starei cento volte meglio li, nell’ostello dove lavora, anche se stessi tutto il giorno a fissare il muro. Il solo pensiero di saperla li vicino, la consapevolezza di poterle cucinare qualcosa, di bere un te’ assieme e parlare prima di andare a dormire, varrebbe qualsiasi pena, lo so.

I miei amici mi conoscono bene e penseranno che tutto sommato, sono uno che si lascia prendere facilmente. Verissimo, sono il primo a dirlo. Ma sono anche il primo critico della situazione, il primo che valuta, il primo che ha dei dati sotto mano con cui poter tirare qualche somma. E la conclusione a cui sono giunto dopo 4 giorni stupendi, un concentrato di emozioni, da una camminata ad un te’ caldo assieme, da un tramonto con gli s’mores ad una passeggiata al chiaro di luna, e’.. e’ che non voglio lasciarla scappare, punto e basta. Purtroppo devo andare, lei deve stare, per un motivo o per l’altro per un po’ andra’ cosi’. Sara’ un periodo lungo – piu’ per me, lo so – ma passera’. Quel che non mi faccio passare e’ lo splendore dei suoi occhi. Quello sara’ la carica nei momenti piu’ tristi. E poi ci rivedremo, ce lo siamo promesso. So cosa vuol dire aspettare mesi per vedere una persona, e sono pronto a rifarlo. Tutto sommato, e’ un po’ una dolce attesa no? E non vedo l’ora di potermi specchiare ancora in quegli occhi che fanno impallidire il lago piu’ bello di questo paese meraviglioso.

 

Stamattina mi trovavo lungo la strada n.6 che da Blenheim porta a Westport (anonima citta’ dove la benzina anziche’ costare meno rispetto agli insignificanti villaggi precedenti, costa di piu’), attorno alle 7 e mezza. Strada deserta, attorniata da vigneti a destra e a sinistra, interrotti qua e la da qualche appezzamento dedito alla pastorizia. Io ho una fame da orsi. Come colazione ho avuto, finora, due barrette ai cereali e cioccolato, attorno alle 5.45 del mattino. La notte e’ trascorsa.. anzi, la notte e’ iniziata il giorno precedente, 2 dicembre, alle 20.30, quando con gli occhi lucidi lasciavo National Park. Ho guidato fino a Bulls dove mi sono fermato al McDonald’s locale per una mezzoretta, tanto per staccare e cenare, svegliarmi un po’. Ho poi ripreso la marcia fino a Wellington dove alle 2 di notte mi imbarcavo sulla ferry e lasciavo North Island. Non mi reggevo in piedi. Ho dormito per appena 3 ore disteso su una poltrona, in un traghetto abbastanza sguarnito di clienti (comprensibile). Durante il breve sonno poi, ho anche fatto a tempo a girarmi e cambiare posizione, sentendo un male terribile al ginocchio. Sembrava che mi avessero cementificato le giunture, non riuscivo a piegare la gamba se non con un dolore pazzesco. Non so piu’ che cazzo farci, l’altro giorno mentre correvo (e sentivo male), ho esclamato “Bastardo, che cazzo hai, ti faro’ guarire a forza di correre!”, ma evidentemente non deve averle prese troppo bene quelle parole. Ad ogni modo, ginocchio a parte, qualcuno alle 5 e mezza ha acceso le luci della nave e mi sono svegliato, e ho mangiato quelle due barrette. Tornando alla strada 6 e alla fame da orsi, ora e’ noto il perche’. Decido di fermarmi nel primo posto utile, una rada stretta, sassosa e melmosa, che ovviamente sfrutto al meglio fermandomi proprio in modo che il primo posto dove metto piede sia una pozzanghera melmosa. Ottimo. Accendo il fornelletto per bollirmi dell’acqua e farmi una specie di cappuccino (ho la polvere magica), e nel frattempo ingollo qualche biscotto. Mischiata la polvere all’acqua bollente, nella scodella si forma una specie di lordura marrone schiumosa. Mentre mescolo, guardo in basso alle pozzanghere melmose: sembrano la stessa, fottuta, identica cosa. La prossima volta caccio la scodella la dentro, le bollo un po’ e vaffanculo.

Per fortuna e’ un bel giorno oggi, e non piove. Probabilmente avrei scelto di ingannare il tempo – ed evitare la tristezza – facendo un bagno tra i cavalloni dell’oceano, quindi va bene che sia sereno e che il mare sia poco mosso. Quando arrivo a Punakaiki, dove voglio tornare allo stupendo YHA dove ero gia’ stato qualche settimana prima, fa caldissimo. Saranno 20-21 gradi eh, ma sembra ce ne siano 35. Faccio due passi a Paparoa NP, sfrutto la connessione finche’ sono al villaggio – in mezzo alla foresta, ovvero dove sto io, non prendi neanche le mosche – e ripiego all’ostello. Troppo, troppo caldo. E poi troppo, troppo sonno, sono stanco. Le gambe risentono ancora della fatica di Mt.Ngauruhoe e del Crossing, gli addominali e i bicipiti sono ancora indolenziti da quel poco di esercizio fatto 2 giorni fa al parco, e il sole scotta sulla pelle. In piu’, la mia macchina sembra stata visitata da una banda di procioni dal casino che c’e’.

Diciamo che ci sono tutte le condizioni per rincasare, farsi una bella doccia, un litro di te’ freddo, e sbrigare qualche faccenda – se riesco a tenere gli occhi aperti.

domenica 2 dicembre 2012

Emerald Lakes @ Tongariro Crossing, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

sabato 1 dicembre 2012

Tongariro Crossing & Mt.Ngauruhoe - Ce l'ho fatta anche oggi.

Mt.Ngauruhoe from Upper Tama lake, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

Ok. So che volare bassi ed essere modesti e’ sempre la via migliore, ma oggi permettetemi di essere felice e gasarmi un po’, essere fiero del mio corpo e delle sue prestazioni. Anche se un po’ e’ merito della mia cocciutaggine – riflettevo che raramente ho conosciuto persone ostinate come me, quando si mettono – gran parte del merito va anche alle mie gambe, alla mia resistenza. Non al mio stupido ginocchio, che continua a remarmi contro non so perche’ e mi fa fare il doppio della fatica in discesa, cosa che dunque rende ancor piu’ pregevole la mia impresa di oggi. Si, un’impresa la chiamo, forse la giornata di cammino piu’ dura che abbia mai avuto. Forse. Ne sto avendo diverse di dure, per un motivo o l’altro, qui in giro. Oggi e’ stata possente comunque, per la camminata di per se’, per l’altimetria, per il passo tenuto. Vi snocciolo un po’ di numeri, tanto per gradire:

Dal car park agli Emerald Lakes lungo il Tongariro Crossing, andata e ritorno per circa 17 km ed un altitude gain di 850 metri, percorsi in 3 ore. Lungo la via, deviazione per Mt.Ngauruhoe (in foto) summit, circa 4 km andata/ritorno con un altitude gain di 1000 metri, percorsi in 1h 50’. Inoltre, non fosse abbastanza, la parte piu’ difficile (la cima), affrontata dopo aver fatto gli Emerald Lakes, con quindi gia’ 10 km e 850 metri di dislivello alle spalle. E – per finire in bellezza – le condizioni del terreno, per raggiungere la cima. Pazzesce, forse le piu’ difficili e pericolose che abbia mai affrontato. Tant’e’ che a fine camminata ho scoperto che una trail vera e propria non esiste, la gente che vuole avventurarsi lassu’ – sono 2300 metri – lo fa seguendo l’istinto, l’intelletto, o le tracce lasciate da altri. Insomma, a fine giornata, sulle mie stanchissime e graffiate gambe (seguite il racconto) pesano 21 km, 1850 metri di dislivello, ma percorsi in un tempone: 4h 50’. Sono molto soddisfatto, soprattutto per avercela fatta senza spaccarmi il ginocchio malconcio che mi ritrovo. Ho tirato come un capro, e senza avere la carota davanti. E nessuno, al solito, mi ha mai superato. Qualcuno mi ha chiesto se vado giu’ correndo per le montagne. “Non sempre!”, ho risposto. Un’altro, un signore che ho superato, mi fa “Ne hai di energie per andare su cosi’ eh?!” E io, “Ho solo fatto una buona colazione!”

Ma partiamo dall’inizio.

Nell’affollato car park, che mi lascia presagire una folla biblica lungo il percorso – stile Tre Cime di Lavaredo per intenderci, una processione del cazzo – parcheggio di fianco a due ragazze austriache. Mi vesto, pantaloncini corti, maglietta corta con maniche arrotolate alle spalle per un’abbronzatura avvolgente, e zaino pantagruelico (avro’ ancora a pentirmene). Loro mi vedono cosi’ arrembato, e una mi fa “Vai su vestito cosi’?” Io mi guardo, penso che si, non sono il massimo dello stile ma, efficace per un giorno di sole no?! Lei continua, “Perche’ ci hanno detto che puo’ essere anche -10 nel punto piu’ alto (1900 metri per la cronaca), il tempo cambia rapidamente qua e c’e’ tanta gente, dicono i ranger, che va su impreparata e rischia grosso”. Le rido in faccia, piu’ o meno. Ormai, credo di avere un po’ di hiking alle spalle, e credo di aver capito un po’ come funziona lassu’. E da quel che so, direi tanto possibile quanto un cane inizi a parlare thailandese che a 1900 metri in una giornata di sole si arrivi a -10. Lei mi pare convincersi un po’, la sua amica invece mi risponde “Beh io la giacca la porto su lo stesso”. Mi vengono i vermi solo a pensarci, cazzo. Ma sei ammattita?! Bah. Girando ne vedi di ogni. Io porto su, come layer aggiuntivi, una maglia termica lunga Kipsta, e il parka. Stop. No guanti, no cappello, no giacche & affini. Fuck it. Do loro appuntamento in cima, conscio che faro’ ora ad arrivare, tornare indietro e riprenderle sulla via prima di reincrociarle.

Abbondo con la cremaanche sulle braccia stavolta, il sole picchia duro. Fortuna qualche nuvola ogni tanto mi aiuta. Salgo su, dopo aver smaltito l’acido lattico sugli stinchi, che e’ un piacere. Un capriolo. Mi piace un sacco quando vedo la gente arrancare di brutto, ed io li supero a lato saltando da una roccia all’altra. Haha. Mi gasa a chiodo. Arrivo in cima e scendo ai laghi in 1h 45’. Il paesaggio, via della semifolla che si accalca sotto i cartelli che indicano le distanze (devono avere qualcosa che calamita la gente, come mosche sulla merda. Perche’ fermarsi sotto un cartello piuttosto che su un sasso qualsiasi?! Boh) e’ veramente degno di nota. Sto attualmente camminando sopra una specie di enorme caldera. Si sente odore di zolfo qua e la, specialmente se il vento soffia nella tua direzione e ti porta l’odore di tutti i soffioni che immettono zolfo nell’aria. Se ti fermi a contemplare la scena, e’ piu’ o meno cosi’, dall’alto sugli Emerald Lakes: in fondo alla discesa, scoscesa e semisabbiosa, 3 laghi uno piu’ smeraldo dell’altro, 2 alla stessa altezza, divisi da 2 metri di rocce, l’altro piu’ in basso di un centinaio di metri. A sinistra, una grossa “pinna”, una cresta rossa e nera con puntini bianchi qua e la: neve. Dietro, i 2300 metri coperti dalle nuvole ogni now & then di Mt.Ngauruhoe. A sinistra invece, una valle, una valle che sembra una Death Valley in miniatura, deserta, secca, con scarsa vegetazione giallognola e macchiata qua e la da altra neve. Una vallata che termina in un’altra cresta montuosa, che finisce in alto nella cima di Mt.Tongariro, un piccoletto di 1800 metri circa. Il piccoletto e’ pero’ quello piu’ attivo dei vulcani li’ attorno, quello che ha eruttato circa una decina di giorni fa. Se erutta ora, sono fottuto. Come tutte le persone qua, parecchie. Figo no, finire sepolti sotto la cenere insieme a un macello di altra gente che non si conosce, mentre si e’ li per passare una bella giornata di sole a vedere uno dei posti piu’ belli della Nuova Zelanda!

Torno indietro, ma sono solo le 11 e mezza, circa. So che in un’ora sarei indietro al car park, e non mi va di tornare all’ostello per l’una. Voglio assaporare un po’ di fatica in piu’, un po’ di paesaggi in piu’. Sono molto diversi dalle scene montuose viste finora. Sono vulcani infatti, e non avevo mai camminato cosi’ su un vulcano, su un pianoro vulcanico attivo che potrebbe per qunto ne sappiamo, eruttare da un momento all’altro. A volte, quando la gente scompare per un po’, soprattutto nella piana che precede Il Red Crater, sembra di essere sulla Luna. Una valle il cui terreno ha un colore bronzeo, scaldata e “ondulata” con quell’effetto miraggio dal sole, e spazzata da venti che portano i soffi sulfurei sulla pista, rendendola una specie di affumicatoio al sapore di zolfo. Pazzesco, e’ veramente, veramente strano. Sono a 1300 metri con montagne ai fianchi ma fa caldo come nel Sahara. Sensazione stranissima. Ad ogni modo, devo trovare qualcosa da fare, ed ho due alternative: la cima di Mt.Tongariro, che indicano a 3km a/r per 1h 20’, o la cima del monte impronunciabile, 2300 metri dati a 3hr a/r, senza chilometri (non essendoci sentiero, dipende da te: puo’ essere 4 km come 6). La prima mi sa da niente, da perdita di tempo. Un ora e venti le faccio in 45 minuti, e dalla cima li’ non vedrei granche’. Sono qui, e se vado per qualcosa, vado per il top. Come skydiving, come le cave: se scelgo di farlo, se voglio pagare per questa cosa, tanto vale farlo al top no?! Decido di cimentarmi nell’ascesa, anche se, dovendo essere onesto, visto dalla base mi fa veramente paura. Sembra altissimo. Ripido. Pericoloso. La cima e’ innevata. Non conosco la lunghezza, l’altimetria (quando la vedro’ imprechero’). Temo per il mio zaino, pesante maledettamente per una cosa del genere. Ricordo di quando salii con l’amico Fabio in cima al Sasso Piatto (3000 metri), in una giornata terribilmente lunga e difficile, e ricordo benissimo quando arrivammo al rifugio, ai piedi del monte, gia’ stanchi, e vedemmo la montagna, enorme, di fronte a noi, tutta da scalare. Imprecazioni senza fine. Mi sembrava un’impresa titanica. Ecco, questo penso, non sara’ uno scherzo, mi viene male a pensare a quanto dovro’ faticare. E a quanto fiato dovro’ sprecare per imprecare contro me’ stesso, le mie voglie del cazzo, le mie sfide personali del cazzo, e la mia cocciutaggine. Ma va bene cosi’, piuttosto che stare in ostello o camminare con i giappi coi bastoni, mi faccio il culo a strisce a forza di scivolare giu’ per il monte di merda. Andiamo.

Dopo i primi 4-500 metri in scioltezza, capisco le proporzioni della cosa. La pista e’ uno schifo. Un misto di rocce, pietre, tantissimi sassolini e altrettanta sabbia. Un fottuto casino. Camminarci e’ come camminare dentro l’acqua, o camminare nel fango quello brutto. Fai un passo, sprofondi di 5 centimetri se non metti il piede sulla roccia, e arretri di mezzo passo perche’ scivoli. Damn it. Sali a zig-zag per limitare lo slittamento verticale, cerchi la roccia quindi ti allunghi la strada, a costo di guadagnare un appiglio sicuro. Fai una fatica cagna per salire di roccia in roccia, non tutti sono comodi scalini a portata di piede. Ti fermi ogni SEMPRE. Perche’? Per aver cura della tua stessa pellaccia. Ci sono degli incompetent asinacci che per ridurre le fatiche ed il tempo, si divertono a scendere giu’ in verticale – la pendenza stimata e’ del 45% qui, se mi fermo e traccio una retta con il cielo sullo sfondo – slittando sui sassolini. Divertente, intelligente, peccato che cosi’ facendo fanno rotolare di tanto in tanto delle belle pietre che, ovviamente, prendono una velocita’ pazzesca e rotolano verso il basso. E chi c’e’ in basso?! Il sottoscritto. Devo preoccuparmi della mia incolumita’ soprattutto, quindi a costo di qualche sforzo in piu’, scelgo la via rocciosa, e salgo cercando riparo dietro ogni masso, giusto in caso. Se mi fermo a guardare indietro, realizzo che ho gia’ salito abbastanza. Se guardo sventuratamente in alto, mi viene da vomitare. Sembra infinita, ma soprattutto, terribilmente ripida. Quando scivolo a volte me la faccio un po’ nelle mutande, non e’ facile fermarsi sui sassolini, e ci si graffia spesso e volentieri sulle rocce. A meta’ strada mi vien quasi voglia di darla su, la discesa dev’essere una sofferenza, per il ginocchio, e per il mio culo, credo che a forza di scivoloni me ne dovro’ fare uno nuovo. Ma qui sta il trucco: prenderla come una sfida. Voglio veramente mollare? Tornare indietro, rispondere alla gente che mi chiede dove sono andato, “Bah, fino a meta’ del monte impronunciabile, poi son tornato”?! No, non fa per me. E’ solo uno stimolo in piu’ per proseguire. E poi sono ancora in ballo per un tempone, non voglio fallire, voglio stupire qualcuno. Anche se poi penso a mia madre, tra un sasso e l’altro. Se avesse i miei occhi per un momento e vedesse dove cazzo sto salendo e che motivazioni mi sto dando, mi ucciderebbe. Credo verrebbe a prendermi in elicottero. Hahaha.

Piano piano pero’ mi inerpico, a piccoli passi, come uno scalatore, come uno sulla via dell’Everest. Sono sfinito, non vedo l’ora di mangiare qualcosa. Un tipo fermo mi dice “ Solo 5 minuti, dai”. Andiamo su insieme. Mi sembra un passo insostenibile il suo, sono stanco morto, non ne ho piu’, ma incredibilmente, si fa da parte, e mi dice “Vai vai, sei troppo piu’ veloce”. Cheee??! Avevo la lingua che toccava per terra! Pero’ in effetti, dopo pochi metri l’avevo gia’ lasciato indietro. Una cosa che mi fa realizzare piuttosto, e’ che sono l’unico, non ne ho visto nemmeno uno, con uno zaino cosi’ grosso e pesante. Sono tutti scarichi o con zaini piccoli, della serie 20 a 40 litri massimo. Io col mio 85 faccio la figura di un Dodge Ram 3500 in centro a Cadoneghe. Il fatto e’ che in quella situazione spaccherei culi, qui invece mi spacco il culo da solo – e anche la schiena. Mantenere l’equilibrio scarichi qui sarebbe gia’ una buona sfida, farlo con uno zaino da 85 litri sulle spalle e’ titanico per me. Buono a sapersi per la prossima (che non ci sara’). Alla fine delle mie fatiche erculee, vedo la neve, la sento sotto i piedi, sono arrivato. La cima. E’ fantastico, non tiro un urlaccio solo perche’ c’e’ un manipolo di stupidotti tedeschi che ha gia’ colonizzato la cima per farne l’ennesima piccola Baviera neozelandese. Mollo lo zaino e tiro fuori il mio  pacchetto di biscotti di Balzar. Ne mangio 10 nel giro di 2 minuti. Dopo guardo i valori nutrizionali:ho mangiato, con 10 biscotti, del tipo piu’ del 50% delle energie necessarie nella dieta giornaliera di un maschio adulto che fa esercizio. Pazzesco. In effetti, mi sento parecchio pieno (e ora, mentre scrivo, sono passate 5 ore e quasi altri 10 km e non mi sento granche’ affamato). Indugio un po’ sulla cima. Surreale. Ogni tanto sei avvolto nel candor bianco delle nubi, ovunque, come su alla Alex Knob. Poi, pochi secondi, torna sereno. Vedo Taupo ed il lago, il piu grande della Nuova Zelanda, ad una 50ina di km a nordest. Vedo National Park. Vedo i laghi dov’ero poco prima. Vedo gli Upper & Lower Tama lakes, dove ero stato qualche giorno fa e avevo pensato “Quel monte sembra irraggiungibile”. Ebbene, ora sono sulla cima, ed e’ speciale. Mi sento felicissimo, la fatica provata e’ valsa la ricompensa finale, come spesso vale da queste parti. Ho una visione che non tanti possono vantarsi di aver visto. Incredibile. E questo, questo lo dedico a chi a casa puo’ pensare, “Ma si, lavoro duro fino a 55 anni (haha, 55??!) poi coi bei soldi che ho fatto mi giro il mondo”. Si. Si caro. Intanto a 55 anni sognati di finire di lavorare. Poi, come la mettiamo con i primi acciacchi (primi, magari sono solo gli ultimi di una lunga serie), con l’eta’ che avanza, con la voglia. Io questo a 55 anni se riesco a farlo vado sul giornale altro che. Voglio dire, ok, c’e’ gente che lo fa, non e’ impossibile, ma mi uccide. Non faccio tutta questa strada. E mi prende un giorno intero. Ora posso farlo insieme ad altri sentieri, posso permettermi di saltare qua e la, e di farci dell’humor. E mi piace un sacco. Sono contento di non aver mai, mai pensato come qualcuno a casa.

Metto le mani sul terreno. Non mi sono mai cambiato i miei vestiti, sono ancora in maniche corte, arrotolate sulle spalle. L’unico, a 2300 metri. Sono tutti in giacca, alcuni guanti, berretto. Io sono praticamente da mare. Mi distinguo dagli altri, mi piace. Non fa sentire il freddo. L’energia a volte viene anche solo da questo. Oppure sono i biscotti, cazzo ne so, spaccano sul serio quelli. Mettendo le mani sul terreno le scaldo: essendo suolo vulcanico, e’ caldo. Una bella sensazione no, avere una specie di riscaldamento a pavimento, naturale! E inizio la discesa, realizzando subito, come mi aspettavo, che possibilmente sara’ ancora piu’ difficile della salita. Per i muscoli, stressati duro. Per il mio culo, che si sobbarchera’ diverse scivolate. Per i nervi, sempre all’erta per non mettere un piede in fallo. Inoltre, non voglio fare come gli incompetenti di prima, non voglio solo scivolare giu’ per la via dritta. Uno perche’ non ho guanti e pantaloni lunghi, il che mi costerebbe diverse abrasioni ho idea. Due, perche’ non voglio mettere in pericolo qualcun’altro. Se accadesse qualcosa per colpa mia, non lo sopporterei. Scendo saltando da una pietra all’altra, rallentandomi e costringendomi a sforzi extra di equilibrio e tensione muscolare. Cado dopo pochi metri, tagliandomi alla base della mano e sfregiandomi un po’ sulla gamba sinistra. Sputo via un po’ di sangue, e sono di nuovo in marcia. Chissa’ quante altre me ne toccheranno. Dopo un po’ mi fermo, sono forse neanche a meta’, e sono provato. Devo inventarmi la via, tenendo d’occhio l’arrivo, molto, molto in basso. Bear scenderebbe come gli incompetenti, ma lui non avrebbe gente sotto e soprattutto, avrebbe pantaloni lunghi e scarpe adatte. Io non ho nulla. Le mie scarpe attualmente si stanno demolendo, le sto sfruttando all’osso. Ho gia’ tagliato la superficie in piu’ parti e ora scopro di aver aperto leggermente anche la suola. Di questo passo, non do loro piu’ di un altro mese. E’ un peccato, queste scarpe (trail running, sia MAI che io usi scarponi. Fuck’em) sono fantastiche e anche se hanno solo un anno circa, mi hanno accompagnato in un sacco di avventure, da Grand Canyon a Glacier in Montana, dal Lagorai a Yosemite. Scendo ancora, non domo. Inizio a scivolare anch’io, la gente sotto di me ha finito la trail quindi non mi preoccupo piu’ per loro. Scendo dolcemente, sprofondando di 10 centimetri a passo, ma la cosa mi frena e attutisce le mie sofferenze, e’ quasi benefica. Guadagno bene la fine, e con mia sorpresa, con un tempone: 1h50’. Ottimo. Mi siedo su una roccia, vuoto le mie scarpe che svuotano  terra come un camion farebbe su un sito di costruzioni. Prima di ripartire, mi volto verso il monte. Incute timore ora, un po’ oscuro, annuvolato, altissimo per me. Lo mando a fanculo, dicendomi “Ce l’ho fatta”.

La strada verso il car park e’ una passeggiata, eccetto per il fatto che ho i muscoli a pezzi. Necessito di un breve stop per dello stretching, mai successo. Poi, ingrano la sesta e via. Supero la gente arrancante per le fatiche della giornata, come se fossi partito da 5 minuti. Devo ancora capire perche’ (anzi, lo so) ma ho uno sprint nella parte finale delle mie camminate che e’ una cosa pazzesca. Cammino con un passo fisso, veloce, inesorabile, fino alla fine. Sono piu veloce della gente che inizia la trail ora, ed ho 20 km e 1800 metri di dislivello sul groppone. Sono una Pasqua. Oggi, realizzo una volta alla fine, oltre a vedere dei bei posti, mi e’ servito a rendermi conto del corpo che ho, e ad essere orgoglioso di esso. E’ una cosa importante. Spesso siamo a lamentarci “Ho il collo troppo grosso, i muscoli troppo sottili, i polsi fini” e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. Occasioni come queste ti possono far dire “Beh, avro’ anche i polsi sottili, ma ho un corpo che qui funziona a meraviglia”.

Indietro all’ostello, davanti a del caffe’latte freddo, guardo fuori dalla finestra. Ho appena fatto un superscherzone alla ragazza che ha rapito il mio sguardo, lei era alla reception e le ho fatto credere di essermi rotto un ginocchio, facendola preoccupare. E dicendole subito dopo “Oh dai, credi davvero che sia cosi’ debole?! Hahaha, stavo scherzando!!”. E’ bellissimo vedere, mentre ti da una mezza sberla sul petto, una faccia del tipo “Stupido, e io che mi preoccupo anche!”. Poco dopo sono alla finestra a guardare in lontananza il monte, la cima dove ero poche ore fa. Impressionante. Sembra davvero, davvero alto. Piu’ di quanto e’ in realta’.

Sedendomi, sentendo muscoli doloranti un po’ ovunque, dal collo ai polpacci, non posso altro che fare un sorriso che sa tanto da conquista, e continuare a sorseggiare il mio caffe’latte.