Avevo atteso con ansia il momento in cui sarei tornato dalle
parti di Lake Tekapo e Lake Pukaki. Sapevo che sarei tornato perche’ ero stato
troppo rapito dai posti che avevo visto, poco piu’ di un mese fa. E cosi’,
scappando dalla piovosa, grigia Arthur’s Pass, mi dirigo piu’ velocemente
possibile verso sud, verso la fine dei miei giretti neozelandesi, ma anche
verso uno dei posti piu’ belli che questa terra abbia da offrire.
Burke’s Pass si trova a circa 600 metri s.l.m., cosa che per
quanto mi riguarda non lo rende un “passo”, quanto una salitella. Lo trovo, non
esattamente come lo ricordavo. Vi passai la prima volta all’imbrunire, l’erba
gialla tendente all’arancione, freddo. L’erba oggi e’ ancora dello stesso
colore, le montagne in lontananza sono ancora innevate, ma complice il momento
del giorno (sno circa le 3 del pomeriggio) c’e’ un caldo abbastanza intenso,
anche se smorzato dal vento, e soprattutto, ci sono distese di fiori lungo i
lati della strada. Lupini. Ovunque. Ne avevo gia’ visti qua e la, ma in misura
minore. Ora sembra che piu’ mi diriga a sud, piu’ mi diriga verso i monti, e
piu’ i lupini facciano la loro comparsa lungo il mio percorso. Gialli, bianchi,
viola, rosa, rossi, blu, ce ne sono di ogni colore. Sono magnifici, uno dei
fiori piu’ belli che si possano trovare in natura, a mio parere. Per le foto
poi, sono stupendi. Il passo assume una tonalita’ piu’ accogliente, festosa,
giubilante per l’arrivo del caldo, la fine del freddo. I colori si sprecano in
questo quadro che nemmeno il miglior artista riuscirebbe ad immortalare alla
perfezione. Raggiungo Lake Tekapo e sono subito, ancora, rapito dal colore
dell’acqua, un azzurro puro e profondo che raramente si vede. Le montagne sullo
sfondo. I lupini sulle rive. Scorgo una coppia di neosposi che si fanno
immortalare di fronte al lago: beati loro, ad avere un setting del genere.
Altro che ville, Pedrocchi o centri citta’. Pagherei per avere una foto con la
mia sposa in un posto del genere. Io di mio son talmente contento che salto di
roccia in roccia per trarre gli scatti migliori. Sono stanco morto, puzzo come
una capra, ma non m’interesso di andare all’ostello a procacciarmi un letto per
la notte, per ora. E faccio male. Quando lo faccio infatti, trovo diversi
cartelli “NO VACANCY”. Fregato. Mi offrono la soluzione “montati la tenda in
giardino e sgancia 16 bombe”. La accetto volentieri, salvo un coupon per quando
mi sara’ piu’ utile. E campeggero’ nel posto piu’ bello in cui abbia mai
campeggiato forse. Di sicuro, nel posto piu’ ventoso: montare la tenda mi
richiede piu’ imprecazioni di quanto sia disposto a profondere in tempo di
pace, e una razione extra di pietre per ancorare la tenda al terreno mentre
fisso i picchetti. Sandflies e altri insetti malefici non mi danno tregua, il
che rende il montaggio della tenda quest’oggi un vero macello. Sono contento e
getto via le pietre con soddisfazione quando finalmente la tenda e’ in piedi e
regge da sola, sebbene scossa di brutto da potenti raffiche di vento. Non oso
immaginare stanotte.. meglio non pensarci, per ora.
Poco dopo sono dentro l’ostello, semiaccampato in sala da
pranzo, e da vero zingaro armeggio nella valigia allo scopo di tirar fuori
l’occorrente per una doccia. Non proprio il massimo della finezza, ma suvvia,
ci sta. Non siamo in centro a L.A. Con cio’ che mi serve mi dirigo in bagno
pronto a lavarmi, apro la porta.. e la chiudo subito dopo. Non ci credo. Ho
visto una faccia che pensavo sarebbe stata l’ultima faccia che avrei potuto
statisticamente vedere sulla faccia del creato. Lascio andare la porta dicendo
“Can’t believe it, it’s not possible, you’re tracking me!”. Sto piu’ o meno
inveendo dallo sbigottimento contro una persona che avevo conosciuto a
Queenstown durante una camminata, che avevo ritrovato senza saperlo nella stessa
citta’, stesso ostello e per giunta stessa camera a Wanaka (e di cui avevo gia’
scritto qui), e che ora mi ritrovo tra le palle per la terza volta. E’ il mio
amico francese Yoann. Riapro la porta, lo abbraccio, e ci facciamo una bella
risata. Ci sembra veramente impossibile, ritrovarci ancora nello stesso paese,
e nello stesso ostello. Stavolta nello stesso cesso per giunta! Quante
probabilita’ ci sono?! Mi piacerebbe essere bravo in matematica al punto da
poterlo appurare e meravigliarmi della piccolezza di quella percentuale. Ma fa
niente. Ci raccontiamo da che parti ci hanno portato i nostri trampings nelle
ultime 3 settimane – i miei ben piu’ a lungo raggio dei suoi – e ci diamo
appuntamento per una cena in velocita’ prima del tramonto.
In cucina, piu’ tardi, mi metto ai fornelli per cucinare
qualcosa. Prevedo un tris, che ordino per gradiente di schifosita’ (a livello
di porcherie alimentari): quella pessima, un intero pane ripieno all’aglio,
ottimo, ma Dio solo sa quanto grasso e onto. Poi, nel mezzo, una
cheese&steak pie, molto buona, ma anche li, di dubbia qualita’. Infine, per
pulirmi un po’, finisco con un salutare mix di asparagi e spinaci. Gli spinaci,
noto purtroppo, spruzzano acqua da ogni poro quando li inforchetto. Degli
innaffiatoi. Cerco solo una cosa che mi manca, tra gli attrezzi utili a questa
missione: la forbice per aprire la busta del caffe’ in modo decente (caffe’ che
va a servire per fornirmi un buon caffe’latte freddo come bevanda per la cena.
Ora vi ho fatto vomitare di brutto credo.. pane all’aglio e caffe’latte).
Forbici. Non mi e’ nuovo. Hehe. Cercavo le forbici anche quando una ragazza
splendida mi si e’ fatta avanti, chiedendomi se stessi cercando proprio quelle.
E’ la stessa catena di ostelli. Purtroppo non sono piu’ in quel paese pero’, e
purtroppo ora non c’e’ lei a spalancarmi un sorriso magnifico, splendente, e a
fornirmi le forbici che cerco. Delle quali onestamente, fossi li con lei, non
mi fregherebbe un cazzo.
Il tramonto e’ sempre un momento intenso, anche se a volte la
sua vena magica, spirituale, viene rovinata. Purtroppo cose accessorie quali
gente intorno a te, una macchina fotografica, chiasso, non sempre – anzi quasi
mai – sono optional che aiutano a rendere il momento migliore. Tutto sommato
pero’, riesco a godermi quel che mi serve del sole che va a tramontare alla
sinistra del lago, verso ovest, lasciando il posto immerso in un totale,
profondo blu, che li si scurisce, li si schiarisce, tingendosi di varie tinte
di mezzo. Cammino con i miei due amici (si, ho trovato un italiano in ostello.
Volete sapere da dove? Da Padova. Non e’ piccolo il mondo? Io lo penso sempre
di piu’) fino a tornare all’ostello, alla mia tenda. Dove immergo il muso alle
22.45, terribilmente in ritardo per la mia tabella di marcia. Infatti, conto di
svegliarmi presto, sulle 5 o anche prima, per assistere all’alba e fare qualche
bella foto. 6 ore di sonno, dopo i giorni precedenti, non mi rendono granche’
felice. Ma questo e’ il prezzo da pagare, se vogliamo immergerci totalmente
nella natura, negli spettacoli che ha da offrirci, e condividerli in altri
momenti con la gente che si ha attorno. Ed e’ un prezzo che sono ben disposto a
pagare, tutto sommato.
Nel cuore della notte, almeno e’ quel che penso, sento che
la mia temperatura corporea inizia a calare. Finora sono stato bene invece.
Scosso dal vento, i paletti della tenda che sbattono sui miei piedi durante le
raffiche piu’ potenti, ma la tenda ha tenuto ed io sono stato abbastanza caldo.
Ora il freddo e la mia vestizione poco efficiente (senza cannottiera, con una
semplice maglietta di cotone come primo strato – sbagliatissimo!) stanno
prendendo il sopravvento. Prendo l’orologio e accendo la spia luminosa per
rendermi conto quanto ho ancora di sonno, o di tormento: sono le 4.30. Penso. Guardo
in alto, sembra quasi luminoso fuori. Mi mando a fare in culo e apro la tenda,
deciso a partire ORA per vedere l’alba. Metto il naso fuori dalla tenda, lo
faccio seguire dal mio intero corpo, mi giro verso sud, alzo gli occhi al
cielo. E vedo una stella cadente, subito. Un brivido lungo corre sulla mia
schiena. Rimango fermo a fissare quel preciso punto del cielo per qualche
istante. Possibile? Non e’ una notte famosa per le stelle cadenti. Voglio dire,
non e’ San Silvestro. Eppure, alzo gli occhi al cielo appena svegliato, e vedo
una stella. Quasi mi viene una lacrima agli occhi a pensarci. Si esprime un
desiderio? No, non ci credo. Ma penso a lei. E’ la mia stella ora, l’unica a
cui penso.
Mi dirigo dentro l’ostello per un caffe’latte caldo prima di
incamminarmi, sono ancora piuttosto infreddolito. Dentro la temperatura e’
mite, piacevole. Mi siedo su una poltroncina, e dopo aver sorseggiato il
caffe’latte, mi calo il berretto sugli occhi e dormo per una ventina di minuti.
Forse riesco anche a sognare qualcosa, non ricordo. So che mi tiro su il
berretto, alla fine, con una voglia del tipo “Mangerei una merda piuttosto di
tirarmi su ora”. Mi metto in macchina e arrivo alla chiesa del Good Shepherd
attorno alle 5. Pensando di essere solo, ma non lo sono. Ci sono due macchine
in parcheggio, una che se ne sta andando, con a bordo dei giappi mattutini, una
che rimane. E vedo gia’ il suo occupante, credo. Piu’ mi avvicino e piu’ ho la
sensazione che si tratti tipo di un monaco. Un tibetano. Ha una specie di coperta
rossa attorno al collo, che gli scende fino alle ginocchia. Pero’ non e’
pelato, non e’ in sandali, e non sta pregando o meditando, bensi’ facendo foto
con una reflex professionale. Ovviamente ci inizio a parlare, e scopro che e’
un thailandese emigrato in NZ che attualmente risiede a Christchurch. Inizia
subito – e’ motlo gentile – a darmi consigli su come fotografare, cosa
fotografare, etc. Non che me ne sbatta molto sinceramente, sono sempre
abbastanza ribelle e “do it myself” quando si tratta di queste cose. Pero’
parliamo di diverse cose, mentre vaghiamo qua e la attorno alla chiesa, mentre
vediamo il cielo tingersi di un rosa surreale, dietro alle montagne. E’
fantastico, in slow-motion, sento lui parlare strano, lentissimo, un suono
gutturale, io invece punto lo sguardo al sole che lentamente sorge, che non
vedo ancora, ma che so essere la dietro da qualche parte dietro foreste e cime
innevate. I lupini colorati si vedono e distinguono gia’ nella fioca luce che
per ora c’e’ sul lago. Il rosa nel cielo si spinge piano piano piu’ lontano da
est, dove invece si fanno largo arancioni possenti, rossi fuoco. E’ una scena
incredibile, difficilmente ho assistito ad un sorgere del sole cosi’ drammatico
in termini di spettacolarita’, e diversita’ cromatica. I lupini sembrano
schizzi di colore che un pittore distratto ha gettato sulla tavolozza. Il resto
pero’, l’opera del migliore, innarivabile, degli artisti. Vorrei che tutto
questo non finisse mai, che il sole non sorgesse, che la chiesa rimanesse un
po’ oscura, avvolta nell’ombra del mattino. Ma i minuti passano, e alle 5 e
mezza sembra che siano gia’ le 8. Per me, e’ tempo di muovermi, non voglio
trascorrere li’ tutto il mattino. So cosa c’e’ oltre, e non voglio perdermelo.
Saluto quindi l’amico thailandese e mi dirigo verso Lake Pukaki. Sto per vivere
il momento piu’ bello del mio viaggio forse, almeno per quanto riguarda
l’aspetto “naturale” della faccenda. La luce e’ ideale, ancora agli albori. Non
c’e’ praticamente nessuno per strada. La strada piega poco, perlopiu’
rettilinea, cosa che mi permette di girare spesso la testa, e perdermi nelle
praterie, nei declivi, nelle montagne che si stagliano tutte attorno a me. E
poi, lupini ovunque. Dico ovunque. La strada ne e’ letteralmente circondata,
come guardrail di fiori. Di mille colori. Creano un contrasto con l’erba
giallastra che fa venire le lacrime agli occhi. Avevo solo visto delle foto, di
prati ammantati di lupini, e le avevo guardate dicendomi “Un giorno spero di
finire in un posto come questo, mi piacerebbe da matti”. Ora ci sono, ed e’
veramente fantastico. Mi fermo innumerevoli volte, macchina accesa in mezzo
alla strada, per scattare una foto qui e una li. Entro in strade private, siti
di costruzione, cantieri, scavalcando reti e cancelli per avere lo scatto che
voglio. Ci sono alcune pozze – non me la sento di chiamarli laghi, o laghetti –
che riflettono quasi perfettamente le montagne di fronte, dorate dai primi
raggi di sole. Dico, letteralmente dorate, un arancione mai visto prima. Mi
capita per sbaglio di girare la testa un po’ di piu’, verso nord piu’ o meno..
e vedo una montagna che troneggia sulle altre, una specie di forma
trapezioidale, dorata, come avvolta da una pellicola d’oro: e’ Aoraki Mt.Cook.
Possente. Lo si raggiugne con una strada che costeggia Lake Pukaki sul lato
destro. Io non lo raggiungero’, la strada mi porterebbe via circa 90 km e i
relativi soldi per la benzina. E in piu’, lo sto contemplando ora, e ne sono
felicissimo. Non e’ esattamente la cosa piu’ facile che ci sia, vederlo. E
vederlo in quest’aura dorata. Quasi ogni mattina, dopo l’alba, viene avvolto da
diversi banchi di nubi, salvo fare sporadiche comparse durante la giornata, con
venti benevoli. Mi sento estremamente fortunato ad assistere a questo
spettacolo, anche se poi ripenso al detto “La fortuna aiuta gli audaci” e “Chi
dorme non piglia pesci”. Si, ho pagato il mio prezzo in termini di sonno e
salute psicofisica credo, ma sono stato fortunato e ho pigliato il mio bel
pesce. Potrei gia’ dirmi soddisfatto per la giornata: anche se sono in piedi da
un’ora appena, e’ come fossi vissuto due giorni. Tanto intensi sono stati
questi momenti. E’ pazzesco, la vita certe volte e’, seppur lunga, cosi’
insignificante, brulla, insapore. La vita di molte persone scorre via senza un
significato preciso, senza del sale, senza momenti intensi. Io sono contento
per quello che faccio, per quello che sono, per come vivo. Sono convinto che un
giorno guardero’ indietro alla mia vita, e mi scorrera’ una lacrima di
felicita’ sul viso, consapevole di aver fatto cose che hanno dato una svolta,
poi un senso, importante, alla mia esistenza.
Una volta arrivato, dopo innumerevoli stop, a Lake Pukaki,
mi fermo sulla prima rientranza della strada. Prendo macchina fotografica e
cavalletto ed inizio a correre come un bambino, verso le sponde del lago. Non
voglio perdere neanche un secondo di questo spettacolo. Mt.Cook sta per venire
inghiottito dalle nubi quotidiane, il sole e’ definitivamente sorto ormai, e la
magica luce intensa ma allo stesso tempo dolce del primo mattino sta svanendo.
Scatto qualche foto, quelle che mi interessano, poi prendo un momento per me
stesso. Mi perdo nel bianco della neve lontana, in cima alle montagne. Mi perdo
nella grandiosita’ delle catene montuose stesse. Nelle fredde acque del lago.
Nelle praterie tutto attorno a questo idilliaco posto. Penso a quando, un
giorno, tornero’ a casa. Avro’ talmente tante esperienze da raccontare che
qualcuno non mi credera’. Potro’ intrattenere gente per serate intere.
Soprattutto, potro’ far viaggiare, con le mie foto e le mie storie di viaggio,
un sacco di persone che per un motivo o per l’altro, non viaggiano. Questo mi
rende un sacco felice, contento, ed orgoglioso. Potro’ raccontare a tanti
bambini quante meraviglie ci sono al mondo e quanto valga la pena aiutare
questo pianeta a sopravvivere. Potro’ cercare di invogliare tanta gente a casa,
a viaggiare, a provare quest’ esperienza che a volte sembra impossibile ma che
e’ proprio dietro l’angolo. Non vedo l’ora. Intanto mi godo questo angolo di
mondo.
Arrivo a Queenstown attorno a mezzogiorno, e mi dirigo
subito al supermercato per rimpinguare il mio frigorifero (il bagagliaio della
mia macchina), fermandomi anche ai magazzini generali per comprare le mie
scarpe “da lavoro”. Delle schifosissime scarpe dal tipico gusto “inglese”, o
americano, cioe’ nere, insulse, non curate, banalissime, che confrontate alle
mie Prada che hanno 6 anni o qualcosa del genere e sono distrutte dall’uso,
sono comunque anni luce addietro. Ma questo richiede la posizione, quindi
facciamolo. Sono allo scaffale delle scarpe da lavoro, cerco fra i modelli.
Riguardo la mail della manager riguardo a quale modello sarebbe stato il piu’
adatto. Non ci credo. Guardo bene fra le varie etichette per cercarlo, per scoprire
se quello che ho letto esiste davvero. Volete sapere come si chiama? ESTONIAN.
E poi qualcuno dice che non esistono “segni” o cose del
genere.
Nessun commento:
Posta un commento