domenica 9 dicembre 2012

Ultime emozioni pre-job


Avevo atteso con ansia il momento in cui sarei tornato dalle parti di Lake Tekapo e Lake Pukaki. Sapevo che sarei tornato perche’ ero stato troppo rapito dai posti che avevo visto, poco piu’ di un mese fa. E cosi’, scappando dalla piovosa, grigia Arthur’s Pass, mi dirigo piu’ velocemente possibile verso sud, verso la fine dei miei giretti neozelandesi, ma anche verso uno dei posti piu’ belli che questa terra abbia da offrire.

Burke’s Pass si trova a circa 600 metri s.l.m., cosa che per quanto mi riguarda non lo rende un “passo”, quanto una salitella. Lo trovo, non esattamente come lo ricordavo. Vi passai la prima volta all’imbrunire, l’erba gialla tendente all’arancione, freddo. L’erba oggi e’ ancora dello stesso colore, le montagne in lontananza sono ancora innevate, ma complice il momento del giorno (sno circa le 3 del pomeriggio) c’e’ un caldo abbastanza intenso, anche se smorzato dal vento, e soprattutto, ci sono distese di fiori lungo i lati della strada. Lupini. Ovunque. Ne avevo gia’ visti qua e la, ma in misura minore. Ora sembra che piu’ mi diriga a sud, piu’ mi diriga verso i monti, e piu’ i lupini facciano la loro comparsa lungo il mio percorso. Gialli, bianchi, viola, rosa, rossi, blu, ce ne sono di ogni colore. Sono magnifici, uno dei fiori piu’ belli che si possano trovare in natura, a mio parere. Per le foto poi, sono stupendi. Il passo assume una tonalita’ piu’ accogliente, festosa, giubilante per l’arrivo del caldo, la fine del freddo. I colori si sprecano in questo quadro che nemmeno il miglior artista riuscirebbe ad immortalare alla perfezione. Raggiungo Lake Tekapo e sono subito, ancora, rapito dal colore dell’acqua, un azzurro puro e profondo che raramente si vede. Le montagne sullo sfondo. I lupini sulle rive. Scorgo una coppia di neosposi che si fanno immortalare di fronte al lago: beati loro, ad avere un setting del genere. Altro che ville, Pedrocchi o centri citta’. Pagherei per avere una foto con la mia sposa in un posto del genere. Io di mio son talmente contento che salto di roccia in roccia per trarre gli scatti migliori. Sono stanco morto, puzzo come una capra, ma non m’interesso di andare all’ostello a procacciarmi un letto per la notte, per ora. E faccio male. Quando lo faccio infatti, trovo diversi cartelli “NO VACANCY”. Fregato. Mi offrono la soluzione “montati la tenda in giardino e sgancia 16 bombe”. La accetto volentieri, salvo un coupon per quando mi sara’ piu’ utile. E campeggero’ nel posto piu’ bello in cui abbia mai campeggiato forse. Di sicuro, nel posto piu’ ventoso: montare la tenda mi richiede piu’ imprecazioni di quanto sia disposto a profondere in tempo di pace, e una razione extra di pietre per ancorare la tenda al terreno mentre fisso i picchetti. Sandflies e altri insetti malefici non mi danno tregua, il che rende il montaggio della tenda quest’oggi un vero macello. Sono contento e getto via le pietre con soddisfazione quando finalmente la tenda e’ in piedi e regge da sola, sebbene scossa di brutto da potenti raffiche di vento. Non oso immaginare stanotte.. meglio non pensarci, per ora.

Poco dopo sono dentro l’ostello, semiaccampato in sala da pranzo, e da vero zingaro armeggio nella valigia allo scopo di tirar fuori l’occorrente per una doccia. Non proprio il massimo della finezza, ma suvvia, ci sta. Non siamo in centro a L.A. Con cio’ che mi serve mi dirigo in bagno pronto a lavarmi, apro la porta.. e la chiudo subito dopo. Non ci credo. Ho visto una faccia che pensavo sarebbe stata l’ultima faccia che avrei potuto statisticamente vedere sulla faccia del creato. Lascio andare la porta dicendo “Can’t believe it, it’s not possible, you’re tracking me!”. Sto piu’ o meno inveendo dallo sbigottimento contro una persona che avevo conosciuto a Queenstown durante una camminata, che avevo ritrovato senza saperlo nella stessa citta’, stesso ostello e per giunta stessa camera a Wanaka (e di cui avevo gia’ scritto qui), e che ora mi ritrovo tra le palle per la terza volta. E’ il mio amico francese Yoann. Riapro la porta, lo abbraccio, e ci facciamo una bella risata. Ci sembra veramente impossibile, ritrovarci ancora nello stesso paese, e nello stesso ostello. Stavolta nello stesso cesso per giunta! Quante probabilita’ ci sono?! Mi piacerebbe essere bravo in matematica al punto da poterlo appurare e meravigliarmi della piccolezza di quella percentuale. Ma fa niente. Ci raccontiamo da che parti ci hanno portato i nostri trampings nelle ultime 3 settimane – i miei ben piu’ a lungo raggio dei suoi – e ci diamo appuntamento per una cena in velocita’ prima del tramonto.

In cucina, piu’ tardi, mi metto ai fornelli per cucinare qualcosa. Prevedo un tris, che ordino per gradiente di schifosita’ (a livello di porcherie alimentari): quella pessima, un intero pane ripieno all’aglio, ottimo, ma Dio solo sa quanto grasso e onto. Poi, nel mezzo, una cheese&steak pie, molto buona, ma anche li, di dubbia qualita’. Infine, per pulirmi un po’, finisco con un salutare mix di asparagi e spinaci. Gli spinaci, noto purtroppo, spruzzano acqua da ogni poro quando li inforchetto. Degli innaffiatoi. Cerco solo una cosa che mi manca, tra gli attrezzi utili a questa missione: la forbice per aprire la busta del caffe’ in modo decente (caffe’ che va a servire per fornirmi un buon caffe’latte freddo come bevanda per la cena. Ora vi ho fatto vomitare di brutto credo.. pane all’aglio e caffe’latte). Forbici. Non mi e’ nuovo. Hehe. Cercavo le forbici anche quando una ragazza splendida mi si e’ fatta avanti, chiedendomi se stessi cercando proprio quelle. E’ la stessa catena di ostelli. Purtroppo non sono piu’ in quel paese pero’, e purtroppo ora non c’e’ lei a spalancarmi un sorriso magnifico, splendente, e a fornirmi le forbici che cerco. Delle quali onestamente, fossi li con lei, non mi fregherebbe un cazzo.

Il tramonto e’ sempre un momento intenso, anche se a volte la sua vena magica, spirituale, viene rovinata. Purtroppo cose accessorie quali gente intorno a te, una macchina fotografica, chiasso, non sempre – anzi quasi mai – sono optional che aiutano a rendere il momento migliore. Tutto sommato pero’, riesco a godermi quel che mi serve del sole che va a tramontare alla sinistra del lago, verso ovest, lasciando il posto immerso in un totale, profondo blu, che li si scurisce, li si schiarisce, tingendosi di varie tinte di mezzo. Cammino con i miei due amici (si, ho trovato un italiano in ostello. Volete sapere da dove? Da Padova. Non e’ piccolo il mondo? Io lo penso sempre di piu’) fino a tornare all’ostello, alla mia tenda. Dove immergo il muso alle 22.45, terribilmente in ritardo per la mia tabella di marcia. Infatti, conto di svegliarmi presto, sulle 5 o anche prima, per assistere all’alba e fare qualche bella foto. 6 ore di sonno, dopo i giorni precedenti, non mi rendono granche’ felice. Ma questo e’ il prezzo da pagare, se vogliamo immergerci totalmente nella natura, negli spettacoli che ha da offrirci, e condividerli in altri momenti con la gente che si ha attorno. Ed e’ un prezzo che sono ben disposto a pagare, tutto sommato.

Nel cuore della notte, almeno e’ quel che penso, sento che la mia temperatura corporea inizia a calare. Finora sono stato bene invece. Scosso dal vento, i paletti della tenda che sbattono sui miei piedi durante le raffiche piu’ potenti, ma la tenda ha tenuto ed io sono stato abbastanza caldo. Ora il freddo e la mia vestizione poco efficiente (senza cannottiera, con una semplice maglietta di cotone come primo strato – sbagliatissimo!) stanno prendendo il sopravvento. Prendo l’orologio e accendo la spia luminosa per rendermi conto quanto ho ancora di sonno, o di tormento: sono le 4.30. Penso. Guardo in alto, sembra quasi luminoso fuori. Mi mando a fare in culo e apro la tenda, deciso a partire ORA per vedere l’alba. Metto il naso fuori dalla tenda, lo faccio seguire dal mio intero corpo, mi giro verso sud, alzo gli occhi al cielo. E vedo una stella cadente, subito. Un brivido lungo corre sulla mia schiena. Rimango fermo a fissare quel preciso punto del cielo per qualche istante. Possibile? Non e’ una notte famosa per le stelle cadenti. Voglio dire, non e’ San Silvestro. Eppure, alzo gli occhi al cielo appena svegliato, e vedo una stella. Quasi mi viene una lacrima agli occhi a pensarci. Si esprime un desiderio? No, non ci credo. Ma penso a lei. E’ la mia stella ora, l’unica a cui penso.

Mi dirigo dentro l’ostello per un caffe’latte caldo prima di incamminarmi, sono ancora piuttosto infreddolito. Dentro la temperatura e’ mite, piacevole. Mi siedo su una poltroncina, e dopo aver sorseggiato il caffe’latte, mi calo il berretto sugli occhi e dormo per una ventina di minuti. Forse riesco anche a sognare qualcosa, non ricordo. So che mi tiro su il berretto, alla fine, con una voglia del tipo “Mangerei una merda piuttosto di tirarmi su ora”. Mi metto in macchina e arrivo alla chiesa del Good Shepherd attorno alle 5. Pensando di essere solo, ma non lo sono. Ci sono due macchine in parcheggio, una che se ne sta andando, con a bordo dei giappi mattutini, una che rimane. E vedo gia’ il suo occupante, credo. Piu’ mi avvicino e piu’ ho la sensazione che si tratti tipo di un monaco. Un tibetano. Ha una specie di coperta rossa attorno al collo, che gli scende fino alle ginocchia. Pero’ non e’ pelato, non e’ in sandali, e non sta pregando o meditando, bensi’ facendo foto con una reflex professionale. Ovviamente ci inizio a parlare, e scopro che e’ un thailandese emigrato in NZ che attualmente risiede a Christchurch. Inizia subito – e’ motlo gentile – a darmi consigli su come fotografare, cosa fotografare, etc. Non che me ne sbatta molto sinceramente, sono sempre abbastanza ribelle e “do it myself” quando si tratta di queste cose. Pero’ parliamo di diverse cose, mentre vaghiamo qua e la attorno alla chiesa, mentre vediamo il cielo tingersi di un rosa surreale, dietro alle montagne. E’ fantastico, in slow-motion, sento lui parlare strano, lentissimo, un suono gutturale, io invece punto lo sguardo al sole che lentamente sorge, che non vedo ancora, ma che so essere la dietro da qualche parte dietro foreste e cime innevate. I lupini colorati si vedono e distinguono gia’ nella fioca luce che per ora c’e’ sul lago. Il rosa nel cielo si spinge piano piano piu’ lontano da est, dove invece si fanno largo arancioni possenti, rossi fuoco. E’ una scena incredibile, difficilmente ho assistito ad un sorgere del sole cosi’ drammatico in termini di spettacolarita’, e diversita’ cromatica. I lupini sembrano schizzi di colore che un pittore distratto ha gettato sulla tavolozza. Il resto pero’, l’opera del migliore, innarivabile, degli artisti. Vorrei che tutto questo non finisse mai, che il sole non sorgesse, che la chiesa rimanesse un po’ oscura, avvolta nell’ombra del mattino. Ma i minuti passano, e alle 5 e mezza sembra che siano gia’ le 8. Per me, e’ tempo di muovermi, non voglio trascorrere li’ tutto il mattino. So cosa c’e’ oltre, e non voglio perdermelo. Saluto quindi l’amico thailandese e mi dirigo verso Lake Pukaki. Sto per vivere il momento piu’ bello del mio viaggio forse, almeno per quanto riguarda l’aspetto “naturale” della faccenda. La luce e’ ideale, ancora agli albori. Non c’e’ praticamente nessuno per strada. La strada piega poco, perlopiu’ rettilinea, cosa che mi permette di girare spesso la testa, e perdermi nelle praterie, nei declivi, nelle montagne che si stagliano tutte attorno a me. E poi, lupini ovunque. Dico ovunque. La strada ne e’ letteralmente circondata, come guardrail di fiori. Di mille colori. Creano un contrasto con l’erba giallastra che fa venire le lacrime agli occhi. Avevo solo visto delle foto, di prati ammantati di lupini, e le avevo guardate dicendomi “Un giorno spero di finire in un posto come questo, mi piacerebbe da matti”. Ora ci sono, ed e’ veramente fantastico. Mi fermo innumerevoli volte, macchina accesa in mezzo alla strada, per scattare una foto qui e una li. Entro in strade private, siti di costruzione, cantieri, scavalcando reti e cancelli per avere lo scatto che voglio. Ci sono alcune pozze – non me la sento di chiamarli laghi, o laghetti – che riflettono quasi perfettamente le montagne di fronte, dorate dai primi raggi di sole. Dico, letteralmente dorate, un arancione mai visto prima. Mi capita per sbaglio di girare la testa un po’ di piu’, verso nord piu’ o meno.. e vedo una montagna che troneggia sulle altre, una specie di forma trapezioidale, dorata, come avvolta da una pellicola d’oro: e’ Aoraki Mt.Cook. Possente. Lo si raggiugne con una strada che costeggia Lake Pukaki sul lato destro. Io non lo raggiungero’, la strada mi porterebbe via circa 90 km e i relativi soldi per la benzina. E in piu’, lo sto contemplando ora, e ne sono felicissimo. Non e’ esattamente la cosa piu’ facile che ci sia, vederlo. E vederlo in quest’aura dorata. Quasi ogni mattina, dopo l’alba, viene avvolto da diversi banchi di nubi, salvo fare sporadiche comparse durante la giornata, con venti benevoli. Mi sento estremamente fortunato ad assistere a questo spettacolo, anche se poi ripenso al detto “La fortuna aiuta gli audaci” e “Chi dorme non piglia pesci”. Si, ho pagato il mio prezzo in termini di sonno e salute psicofisica credo, ma sono stato fortunato e ho pigliato il mio bel pesce. Potrei gia’ dirmi soddisfatto per la giornata: anche se sono in piedi da un’ora appena, e’ come fossi vissuto due giorni. Tanto intensi sono stati questi momenti. E’ pazzesco, la vita certe volte e’, seppur lunga, cosi’ insignificante, brulla, insapore. La vita di molte persone scorre via senza un significato preciso, senza del sale, senza momenti intensi. Io sono contento per quello che faccio, per quello che sono, per come vivo. Sono convinto che un giorno guardero’ indietro alla mia vita, e mi scorrera’ una lacrima di felicita’ sul viso, consapevole di aver fatto cose che hanno dato una svolta, poi un senso, importante, alla mia esistenza.

Una volta arrivato, dopo innumerevoli stop, a Lake Pukaki, mi fermo sulla prima rientranza della strada. Prendo macchina fotografica e cavalletto ed inizio a correre come un bambino, verso le sponde del lago. Non voglio perdere neanche un secondo di questo spettacolo. Mt.Cook sta per venire inghiottito dalle nubi quotidiane, il sole e’ definitivamente sorto ormai, e la magica luce intensa ma allo stesso tempo dolce del primo mattino sta svanendo. Scatto qualche foto, quelle che mi interessano, poi prendo un momento per me stesso. Mi perdo nel bianco della neve lontana, in cima alle montagne. Mi perdo nella grandiosita’ delle catene montuose stesse. Nelle fredde acque del lago. Nelle praterie tutto attorno a questo idilliaco posto. Penso a quando, un giorno, tornero’ a casa. Avro’ talmente tante esperienze da raccontare che qualcuno non mi credera’. Potro’ intrattenere gente per serate intere. Soprattutto, potro’ far viaggiare, con le mie foto e le mie storie di viaggio, un sacco di persone che per un motivo o per l’altro, non viaggiano. Questo mi rende un sacco felice, contento, ed orgoglioso. Potro’ raccontare a tanti bambini quante meraviglie ci sono al mondo e quanto valga la pena aiutare questo pianeta a sopravvivere. Potro’ cercare di invogliare tanta gente a casa, a viaggiare, a provare quest’ esperienza che a volte sembra impossibile ma che e’ proprio dietro l’angolo. Non vedo l’ora. Intanto mi godo questo angolo di mondo.

Arrivo a Queenstown attorno a mezzogiorno, e mi dirigo subito al supermercato per rimpinguare il mio frigorifero (il bagagliaio della mia macchina), fermandomi anche ai magazzini generali per comprare le mie scarpe “da lavoro”. Delle schifosissime scarpe dal tipico gusto “inglese”, o americano, cioe’ nere, insulse, non curate, banalissime, che confrontate alle mie Prada che hanno 6 anni o qualcosa del genere e sono distrutte dall’uso, sono comunque anni luce addietro. Ma questo richiede la posizione, quindi facciamolo. Sono allo scaffale delle scarpe da lavoro, cerco fra i modelli. Riguardo la mail della manager riguardo a quale modello sarebbe stato il piu’ adatto. Non ci credo. Guardo bene fra le varie etichette per cercarlo, per scoprire se quello che ho letto esiste davvero. Volete sapere come si chiama? ESTONIAN.

E poi qualcuno dice che non esistono “segni” o cose del genere.

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