lunedì 29 novembre 2010

8. Let's have a breakfast!

Lasciammo Mammoth alla volta di West Yellowstone, ma prima di giungervici, ci fermiamo per strada. Un bisonte, un grosso bisonte, cammina nel bel mezzo della corsia opposta alla nostra. Noi siamo da soli, non ci sono altre macchine. Ci fermiamo, io combatto una battaglia estrema contro gli obiettivi e la sacca dove tenevo la reflex per cercare di montare il 300 ed ottenere uno scatto super ravvicinato. Il bisonte però, si avvicina inesorabile. Scatto, malissimo, e poi decido di ammirare l’animale. E’ impressionante vedere una bestia di 7-800 chili, alta poco più di un cavallo al garrese (ma molto più possente), passarti a due metri di distanza, respirando in modo quasi affannoso, fissandoti con quei grossi occhi bovini ma al contempo fieri e potenti, e battendo gli zoccoli sul manto duro della strada. Non resisto, e appena mi sfila davanti, lo rincorro col 300 montato a dovere. Faccio 50 metri di corsa, Raffaella in macchina nel caso avessimo dovuto tagliare la corda a cannone, e all’improvviso il gigante si ferma, e si volta. Io mi inchiodo al terreno. Generalmente sono un tipo che disprezza distanze di sicurezza e buone abitudini nei confronti degli animali. Tendo ad avvicinarmi il più possibile. In quell’occasione.. non so, forse un senso di rispetto, di inferiorità verso di lui, mi sono fermato. Mi guardava, il collo girato in modo da potermi fissare con un occhio. Il tempo si ferma per una decina di secondi, è magico. Chissà, magari a poca distanza c’era anche un orso che stava passeggiando nella vegetazione adiacente alla strada! Poi, a rompere l’incantesimo, arriva un camper dalla nostra stessa direzione. Il bisonte gira la testa, e prosegue la sua marcia. Il camper non sembra più tanto grande al cospetto di mister Buffalo. Due pesi massimi a confronto. Una scena che puoi vedere in pochi posti al mondo, se non a Yellowstone. E’ magico.
Come il tramonto, un cielo sereno, freddo, l’aria tagliente, le stelle puntellate al blu profondo che fa da cornice alle nere montagne, stagliate in lontananza. Manca solo l’ululato di un lupo. Siamo a Yellowstone, ed è fantastico. Io, vado a letto pieno di felicità.
7 settembre. Sveglia alle 6. Temperatura meno 2 gradi. Voglia di alzarsi, 0. Basta numeri. Ci alziamo e stop, intorpiditi e rattrappiti. Combattiamo quel brusco contrasto che si prova nello smettere di sentire il caldo trasmesso dalle coperte e, anzi, provare il freddo del resto dell’ambiente. Ci si scalda presto facendo del movimento, agitando un po’ le braccia, e ovviamente infilandosi lestamente qualche maglia pesante. Le mie in realtà erano sempre quelle due, un dolcevita nero ed una felpa nemmeno troppo spessa. Se il freddo era acuto, il rimedio consisteva in una t-shirt sopra il dolcevita. Un po’ poco forse per il clima del nord Wyoming. Se avessi saputo che avrei incontrato un clima del genere, un maglione in più forse l’avrei messo. Ma, col senno di poi, a qualcosa è servito tutto ciò: mi ha dato una maggior resistenza al freddo, e non sto scherzando. Dopo un po’, ci fai l’abitudine, e a casa magari smetti di uscire col maglioncino sulle spalle nelle serate estive un po’ più ventilate. Bene così.
Dopo esserci messi in moto fisicamente e psicologicamente, anzi, più che messi in moto, direi scongelati, ci avviamo verso il compimento della nostra missione delle 6.45 del mattino, ovvero avvistare wildlife nel parco. E’ risaputo che le ore migliori per l’avvistamento degli animali in un qualsiasi ambiente naturale sono l’alba ed il tramonto. Con il favore dell’imbrunire, la fauna esce dalle foreste per cercare cibo dove durante il giorno sono in circolazione troppi esseri umani. Così, una strada che alle 12 è trafficata da decine di macchine al minuto, alle 6.30 o alle 19, anche se non troppo meno trafficata, viene invasa pacificamente da elk in cerca di buone pasture ai lati della carreggiata o viene percorsa da un orso che si dirige verso il ruscello adiacente. Questo era ciò che cercavamo, questo era ciò per cui la mattina si sfidava il freddo. Quel giorno però, a parte un’alba veramente incantevole, con un sole caldo e pienamente arancione che sorgeva dal terreno montuoso e cosparso di erba secca, non vedemmo molto. Solo un branco di wapiti che faceva singhiozzare il traffico lungo la strada, occupandola a tratti per attraversarla. Degli wapiti però, non valevano certo la perdita delle mani a causa del freddo, quindi decidemmo di puntare altrove. Tipo a Canyon Village, dove avremmo anche potuto trovare un posto dove aggreppiarci. Non trovando altro di particolarmente interessante lungo la strada, eccetto per tre guys (in questo caso bisonti) che camminavano solitari nel mezzo di una steppa dorata, andammo direttamente alla nostra mangiatoia. Mangiammo al centro visitatori, anzi, al locale adiacente ad esso, un posto richiamante una tipica tavola calda americana: sgabelli disposti lungo banconi sistemati a ferro di cavallo, dove per ognuno dei ferri (horseshoe, in lingua madre) servivano due camerieri, come sempre simpatici, svegli e gentili. Le cucine erano posizionate a breve distanza, cosa che ci permise di vedere le quantità industriali di patate e uova pronte ad esser trasformate in hash browns, scrambled eggs, o in guarnizioni per chissà quale tipo di toast. Un posto insomma, che non può mancare di farti venir fame. Il menù è, come in tutti i posti, adescante: colorato, lungo, dai prezzi modici e dalle tante offerte. Prendi due paghi uno, prendi questo e aggiungi gratis quell’altro, paghi tot e scegli 4 elementi tra quelli sotto elencati, free refill. Uno insomma, o è del posto, o ci mette all’incirca 5 minuti per tradurre tutto, 3 minuti per valutare le diverse offerte, 6 minuti per scegliere cos’è più allettante per i propri gusti, 3 minuti a mettere insieme tutto ciò che ha pensato, e due minuti per capire come esprimersi al meglio con il cameriere. Totale: 17 minuti. Tenendo conto che il cameriere americano medio è pronto a prendere le ordinazioni in circa 4-5 minuti alla peggio, ero completamente fuori tempo massimo. E come al solito in questi casi, finisci per non valutare bene le offerte, i tuoi bisogni e i tuoi desideri. Finisci col prendere la cosa che più ti attira al primo impatto. Quel giorno ad esempio, andai sul classico: doppio toast con bacon, hash browns, poached eggs e un pancake, naturalmente con maple syrup al seguito. Una colazione piuttosto standard. Misi le patate ed il bacon nel toast, insieme all’uovo (poached è il nostro uovo “in camicia”) e mangiai avidamente. Poi fu il turno del pancake. Infine, finii le patate. Quelle sono sempre il colpo di grazia. Te ne danno in quantità indescrivibile, sembra se ne vogliano liberare. Se dai un’occhiata ai forni, vedrai credo un qualche paio di chili di patate affettate a julienne a cuocere sulle piastre, girate ogni tanto dagli addetti alla cottura, di modo che le parti direttamente a contatto con la piastra facciano una sottile crosticina marrone. Poi, inforcata una spatola che ricorda una normale cazzuola ma di dimensioni doppie, il cuoco la inserisce nel cumulo di patate, la riempie, e ne trasla il contenuto sul tuo piatto. Mentre lo guardi pensi sempre “Quel signore deve aver ordinato solo un piatto pieno di patate, è chiaro!”, salvo poi ricrederti puntualmente quando il cameriere, sorridente, ti dice “buon appetito” e ti serve questo container di tuberi cotti che ricordano come mole un piatto da tre etti di spaghetti. Purtroppo, riesci anche a sentirti in dovere di finirle, e così ti senti pieno fino alle 4 del pomeriggio, ed inizi a sentire fame solo attorno alle 5 e mezza. Così ho spiegato, e neanche tanto nel dettaglio, come un turista in america può saltare tranquillamente il pranzo.

sabato 27 novembre 2010

7. Ore felici a Pietra Gialla

Ero tornato in compagnia loro, ed ero felice. Felice come un bambino, uno che va allo zoo, perché Yellowstone alla fine, è un grande zoo a cielo aperto – senza recinzioni soprattutto. Così, partimmo per la nostra giornata. Andiamo subito a Firehole Falls. Vogliamo fare il bagno (Dowell vuole fare il bagno) ma gli viene detto che l’acqua è troppo fredda. Peccato, un tiro da matto ci sta sempre in vacanza. Ripieghiamo inizialmente verso Lower Geyser Basin. E’ un posto, come suggerisce il nome, pieno di Geyser. Yellowstone è pieno di geyser: ne detiene la maggior concentrazione al mondo. E quando entri in una zona del genere, è come entrare in un posto dove qualcuno ha lasciato marcire qualche decina di migliaia di uova. Fa impressione. Anche perché, il rumore prodotto dall’eruzione del vapore dal terreno – le fumarole sono disseminate ovunque, piccole o grandi che siano – fa da sottofondo musicale alle tue passeggiate. Si sente il continuo “sssssssssssss” del vapore che esce da terra ed inonda l’aria di un che di zolfo – giusto un che eh. Il turista qui, non deve far altro che seguire le passerelle, comode per chi ad esempio viaggia aimè in sedia a rotelle, ma che toglie quel po’ di “wild” che ci si aspetta, e snodare il suo passo nei meandri di un’ampia zona di geyser, fumarole e “pots” (pozze) d’acqua bollente. Manco a dirlo, è un posto molto rilassante, pacifico, dai colori a tratti monotoni, una scala di grigi, a tratti una tavolozza di verdi, blu e arancioni che lascia a bocca aperta. Quando il sole poi fa capolino dalle nuvole spesso compagne di viaggio lassù, il paesaggio si trasforma ed ha un’aria più allegra - meno tranquilla, ma più allegra. La gente che cammina, in lontananza, non si sente nemmeno. Le loro voci si perdono nella vastità dello spazio, e nel solito “sssssss” dei geyser, che da buoni compagni cancellano con le loro voci quelle meno opportune della massa di turisti. A malincuore, abbandoniamo il posto, non prima che io, sventuratamente, inizi con l’acquistare il primo di una lunga serie di libri. Un libro sugli attacchi degli orsi: “Bear attacks: their causes and avoidance”. Non proprio il genere di libro che una persona normale comprerebbe al suo primo giorno in terra di grizzly e orsi neri, ma ne avevo sentito parlare e non volevo farmelo scappare. Pagai 17 dollari e lo misi in macchina, deciso a non iniziare a leggerlo durante il viaggio. Scaramanzia. Ciò detto, fu il primo di una serie di libri che si sarebbe conclusa a Denver: 10 titoli. Non serve che stia qui a dirlo, il comune lettore può arrivarci da solo, fu una sfida epica farli stare tra valigia e zaino.
Per proseguire la giornata invece, decidemmo di optare per una camminata partendo da Sheepeater Cliffs, dove seguimmo lo snodarsi di un fiume fino ad un’altura dove scattammo qualche foto e ammirammo il paesaggio. Ci sono cipmunk ovunque, ghiandaie sui rami degli alberi, ed ogni tanto si scorge un rapace – hawk, sparrow od osprey che sia – che sosta sulla cima di un pino. Per strada invece, muovendoci da un punto all’altro del parco, vediamo un altro coyote, ci passa davanti alla macchina. Buon segno. Senza contare gli innumerevoli bisonti ed elk (da noi, wapiti), animali piuttosto comuni qui, arriviamo a Mammoth Hot Springs. Qual è l’attrazione di questo distretto del parco? Dei mucchi di materiale calcareo bianco ovviamente che stona parecchio con il restante colore del paesaggio: il rosso, l’arancione, il verde ed il blu. Oppure, non stona, ma macchia ancor di più la tavolozza di colori esistente, facendo sembrare il posto un costume da arlecchino di proporzioni gigantesche. Il cielo blu, il bosco verde, i tronchi marroni degli alberi morti, il bianco del calcare, il rosso che sfuma in arancione e oro dei materiali sedimentari depositati sul terreno coperto da acqua bollente. Che spettacolo cromatico! Il tutto coronato da una specie di organo fallico dell’altezza di 5-6 metri, ovviamente di calcare. Anche le tavolette del bagno lo sono, tra un po’. Simboli fallici a parte, il posto è molto affascinante. Ed è pieno di cartelli che invitano a far attenzione agli elk. Questi animali, non l’ho detto, sono delle specie di cervi. Detti wapiti, la miglior traduzione in italiano, sono un po’ più tozzi dei cervi europei ed hanno corna leggermente più grandi. Infine, sul deretano hanno una macchia di pelle bianca, a mò di mutande, che li contraddistingue. Sono animali tendenzialmente pacifici ma, come dicono ranger (e cartelli): DO NOT APPROACH ELK! – STAY AWAY FROM ELK – ELK CAN CHARGE YOU, HURT YOU AND DAMAGE YOUR CAR! Come a dire, sembrano solo carne da hamburger di classe in movimento, ma possono far male, se gli gira.
Noi stiamo relativamente a debita distanza. A parte un momento in cui, preso dalla mia solita smania di vicinanza al regno animale, cerco di acquattarmi per raggiungere un grosso elk maschio, comodamente adagiato sul giardino di una signora del posto. La gente è li che lo guarda dalla macchina, io, from Italy, che mi avvicino ala bestia con fare degno del compianto Steve Irwin di Missione Natura. Fino a che un tipo mi suona il clacson, ed io mi giro.
Lui mi dice “Stop! Don’t get closer!”
Io penso al perché di quest’esclamazione: cazzo, non è un ranger, non ho di fronte un orso, perché diavolo dovrei fermarmi a venti metri dall’animale? La risposta fu qualcosa del tipo “E’ la stagione degli amori, i maschi sono incazzosi nonché pieni di ormoni fino alle orecchie, e se ti avvicini ancora di caricherà! Quindi fermati se vuoi salvare la pellaccia!” Guardo Dowell un po’ perplesso, pensando che il tipo fosse un po’ troppo premuroso, e trovo Dowell che se la ride allegramente. Dopodichè, la signora che stava sulla parte posteriore della macchina mi dice:
“Ooh don’t care, he’s from Montana!”
Signora, la ringrazio molto per il suo sorriso e per avermi in qualche modo confortato, non facendomi sentire l’unico avventuriero pirla di Mammoth Hot Springs, ma cosa voleva suggerirmi?? Che quelli dal Montana sono particolarmente premurosi – e magari un po’ fifoni – o che sono semplicemente gente macina palle che non sa farsi i cazzi propri?
Alla fine, con la sera, arriva anche l’ora di cena. Mangiamo nel ristorante più in della città – e guarda caso quella sera dovevo offrire io.. – ed abbiamo subito un assaggio delle prelibatezze che ci avrebbero deliziato il palato per i giorni a venire. Prendo una bistecca di bisonte, con contorno di fries e pane all’aglio. E’ una carne sublime. Altro che la nostra solita, vecchia, a volte stopposa mucca del cacchio. Quella è carne! E’ morbida al punto giusto, non si rompe con un grissino ma nemmeno fabbisogna di una motosega per essere tagliata, e soprattutto, ha un gusto migliore. Non so descriverlo, mi mancano i fondamentali da chef che me lo consentirebbero, ma posso dire che è migliore! Provare per credere. (Un biglietto per New York lo si trova anche per 350 euro. Il bisonte lo trovate anche li) Il conto rispecchia la qualità del cibo, del servizio – eccellente – ed anche la pienezza del mio portafoglio. Era il primo giorno, ed avevo ancora biglietti verdi “da vendere”. Anzi, da spendere. Il conto, per cinque persone, fu di 82 dollari, la cena più costosa che un poveretto come me abbia mai offerto di tasca propria, ma ci stava. Così, con gli stomaci pieni, e la pellaccia salva, ci accingemmo a salutare Dowell, Becky e Mikayla. Fu un momento per me commovente. Sapevo che, forse, poteva essere stata l’ultima volta in cui li vedevo su questo mondo. E’ una cosa triste, che mi capita spesso di pensare, con persone che magari non vedo molto di frequente. “E se fosse l’ultima volta che lo vedo? Cosa vorrei dirle? Magari non avrò mai più occasione, che ne so, di giocare a carte con lui!”. Al di la degli esempi banali, è un argomento che mi lascia un po’ interdetto sul da farsi. Mi spiacerebbe un mondo vedere per l’ultima volta una persona e lasciarla dicendole “Ciao! E occhio agli elk eh!” – brutto deficiente – penserei redarguendomi, col senno di poi. Ma quel giorno andò meglio. Diedi loro un piccolo presente, che apprezzarono molto ed ebbero occasione di usare nel viaggio di ritorno (erano due sciarpe, ed in Montana fece freddo mi dissero), e mi profusi in abbracci e frasi di commiato. Mi dispiaceva molto lasciarli, gli sono molto legato. Ma così volle il destino, ed in cuor mio, nonostante so benissimo sarà molto difficile, spero di rivederli, lì in South Dakota o qui in Italia. Nel frattempo, mi mancheranno.

domenica 21 novembre 2010

Me ne andrei volentieri, perchè mi piace il football

E’ difficile svegliarsi un giorno e sentirsi imprigionato nella propria esistenza.
E’ difficile perché hai passato 23 anni della tua vita in questa parte del mondo, con questa gente, con questi amici, abituato a trascorrere il tempo in un certo modo, ad uscire in certi posti, a spendere in determinati modi i pochi soldi che ti passano per le mani. Hai vissuto per 23 anni della tua vita seguendo certi esempi, mirando a certi risultati, aspettandoti determinate cose dalla tua crescita, educazione e formazione. Hai studiato fino all’università, magari mantenuto dai tuoi genitori, ti sei vestito sempre alla moda, hai frequentato pub e discoteche, hai agognato i 18 anni per avere uno straccio di macchina – anzi, una Mini – e per portare con essa i tuoi amici in montagna per una settimana bianca, prima dell’inizio delle lezioni di marzo. Poi, se sei stato bravo e ti sei laureato in fretta, hai trovato un lavoro, magari non il massimo, magari non ciò che sognavi da piccolo, ma hai 23 anni e tanta voglia di fare, sarai in tempo a cambiarne quanti ne vuoi, pensi. Insomma, hai vissuto felicemente e spensieratamente la tua giovane esistenza, ti sei istruito in tempi rapidi, e sei diventato parte del mondo lavorativo senza dover elemosinare un lavoro da pezzenti pur di essere un minimo indipendente dalla tua famiglia. Non devi ripiegare le camice che i clienti spiegano e provano nei centri commerciali, non devi pulire il pavimento dello Spizzico, non devi tantomeno pulire cessi per guadagnare due soldi e spenderli il sabato sera con gli amici, rompendo loro le palle per uscire perché quello è l’unico momento della settimana in cui puoi.
Hai tutto, o quasi. Amici, lavoro, e, fino a quando i tuoi ti accetteranno in casa, anche un tetto.
Ma, come detto, un giorno ti svegli e ti senti imprigionato in un’esistenza che non senti più tua, che non ti soddisfa più, in cui ogni giorno è solo un lungo, stancante, arrancare verso quello successivo, in vista di un traguardo che chissà, forse non vedrai mai, un po’ come un uomo, nel deserto, cerca invano una pozza in cui abbeverarsi, trovando solo miraggi e mai la vera fonte.
Un po’ come indossare per tanto, tanto tempo un abito, e provarlo un bel giorno rendendosi conto che non va più bene. Ma come? Dopo così tante avventure insieme, dal giorno alla notte, non va più? Sono sicuro che forse, sotto sotto, anche prima non fosse proprio così.. così fit?
E’ quello che mi sono chiesto anch’io, perché quello che ho detto finora rispecchia il mio stato d’animo.
Non sono, in realtà, completamente sicuro che questa prigionia sia una cosa recente. E’ più probabile sia radicata in eventi passati, in realtà già vissute, in momenti che solo dolci e amari ricordi possono riportare alla luce. Credo di sapere quale sia la causa del mio malessere, e che momenti andare a ricercare per vederne gli inizi. Non avrei dovuto andare in America. Lì mi sono ammalato, ammalato di America.
Dicono che chi ci vada, magari non per un viaggio di una settimana, ma per un tempo sufficiente ad entrare nella sua logica, nel suo modo di essere, finisca per amarla o per odiarla, non ci sono vie di mezzo. Io devo aver finito per amarla, perché non riesco più a starne senza. Senza pensarla, senza parlarne, senza immaginarla, senza nominarla, senza agognarla. Come una fidanzata - quella che mi ha fatto smettere di aver la voglia di cercare. La vedo nelle foto dei viaggi, nei notiziari in tv, nelle scritte in inglese (il bad English, non quello colto e raffinato d’oltremanica), nelle insegne dei MacDonald. Ogni giorno ho modo di sentire la mia prigionia italiana attuale come immancabilmente legata alla mia voglia di libertà statunitense. Ma perché?
Ecco, io non so se tutto ciò, questa overdose di America che mi è stata iniettata nel sangue da quello stesso paese, sia dovuta solamente al modo in cui – da turista – vivo le mie vacanze negli USA. Non so se la mia prigionia sia semplicemente dettata, chi lo sa, da un lavoro poco coinvolgente o poco soddisfacente dal punto di vista umano e professionale, o da un vuoto interiore che, chissà quando e come, potrebbe colmarsi. Non so se la mia sia l’ultima di una serie infinita di noie, paranoie, invaghimenti e affini che hanno tormentato - e continueranno a farlo - la mia esistenza. In poche parole, so ancora poco del male interiore che mi affligge. Una cosa che so è che voglio curarlo, ed in fretta, perché vivere così, senza una cosa che possa rendermi felice – a parte il pensare che, presto, rivedrò quel paese a me tanto caro – è abbastanza deprimente. Mi domando se ora che gli amici, il lavoro, gli svaghi di sempre, i luoghi di sempre, ecco se tutte queste cose non sanno più rendermi felice della mia esistenza, non sia veramente il caso di darci un taglio e buonanotte. D’altronde, ho 23 anni e sono ancora giovane, al mondo c’è stata gente che ha sputato in faccia a fortune maggiori della mia e che ha sopportato sacrifici maggiori di quanti (pochi) ne abbia fatti io, dunque non vedo il motivo per cui anch’io, con un minimo di coraggio, possa mollare tutto e costruirmi una nuova vita in un posto diverso, lontano da qui.
Mi ero posto, poco fa, una domanda semplice quanto terrificante, sorprendente, immobilizzante: perché? Perché tutto questo? Cosa c’è di tanto bello, di attraente, in quel paese?
Ci sono tante cose, tante quante, credo, lo siano quelle brutte. Ci sono tanti motivi per amare l’America quanti sono quelli per odiarla.
Posso dire di aver vissuto un po’ laggiù, non nella vera America, ma in un surrogato che vorrebbe, un po’ alla volta, assomigliarle. Ma l’ho girata - ancora poco, purtroppo - abbastanza per capirne l’essenza ed immaginarne il resto.
Il mio vestito, ora, non è più fit perché non ha città enormi dove puoi perderti per ore in mezzo al traffico senza capire che stai girando lo stesso isolato. Non ha gente che consuma litri su litri di benzina venduta a 50 cent al litro giusto per muovere un fuoristrada da 5000 di cilindrata per portare il bambino a football, al campo distante appena 500 metri da casa. Non ha la musica country. Non ha praterie infinite di erba che d’autunno brilla di un colore dorato, agli ultimi raggi del sole, e in primavera risplende di un verde che rende felice l’occhio di chi lo osserva. Non ha catene di fast food che riempiono intere strade. Non ha il cibo grasso e unto (ma goloso) che si usa consumare sia a colazione che a cena. Non ha gli stadi da football, i giocatori di football, il football, e la civilissima gente che assiste alle partite di football. Non ha un sistema di parchi nazionali così possente. Non ha gelaterie dove puoi scegliere di mettere Mars, confetti di cioccolato, scaglie di cocco e orsetti gommosi sui gelati. Non ha un esercito così grosso, potente e straordinariamente orgoglioso di sé. Non è così vasto. Non è così variegato. Non è così normale nella sua stravaganza. Non ha gente che si permette di andare via vestita da straccione senza beccarsi commenti di altra gente che pensa “Guarda che straccione quello la!”. Non è così patriottico. Non ha un barbecue in giardino per ogni casa, perché non è affatto scontato che ogni casa abbia il giardino. Non ha siti storici dove sono “sacralizzati” i campi di battaglia e dove si rievocano ogni anno battaglie appartenenti alla storia di 200 anni fa. Non ha deserti asfissianti, montagne altissime, fiumi immensi, praterie senza fine, laghi che sembrano mari, colline dolci, canyon vertiginosi, e animali d’ogni tipo. Il mio vestito, il mio paese, non è l’America. E io amo l’America.
Voglio esser libero di scorrazzare per 50 miglia senza vedere anima viva, eccetto per forme di pubblicità su cartelloni che mi indicano la presenza di un WalMart a Cooperville, 80 miglia più a Est. Voglio poter, in un giorno solo, passare alla Casa Bianca per dire “Good morning Mister President!”, entrare nel cimitero di Arlington per porgere omaggio al Generale Lee, osservare l’oceano Atlantico da un porto qualsiasi in Virginia, ed infine godermi il tramonto e la quiete di campagna nelle sue colline più occidentali. Voglio guidare con una specie di enorme bicchiere di coca cola infilato nel poggia-bibite della macchina. Voglio mangiare pollo fritto alla salsa barbecue mentre assisto, in mezzo alla folla, alla partita di football tra i Chicago Bears ed i Minnesota Vickings. Voglio avere una casa in un quartiere dove mio figlio può correre libero dagli amici, senza aver paura di essere investito da qualche pazzo mentre io sono a lavoro – perché li rispettano la segnaletica e, soprattutto, hanno un po’ di etica stradale. Voglio potermi vestire da boscaiolo, da skater, da pezzente, senza che la gente per strada pensi “Guarda che straccione quello la!”. Voglio, anzi, andare a lavoro in pantaloni beige, camicia azzurra e cravatta rossa e bianca senza che i colleghi pensano “Come si è svegliato quello stamattina?”, perché anche loro sono vestiti o come me o, usando un eufemismo, in modo ben più stravagante. Voglio vivere in un paese più gentile, più ospitale, più educato di quello in cui vivo adesso. Voglio guidare per il South Dakota, con un pick-up e un cane sul retro. Voglio parlare l’inglese e voglio che altrettanto facciano i miei figli. Voglio festeggiare il Thanksgiving Day, l’Indipendence Day ed assistere ai sondaggi ed ai polls dell’Election Day. Voglio aver la possibilità di essere a contatto con una natura grandiosa. Voglio tornare dal supermercato con borse strapiene di ogni genere alimentare – dalla pizza pollo e aglio, alle patate ripiene surgelate, alle costolette di maiale, alla rimpianta pasta Barilla. Voglio vivere in mezzo a gente cordiale, sorridente, che se ne frega degli schemi, che non è mai uguale, che non bada all’etichetta, che si comporta come meglio crede. L’America è la mia meta.
Non è tutta rose e fiori, ma o la si accetta, e la si ama, o la si diniega, e la si odia. Accetto che in un viaggio a Chicago di una settimana possa rimanere ammazzato da uno dei tanti rapinatori-killer sfornati della povertà dei bassifondi. Accetto che ogni mese di ogni fottutissimo anno, dovrò pagare (se potrò) fior di quattrini per assicurarmi l’assicurazione sanitaria. Accetto che dovrò lavorare come un mulo per guadagnare meno di quanto avrei qui. Accetto che la maggior parte delle spese del mio paese saranno volte alla guerra e all’Esercito, oppure alle lobby che ne controllano i meccanismi. Accetto che passerò dalla moneta che sta diventando quella di riferimento – l’euro – a quella che lo è stata per tanto tempo e che ora sta declinando – il dollaro. Accetto che i medicinali costeranno un sacco. Accetto che la polizia, se superi il limite di velocità, non mi manderà la multa a casa: ti arresta – perché ti vede – e ti fa anche pagare. Accetto che sarà difficile costruire una vita nuova, senza amici, senza “ponti”, senza certezza. Accetto che la mia futura casa potrebbe essere spazzata via da un tornado. Accetto che una nuova vita, in un paese potenzialmente d’oro quanto incredibilmente difficile, potrebbe essere umiliante. Accetto che l’istruzione dei miei figli sarà lacunosa quanto maledettamente costosa, se vorranno avere un curriculum degno di tal nome. Accetto tutto questo, sì, sono disposto ad accettarlo.
Sono innamorato dell’America.
E non venite a chiedermi perché io lo sia, perché io non sorrida più, perché sembra che tutto ciò che mi circonda faccia schifo. Sono disposto, previe le opportune procedure, a svegliarmi un giorno e dire “Fanculo Manu, partiamo e basta!”, ed il perché è scritto qui, è chiaro. Se volete comprenderlo meglio, vi consiglio solo questo: due settimane di ferie, una macchina, la radio accesa su una stazione country, del pollo fritto alla salsa barbecue, e tanta voglia di correre attraverso un posto fantastico e sconfinato come sono gli States. Forse ci rimarrete anche più di due settimane.
E forse dopo capirete perché il mio vestito non è più fit, perché io non sono più così felice, e perché mi è rimasta questa strana voglia di football.

giovedì 18 novembre 2010

6. Vecchi amici, posti nuovi

Arriviamo nello Yellowstone ed il cielo si fa improvvisamente grigio. Ventoso. Sembra quasi possa venire a nevicare.. e così avviene. Fiocchi di neve, il 5 settembre. Sarà la prima nevicata della stagione, e noi eravamo lì, anche se avrei preferito raccontare qualcos’altro. Il tergicristallo, prima spento, inizia a funzionare a livello 2, poi 4, poi 10. Il massimo. E’ scuro e nevica, peggio di così c’è solo l’inverno, con la strada ghiacciata. Per dover di cronaca chiarisco che il sottoscritto, in modo direi scellerato, veste pantaloncini corti e t-shirt, ovviamente senza canottiera. Quel che si dice un abbigliamento consono alla situazione. Non avendo vestiti atti alla bisogna, a portata di mano, accendi il condizionatore a manetta. Poi, quando esci a fare una foto, muori congelato sul colpo per la differenza di temperatura tra interno ed esterno, che è pazzesca. Però stringi i denti, mani sotto il culo per scaldarle, e via. E la nevicata, dopo venti minuti, smette, andandosene tanto tranquillamente com’era arrivata. Ed il sole tramonta su un cielo terso colorato di azzurro, viola ed arancione, velato da qualche nuvola allungata, che fa da sfondo alle cime imbiancate degli alberi. Uno spettacolo a cui è impossibile resistere. Siamo contenti, il morale è alto, ma pensiamo che arriveremo tardissimo al motel. Erano le 8 circa, ed arrivammo lì alle 9 di sera. Infatti, complice il buio e la scarsa efficacia della segnaletica, sbagliamo strada a Madison Junction e ci sciroppiamo 50 minuti di strada in più. Stavamo andando verso Mammoth Hot Springs senza saperlo. Dove saremmo andati il giorno dopo. Alla fine però riusciamo ad azzeccare la retta via, e nell’oscurità, interrotta solo da una sottile striscia d’azzurro sopra le montagne più lontane, all’orizzonte, dov’era tramontato il sole, arriviamo a West Yellowstone. Scendiamo dalla macchina, ed il freddo ci ammazza. Io batto i denti nel vero senso della parola e non riesco a fermarmi. Sono un martello pneumatico che anziché battere sul cemento della strada, frantuma i miei stessi denti. Devo mettere una felpa, ma nemmeno con quella resisto. C’erano circa -2 gradi ed ero in maniche corte senza niente, forse posso anche capire il perché di questo freddo. Raffaella è più brava di me, forse anche aiutata da vestiti più adatti all’uopo, ed insieme, con valige al seguito, andiamo a prendere le chiavi della camera ed a ricevere un messaggio che Becky, la mia amica dal South Dakota, ha lasciato al gestore del motel: “domani mattina ci vediamo. Chiamami appena arrivate, ci mettiamo d’accordo su dove e quando trovarci. In caso vi raggiungiamo lì.” Che tesoro! Si erano già preoccupati per noi! Confortati da ciò, ci avviamo in camera, una suite che ci avevano annunciato essere risalente al 1921. Ciò voleva dire che o era vissuta e trasudante aria dei bei tempi andati, o era terribilmente sporca e malridotta. Propendevo più per la prima alternativa, ma scoprii che nemmeno la seconda era proprio così infondata. Era un giusto mix, insomma. Pareti di legno duro e pesante, stile capanna in Klondike, arredamento spartano, mobilio che poteva essere quello della casa di tua nonna, e in bagno una “comoda” vasca da bagno senza manipolo-doccia o getto d’acqua proveniente dall’alto. Una vasca vecchio stampo, di quelle in cui i vecchi cercatori d’oro immergevano le loro chiappe polverose dopo una dura giornata di lavoro, imprecando contro i calli e gli scorpioni dentro le scarpe. Lungi dal fare una cosa simile, e anzi, morsi dalla fame, decidiamo di dar fondo a parte della nostra spesa per una cena tutta speciale: Chili riscaldato in microonde servito in bicchieri di polistirolo. Un banchetto da re. L’importante però era dormire, perché la mattina seguente ci aspettava il parco. Una lunga giornata nello Yellowstone.
Ci alziamo alle 7, di modo da essere a colazione per le 8. Ci avevano consigliato il “Running Bear”, localino conosciuto li in paese per eccellere nelle colazioni. E potemmo sperimentarlo di persona, perché, col senno di poi, fu la colazione migliore del viaggio! Io presi un doppio pancake, con burro, bacon e hash browns (patate tagliate “a julienne” cotto alla piastra), con contorno di pane bianco tostato. Ebbi l’idea grandiosa di togliere il bacon dal pancake e di metterlo sul pane, così creai un paio di toast al bacon. Poi, riempii i pancake di burro e, su richiesta, di panna montata. Svuotai interamente la coppetta che mi portarono dentro i due strati di pancake, e aggiunsi come topping dell’abbondante sciroppo d’acero: il top! Una cosa da buongustai.. fu decisamente un’ ottimo modo di iniziare la nostra avventura culinaria!
Fuori era freddo, e quando finimmo colazione, dovemmo affrontare il gelo. C’era il sole, ok, ma la temperatura non lasciava di tanto lo zero. Montiamo in macchina col vetro gelato, per cui, per ovviare alla cosa, vi gettiamo acqua bollente presa dal motel. Soluzione vecchia, forse rischiosa, ma efficace! Mentre carichiamo le valige, sorpresa, ecco arrivare i nostri amici: Dowell, Becky, e Mikayla, che personalmente (parlo di quest’ultima) dovevo ancora conoscere. Non vedevo Becky e Dowell da un anno e mezzo, ma ora erano lì, in forma come al solito, con lo stesso sguardo dolce e premuroso che li contraddistingue. Sono una coppia affiatata, di mezz’età (dico sulla sessantina in realtà) da Rapid City, quasi 1000 chilometri ad est di dove ci trovavamo in quel momento. Mi sentivo così vicino ai tempi del South Dakota, della riserva indiana, dei blizzard. Che ricordi. Mi sentivo come quella sera, 24 febbraio 2009, in cui arrivai nottetempo all’aeroporto di Rapid. C’era Dowell ad attendermi. Io distrutto da più di un giorno di viaggio e una notte persa nei meandri dei fusi orari, spiaccico qualche parola in un inglese piuttosto intuitivo. Lui mi si presenta - me lo immaginavo più giovane a dire il vero - e mi porta subito verso casa sua. Erano circa le dieci, anche se a me sembravano le due di notte. Poca gente per strada – a meno che tu non sia a New York, la gente circola poco di notte in città. Dowell mi rende partecipe di un breve tour della città, a cui mi spiace dirlo ma non ero minimamente interessato. Il mio interesse era un letto comodo munito di cuscino ove poter dormire per almeno una decina di ore. Facciamo una dozzina. Rapid City prese corpo in me, nella mia mente, come una città buia di cui non mi importava un fico secco. Ma di lì a qualche giorno avrei cambiato idea: sarebbe diventata una graziosa cittadina vivibile, equilibrata tra cemento – il concrete – e il verde, che vede anche la luce diurna e di cui imparai a memoria i nomi di vie ed incroci. Ancor oggi ricordo a menadito la strada per raggiungere, da Franklin Street, Kyle, situato nella riserva indiana. (devo per dover di cronaca sottolineare che le curve, le nuove strade da prendere, partendo da Franklin, erano più o meno 4).

sabato 13 novembre 2010

5. Un piccolo assaggio

In questi casi, ovvero quando hai di fronte un tragitto in macchina lungo e perlopiù tedioso, i giochetti con cui si può architettare di trascorrere il tempo sono ben pochi: per chi non guida, dormire e guardare il paesaggio sono quelli che vanno per la maggiore. Per chi guida, le hit del momento sono guardare a tratti il paesaggio, hobby che se cerchi di intensificare può portarti ad incontri ravvicinati con la targa di grossi camion, o ascoltare musica. Spesso addirittura, il conducente sceglie di praticare entrambi i passatempi. In quella circostanza io, sebbene avessi una discreta colonna sonora come sottofondo musicale, non ebbi grande fortuna con il panorama da osservare. Tralasciando la monotonia già descritta, c’era veramente poco da ammirare: nessuna montagna, nessun lago, nessun fiume. Gli avvallamenti significavano stradine secondarie, i rilievi erano poco più di collinette molto allargate, ed i pochi specchi d’acqua che si incontravano erano pozze per il bestiame. Con questo vasto assortimento di elementi da gustare visivamente, il turista si può dilettare in osservazioni sulle stupidaggini che gli passano davanti agli occhi. Del tipo “Guarda quella catapecchia, chissà che disperato ci abitò!”, o “Quella roccia è proprio gialla!”, o ancora “Se fossi una mucca non andrei mai laggiù a pascolare!”. Insomma, osservazioni che fa un turista che non ha nulla da fare per un migliaio di chilometri quasi tutti in mezzo al nulla. Una cosa che invece ti riporta alla realtà, alla dure e cruda realtà che impone al tuo organismo alcune funzioni necessarie, come svuotare la vescica e ingoiare qualche caloria, è la fame. Proprio per causa sua ci ritrovammo poco oltre Rock Springs a domandarci dove avremmo potuto fermarci per mettere qualcosa sotto i denti. Cose che, non ultimo, non avevamo in quanto non avevamo ancora provveduto a far la spesa quel giorno. Così ci fermammo in un luogo non ben identificato, lungo la strada 191 del Wyoming, a far la spesa di generi alimentari. Comprammo del prosciutto affettato, del pane, del chili in scatola, del cheddar (che è un tipo di formaggio, quello color arancione evidenziatore!) a fette e un paio di galloni d’acqua. Avevamo tutto il necessario per un pranzetto stile gita in montagna. Ci dirigemmo di nuovo verso la strada, con l’intenzione di correre ancora un po’ al fine di trovare un posto più ospitale per consumare il nostro pasto. Già esso non era proprio un esempio di alta cucina francese, dunque pensavamo che avremmo potuto ovviare in parte contornando il pranzo con una location degna di tale nome. Corremmo per un’altra ora, mi pare. Poi, decidemmo che ne avevamo avuto abbastanza. Erano le 14 circa, non mangiavamo dalle sei, e decidemmo di fermarci per concederci del cibo e una breve sosta. Ricordo che in quel momento lottavo ferocemente con il sonno: scesi dalla macchina con l’intenzione di mangiare e sdraiarmi sull’erba per schiacciare un pisolino. Ma non sapevo dove stavamo apprestandoci a fermarci. Eravamo, manco a dirlo, in mezzo alla steppa che conduce da sud verso il nord del Wyoming, verso Yellowstone, e decidemmo di approfittare dell’unico paesino degno di esser chiamato tale (cioè con popolazione sopra le 200 anime). Eravamo ad Eden, WY: il posto più ventoso dove io sia mai stato, eccezion fatta per il tetto di un traghetto in movimento. Nonostante l’altezza non fosse quella dell’Himalaya, il tempo fosse bello, e non avessi il reattore di un aereo in partenza puntato sul volto, il vento era impressionante e costante. Più della nostra fame e della nostra stanchezza.
Ci fermiamo in un parchetto dove incontriamo una classica famigliola americana che fa un classico pic-nic domenicale su una classica griglia all’aperto. Noi, con prosciutto in scatola e panini da hot-dog da tagliare con le nostre affilatissime dita, invidiamo la loro carne ben cotta e le loro posate. Che attrezzi utili! Non passiamo però molto tempo a fantasticare sul cibo, che torniamo a pensare al vento. Butta le carte ovunque, quasi ti sposta il panino quando stai per morderlo, e soprattutto ti fa sentire al freddo, cerchi il sole per scaldarti. Gli americani rincorrono i piatti di plastica per il parco. Si infatti, eravamo in un piccolo parco del cazzo. Ne crescono tanti in America, ovunque, anche nei posti più disparati. Stai pur sicuro che, da qualche parte, nel deserto del Nevada, a lato di una strada che si sarà usata per l’ultima volta ai tempi di Buffalo Bill, c’è un parco magari chiamato “Cougar Falls State Recreational Area”. Cougar Falls?? Ma dove minchia li vedi i puma e soprattutto le cascate?? E poi, State Recreational Area???? Ma chi vuoi che venga qui in mezzo alla sabbia a divertirsi sotto 50 gradi all’ombra?? Eppure loro sono così, grandi, diversi, a volte pazzi, schizzati, insensati. Certe cose che vedi, agli occhi di un europeo, non hanno senso. Creare un parchetto, recintarlo, fornirlo di tavoli da pic-nic e di giostrine, e piazzarlo a 30 miglia almeno da qualsiasi caseggiato, non ha senso. A meno che non serva a dare un ultimo istante di felicità a qualche disperato che sta per morire disperso in quei luoghi. Giusto, lo faranno di sicuro con questa finalità! Comunque, di quel parchetto ventoso ad Eden non ne volevamo più sapere. Avevamo mangiato, poco e niente di che, io non avevo più voglia di dormire (probabilmente sarei rotolato via in mezzo alla strada come quell’erbaccia che rotola davanti ai saloon nei film western) quindi decidemmo di ripartire. Avevamo ormai i minuti contati. Ricordammo Eden come un posto da consigliare ai nostri amici amanti degli aquiloni. Sulla nostra strada verso lo Yellowstone passammo per il parco di Teton. E’ il fratello minore dello Yellowstone, ma ha altrettanto fascino. E’ il primo grosso parco che incontriamo, e lo si vede dalle 3-4 foto che scattiamo all’enorme cartello che indica l’entrata. Lo spettacolo è già sublime: due catene di vette si estendono ai nostri lati, in mezzo la strada, e tante erba fino ai piedi delle alture. Il sole tramonta alla nostra sinistra, e offre uno spettacolo di forme e colori combinandosi con le nubi grigie ma rade nel cielo. E’ bello guidare, se puoi ammirare cose del genere anziché macchine ferme in coda e gente che si manda a cagare senza troppe remore. Proseguiamo spediti, dopo aver rischiato di perdere tutte le nostre preziose mappe a causa di una raffica di vento mentre eravamo fermi a bordo strada. E subito, a destra, vediamo macchine ferme. Era dal Canada, un anno prima, che non vivevo una scena del genere: macchine ferme a bordo strada, in questi posti, equivale ad animali. E lì ce n’erano eccome! Era la nostra prima grossa mandria di bisonti. Era piuttosto grande, forse un centinaio di capi, ed alcuni erano relativamente vicini. Ovviamente si parte a scattare mille foto con lo zoom a palla, non sapendo che, magari il giorno dopo, si sarebbe stati a due metri esatti da una di quelle enormi bestie. Il bisonte è tanto grande, ma ne parlerò più avanti. Questo era solo l’inizio. C’era una staccionata in disuso a dividerci dagli animali, era come il confine che ci introduceva all’inizio ufficiale di questo viaggio. Fu emozionante. Lasciammo però lo spettacolo ai cinesi con gli obiettivi più lunghi di loro, perché noi avevamo ancora molta strada da fare, circa un ora e mezza, imprevisti esclusi, per giungere a West Yellowstone, MT. E stava imbrunendo. E’ impossibile resistere allo spettacolo che il paesaggio ti offre. Sai che devi correre, ma ti fermi per ammirare, per scattare una foto. E il tempo passa. E il tempo, inoltre, peggiora.

martedì 9 novembre 2010

4. ..Hai presente quella fame appena sveglio?

Stanchi morti ma più felici di prima, entriamo, cerchiamo invano qualcosa da mangiare (non cercate posti dove cenare in South Abilene Street dopo le 9 e mezza di sera) e decidiamo infine di dare la priorità al sonno piuttosto che alla fame. Io avevo ricevuto il mio pacco con gli ordini che avevo effettuato on-line qualche giorno prima, consegnato in albergo come da me disposto: un obiettivo grandangolare per la reflex, una scheda di memoria da 8 giga, e le cuffie nuove per l’ipod. Hotel trovato, pacco consegnato: erano due motivi più che sufficienti per farmi trascorrere una serena nottata di sonno. Cosa che, per inciso, fu solo una mia volontà che non divenne realtà, in quanto per il fuso passammo entrambi la notte a girarci e rigirarci, come un maialino in cottura a fuoco lento.
Avete presente quando, per aver dormito troppo, per non riuscire a dormire, o per altri dannatissimi motivi, vi ritrovate a vagare raminghi per il letto, domandandovi che ore sono, cercando di capire se la luce che si vede in lontananza è del sole che sorge o del cellulare che ha finito di caricarsi, e magari desiderando, alla fin fine, solo una cospicua colazione?? Il mattino seguente, per noi fu così. Io brancolavo nell’oscurità già dalle 3 e mezza circa. O forse sarei più veritiero affermando che in realtà non ho mai perso il contatto visivo con le ore segnalatemi dalla sveglia. Potevo dire di aver visto scorrere ogni ora, durante la notte. Credo fosse stata un po’ l’emozione, molto la troppa stanchezza, un po’ tanto il fuso, e non ultima la fame. Tutte queste concause finirono con lo stendermi al punto di non aver nemmeno la concentrazione necessaria per addormentarmi – perché in fondo, un po’ di concentrazione ci vuole. Se vai a letto pensando alla figa che vorresti limonarti duro, è chiaro che penserai solo a lei, ed i tuoi sforzi non verranno invece convogliati sul chiudere baracca e burattini e farsi un bel pisolo! Comunque, io quel giorno alle 5.45 (AM, non PM!) decisi di alzarmi e vedere se fuori c’erano delle persone o se c’era qualche altro tipo di animale notturno. Persone non ne vidi, ma in compenso notai che il sole sarebbe sorto di li a non molto ancora. Nel frattempo, anche Raffaella si era destata, avendo vissuto una notte un po’ da mare in tempesta come il sottoscritto, e decidemmo quindi, prendendocela con relativa calma, di alzarci e avviarci verso del cibo. Lo trovammo nella hall dell’Hotel, dove era stata apparecchiata una colazione semi nomade buffet style. C’erano: cereali di 4 tipi, i più appariscenti dei quali erano – molto diffusi negli USA – quelli con tanti colori quanti l’arcobaleno. C’erano latte, tè, caffè americano (che non definirei lungo, o annacquato, bensì solo preparato in modo diverso per renderne più sopportabile l’assunzione in dosi elevate), pastine di fogge differenti (tutte con l’immancabile cannella, che agli americani ho scoperto deve piacere proprio tanto), pane modellato in un paio di forme per renderlo più appetibile, e un po’ di frutta. Stop. Niente di che, come tutte le colazioni a buffet. Anche se dall’Holiday Inn di Aurora, Denver, mi aspettavo qual cosina in più. Mangiamo avidamente, guardando il tg e constatando insieme che il sole era finalmente sorto e che magari qualche altra persona lì si stava alzando dal letto. Finito il nostro – haha – faraonico buffet, prendiamo le valigie, gli zaini e le mappe e ci avviamo verso la macchina, dove quel giorno avremo tenuto comodamente il culo per almeno una dozzina d’ore. Un po’ angosciante, come prospettiva. Dovevamo essere a West Yellowstone, Montana, distante più 1000 chilometri a patto di non sbagliare strada, per sera. Partiamo con già il fiato sul collo. Appena arriviamo sulla Highway, l’autostrada americana, vediamo un cartello: Laramie – qualche decina di miglia. “Bene”, pensiamo, siamo già a buon punto! (se abbiamo fatto due miglia finora??!) Passano le mezzore, tra mandrie di mucche, balle di fieno, campi sconfinati e pattuglie di polizia – stavamo passando l’ultimo avamposto della civiltà, prima di addentrarci verso il bucolico Wyoming – e scorgiamo un nuovo cartello: Rock Springs – Trecento e passa miglia. “Coooosa?? Ho letto bene o mi sbaglio?” Vuol dire che avevamo, per arrivare diciamo al 60% della strada, altri seicento e passa chilometri!! Da far venire il voltastomaco. Sensazione questa peraltro aggravata dal fatto che la temperatura era decisamente alta all’interno della vettura, e che l’esterno non offriva di certo un tocco rinfrescante, mostrando ovunque piatte, immense, monotone distese di praterie, con qualche coyote che ogni tanto faceva capolino a gratificare lo sguardo dell’osservatore attento.

domenica 7 novembre 2010

3. Quando si dice "guidare alla cieca"

I nostri, quel giorno, arrivarono in fretta e fummo subito pronti per andare a ritirare la macchina. Dovemmo prendere un autobus che faceva servizio in aeroporto per raggiungere il noleggio auto, e ricordo che fu un momento molto intenso. Ci fece salire a bordo un nero, di corporatura atletica e molto educato. Una persona che mi ricordò, all’istante, un certo Obama. E fu molto piacevole viaggiare per qualche minuto in sua compagnia, attraversando i dintorni del terminal rischiarati dalla fioca luce del sole calante dietro le Rocky, ascoltando musica americana di artisti americani. “Ragazzi, sono in America!” devo aver pensato. Sono di nuovo a casa.
Dopo dieci minuti di dialogo in cui la commessa, al solito, fa di te quello che vuole facendoti firmare cose che poi leggi con calma e per cui ti taglieresti le palle, ritiri l’auto. Nella fattispecie, una Chevrolet Impala grigio lucente che per due turistelli italiani come noi va più che bene. Una berlina comoda, tranquilla, come sempre con il cambio automatico, che era suo malgrado ancora ignara di quante miglia avrebbe dovuto sobbarcarsi in 18 giorni! Una volta fatto il controllo di danni, strisci e ammaccature di ogni sorta, carichiamo le valigie, e lasciamo l’aeroporto di Denver, sezione car pick-up @ Avis, per inoltrarci nelle strade d’America, il mio sogno da qualche mese a quella parte. Quando lasci l’aeroporto di quella città ti sembra che l’America sia una lunga, vasta, desolata pianura. Infatti, a parte le Rocky Mts sullo sfondo, non si vede altro che erba, colline e ancora erba, che è di un colore a metà tra il verde chiaro ed il marroncino, in questa stagione. Ah, e poi vedi un grosso cavallo rampante nero, con gli occhi rossi, che saluta la tua entrata/uscita dal terminal. Chissà che cazzo c’entra.
Ci armiamo di cartina, in realtà uno straccetto con sopra scritti via e numero della nostra destinazione (l’Holiday Inn di Aurora, Denver. Roba da ricconi, per la prima sera!) e prendiamo subito una strada sbagliata. Ci riporta al parcheggio long-stay dell’aeroporto. Imprechiamo copiosamente e, graziati dal parcheggiatore che ci dice che non avremmo pagato nulla, torniamo in strada. Non sto qui a narrarvi dove siamo finiti: tangenziali, forse anche highway, strade a pedaggio dove non abbiamo messo in funzione “il loro telepass”.. insomma, un macello stradale. Abbiamo girato per le strade della periferia di Denver per 1h e venti minuti. Eravamo stanchi, affamati e vogliosi di arrivare in albergo, dove ormai credo ci avessero dato per caduti in combattimento o per reclusi in una prigione di stato (non essendo il regola con l’ESTA). Ma come si sa, le vie del Signore sono infinite, e quella sera la via era nera. Non fraintendete: indico solo il colore della pelle. Ci siamo fermati infatti in una zona che col senno di poi era piuttosto vicina alla destinazione. Eravamo ad Aurora, uno dei district di Denver. Parcheggiamo davanti ad un fast-food e domandiamo informazioni ad una coppia di neri che stavano montando nel loro pick-up. Chiediamo di South Abilene Street. Il tipo prima prova a ragionare con la compagna su dove potesse essere salvo poi, mentre un italiano qualunque avrebbe detto una frase tipo “Non sono di qui, scusate” quando magari abita dall’altro lato della strada, estrarre il telefono touch screen e trovarci su GoogleMaps la destinazione. Era ancora poco. Infatti, subito dopo, facendo ciò che un italiano definirebbe perdita di tempo e generosità inaudita verso sconosciuti – un vero reato – decide di farci strada in macchina verso l’hotel. Io e Raffaella ci guardiamo, gli occhi che testimoniavano la nostra espressione allibita nei confronti di cotanta bontà, e felici come un bambino che apre la calza della Befana, montiamo in macchina per seguire il nostro inaspettato benefattore. Cinque minuti dopo ci salutava dicendoci “Take care” ed indicandoci l’albergo, la cui entrata era cinquanta metri più avanti. Un miracolo!

venerdì 5 novembre 2010

2. Il solito volo da ridere

Ad accompagnarmi nell’avventura che stavo per intraprendere c’era Raffaella, una ragazza mia coetanea che ho avuto modo di stimare molto anche solo per il fatto di aver deciso di seguirmi nel viaggio. Facevamo le elementari e le medie assieme, quando eravamo dei giovani ragazzi che volevano solo imparare a scrivere bene, e a giocare a pallone o a fare le donne adulte. Poi le nostre strade si divisero, alle superiori: chi si diresse verso la strada più congeniale alla sua persona, optando per il liceo linguistico (Raffaella), e chi si imbarcò in una nave per lui alquanto ingovernabile, fatta di remi di equazioni e di vele di algoritmi (il sottoscritto). Facilmente la prima, arrancando straziandosi il secondo, entrambi giunsero all’Università, dove la prima ebbe il buon senno di continuare per la strada intrapresa, laureandosi a luglio in Mediazione Linguistica, mentre il secondo decise bene di cambiare aria dedicandosi agli studi inutili, laureandosi nel giugno dello scorso anno, 2009, in Cooperazione allo Sviluppo. Almeno non v’era traccia di equazioni, derivate o problemi su come scende una pallina di metallo su un piano inclinato. Problemi geotermici ed intellettuali a parte, Raffaella e lo scrivente si incontrarono di nuovo in ambiente universitario, e da lì iniziarono ad uscire saltuariamente. La conoscenza di una persona basta a candidarla automaticamente a “compagna di viaggio”, da cui la mia proposta per un piacevole soggiorno nel West degli Stati Uniti, che Raffaella prese come un possibile regalo di laurea. Di lì, tutta una serie di vicissitudini e complicazioni che non sto qui a raccontarvi: una terza persona, Leonard, doveva essere del gruppo, salvo poi dover rinunciare all’ultimo. Raffaella che non passa un esame e mette a rischio la sua presenza, salvo poi passarlo in secondo appello e pronunciare, alla fine, il fatidico si, che non le avrebbe messo un anello al dito bensì un pensiero in testa: si va negli States.
Dicevo, ho avuto modo di ammirarla in quanto non dev’essere proprio così facile, per una ragazza, voler seguire un tipo con cui non si passa proprio molto tempo assieme, e che la porterà in mezzo agli orsi, ai lupi e ai coyote, tra ore di macchina in posti dimenticati da Dio nel West americano. Anzi, fossi stato io in lei, mi sarei detto di no accampando la prima scusa che mi fosse venuta in mente. (Dal manuale di Manu “Scuse per ogni occasione”, avrei detto: Scusa, devo cambiare l’acqua ai pesci ogni dieci giorni, mi è impossibile lasciarli da soli per 19!). Lei invece si è messa in gioco, senza paura, sprezzante dei rischi derivanti da bestie di ogni qual tipo e cibi di ogni fattezza.
Così, partimmo. Il viaggio si preannunciava lungo: stop a Londra dopo 2 ore di volo, trasferimento in bus da Gatwick a Heathrow in tempi che dire ristretti è un eufemismo, e volo verso Denver, dove saremmo arrivati alle 18.15 circa. Poi macchina, hotel, e l’agognato riposo notturno. Non sembrava poi così difficile, ma lo divenne. Già a Venezia, guarda un po’ te, nacquero problemi. Dopo pochi secondi di dialogo con l’addetto al check-in, mi viene detto che non sono in regola con l’ESTA. Cos’è? E’ una specie di visto elettronico obbligatorio per chi si reca negli Stati Uniti. Si tratta, in sostanza, di rispondere ad una serie di domanda cretine che nemmeno un bambino di 1^ elementare riuscirebbe a concepire, allo scopo di determinare se tu sia o meno un terrorista o un tizio che vuole andare negli USA per far scoppiare qualche bomba in Kentucky piuttosto che alla Casa Bianca. Chiaramente, chi ha concepito tutto questo meccanismo ha pensato bene di pretendere che il terrorista tipo si dichiari candidamente, e magari ti dica anche dove atterrerà di preciso e a che ora. Lapalissiano. Va da sé, comunque, che questo test idiota io l’avessi fatto, avendo cura di stamparne una copia per testimoniare la mia buona fede a chiunque l’avesse in qualche modo messa in dubbio. E così feci. Anche quel mio atto di premura però fu inutile. A loro la registrazione non risultava. Già vedevo, con il passare dei minuti, il mio sogno americano svanire. “Ecco, per uno straccetto di carta non vedrò Yellowstone!” pensavo. Anzi, a dire il vero stavo già guardando i tabelloni con i voli in partenza, pensando a che volo prendere per le mie vacanze nel caso mi fosse stato proibito l’ingresso negli USA. Stavo pensando al Sud Africa, oppure a qualche paese del SudEst asiatico. E proprio mentre ero intenzionato a dire a Raffaella che avremmo preso un volo verso Bangkok, il gentile signore mi disse che in realtà il problema era ovviabile direttamente all’aeroporto di Londra, dove avrebbero provveduto a sbrogliare la matassa. Insomma, via libera! Mandai a fanculo Bangkok e le sue attrazioni (con tutto il rispetto, anzi, credo ci sia qualcosa di meritevole anche laggiù) e mi affrettai al check-in. Solo dopo pensai che se avessimo dovuto fermarci anche a Londra, magari non avremmo perso l’aereo – speravo – ma il bus che avevamo prenotato, quello di sicuro. Sempre meglio 37 euro, che dieci volte tanto!Prendemmo l’aereo per Londra, e quel volo non riservò nulla di che. Arriviamo in terra inglese, e cerchiamo subito di recuperare in fretta i bagagli per non perdere il bus. Ci fermiamo davanti all’orologio, e al tabellone che indica i nastri per i vari voli arrivati. I minuti passavano, e noi, piantati come due pali della luce, eravamo sempre ad aspettare che comparisse il nostro maledettissimo volo. Nel mentre, vedevamo la nostra corsa sfumare: era alle 13.35, ed in quel mentre stavamo ancora imprecando, aspettando. Poco dopo, casualità, compare il nostro nastro. Subito iniziamo a correre, recuperiamo le valigie, e ci dirigiamo verso il service desk della compagnia di autobus. Fortunatamente, almeno quello, ci dicono che possiamo prendere la corsa successiva “with no additional charge”. Sollievo. Così, montiamo sul pullman in direzione dell’altro aeroporto di Londra. Non pensavo fosse così distante, anzi, non pensavo che Londra fosse così grande. O almeno, non tanto da dover necessitare di 4 aeroporti! Che storie. Il viaggio è noioso. Tra un ingorgo e un corvo, un corvo e un ingorgo, prendere sonno è facile. C’è sempre il rischio di trovarsi svegliato bruscamente dall’autista mentre sei beatamente rattrappito su te stesso con le bave alla bocca. Ma quella volta, resistetti, anche se a fatica. Arrivati, scappiamo verso il terminal, facciamo il check-in, e ci rilassiamo un po’. Anzi, un po’ poco. Siamo subito in volo verso Denver.
Per chi non li avesse mai fatti, i voli intercontinentali sono una lunga tortura alle chiappe. Quando ti alzi sembra che ti abbiano messo un chiodo nell’osso sacro. O almeno, a me capita così! Non viaggiando in Business Class, i comuni mortali devono accontentarsi si del servizio eccellente, degli schermi touch sul sedile di fronte, e di un set di coperta-eyeshades-dentifricio-calzini, ma anche di uno spazio atto alla mobilità che sembrerebbe piuttosto ristretto anche ad un bruco. E’ difficile dormire, stando quasi seduti per 9 ore, con un motore di un Boeing 787 sotto il sedere e gente che tossisce, starnutisce e ti muove il sedile a destra e a sinistra. Ma, a causa della stanchezza che dopo un po’ ti colpisce, ci si prova sempre. Ed io, dopo aver tentato di guardare “Prince of Persia” in inglese con risultati discutibili, cerco di addormentarmi. Altra caratteristica dei voli intercontinentali, è quella che il passeggero, appena si addormenta, viene puntualmente svegliato da un profumino che mette in moto il suo apparato cibario: sono le hostess che servono il rancio. Lo chiamo rancio perché, sebbene all’olfatto sembri un piatto sfornato dal primo chef premiato dal Gambero Rosso, e alla vista non sembri neanche poi così malvagio, in bocca si trasforma in una malattia. Aromi provenienti da chissà dove si mescolano nel tuo palato, mettendone a dura prova la resistenza. Il cibo sembra vivo, sembra parlarti e dirti “Mangiami e ti soffoco!”. Tu soppesi tutto quanto, poi guardi il tuo stomaco, poi di nuovo il piatto, e dici “Fanculo, ho fame!”. E mangi il rancio, fino a che, sentendoti sazio (o sufficientemente colpito da un virus letale) ti arrendi e ti dai di nuovo al sonno. Ti svegli, o almeno credi, perché in realtà sei più rintronato di prima, quando il pilota annuncia, nel suo inglese del cazzo del tipo “We’rrrr landinggffffssshhhhhhhh at thiiii Errrrrportttt ofdenvr……thetemprtur issssssabouttt……sevtifav dgriiiiiissss (75 gradi voleva dire).. tks andddddd……. Hevvv aaaaa…… gd time in Denver!”
Cioè??? Ti svegli sul serio solo per chiedergli ad alta voce “Che cazzo hai detto?? Ma le ffff e le ssshhh ce le metti apposta o sei dislessico di tua natura?” Il pilota credo sia davvero dislessico di natura. Li assumono dislessici apposta per non far capire un cazzo alla gente che viaggia. Per non fargli sapere se devono uscire con la T-Shirt della Florida o con un giubbotto in Goretex dall’Alaska. Comunque, più o meno sveglio, più o meno incazzato con il pilota, atterri, e ti ritrovi a tirar fuori il bagaglio a mano ed a scendere dall’aereo. Un sollievo. Il culo urla dolore, barcolli come un cimice che è appena stato calciato via dal bordo di un marciapiede, e raggiungi il bagno, prima del nastro dei bagagli. Poi, pesante una libbra in meno, ti avvii a recuperare i tuoi effetti.

giovedì 4 novembre 2010

1. Let him go

“Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita”. Così recita un proverbio cinese. Credo che pochi altri detti o proverbi abbiano un fondo di verità così grande. Ogni volta che metti piede in aeroporto sai che, quando ritornerai lì fra dieci, quindici, venti giorni, o fra qualche mese, sarai una persona nuova, diversa. Forse in poche cose, forse in molte, ma sarai una persona diversa. Io a dire il vero non sono partito pensando a quello. Stavo pensando solo a vedere le meraviglie a cui ormai pensavo da mesi. Stavo pensando che magari lì avrei avuto quella scintilla che forse cerco in cuor mio e che mi avrebbe fatto pensare “Cazzo, è ora che mi trasferisca qui!”. Stavo pensando che forse non sarei tornato proprio, magari sarei stato sbranato da un branco di lupi o da un grizzly inferocito. Addirittura, forse, non stavo pensando a niente, tranne che a montare in aereo e lasciare la desolata Padova, il lavoro, gli amici, e la tristissima routine quotidiana per andarmene al fresco (non in cella ovviamente) tra i monti di Yellowstone e le Rocky Mountains. O al caldo, nello Utah, terra di archi e di canyon, dei parchi di Arches e di Canyonlands, appunto. Ero carico a palla, non vedevo l’ora di attraversare, seppure a qualche migliaio di metri d’altezza, il confine che separa l’Italia dal resto del mondo. Volevo smettere di essere italiano per un po’, perché certe volte, sinceramente, essere italiano mi fa schifo. E te ne accorgi solo quando viaggi, quando vedi come ci comportiamo noi e come si comportano gli altri. Siamo degli incivili, spesso e volentieri. Quindi volevo provare ad essere un po’ americano, parlando inglese, guardando il football anziché il calcio, bevendo coca cola ogni sera e mangiando bacon e fagioli la mattina, indossando magliette con la scritta del proprio stato, dicendo sempre “you know” mentre parli, correndo con una macchina col cambio automatico e alloggiando in motel squallidi a due piani. “Tu vò fa l’americano”, come diceva la canzoncina..
Con questo spirito, partivo il 4 settembre 2010, alle ore 11.35 dall’aeroporto Marco Polo di Venezia.
Mi chiamo Emanuele e ho 23 anni. Il viaggio ha iniziato ad essere la mia passione principale da appena un anno e mezzo fa. Avevo 22 anni, e andai per la prima volta oltre oceano. Ci andai per la prima volta da solo, e ci andai per due mesi. Si, non per una settimana o due, per due mesi. Fu un’esperienza importante, che tralasciando gli studi (ero lì per svolgere il tirocinio universitario) mi regalò molte altre cose più importanti. Imparai molte lezioni di vita, lì nel selvaggio, difficile, povero ma amabile South Dakota. Vagai dal 24 febbraio 2009 al 21 aprile tra Rapid City, “The Star of the West” come viene forse un po’ esageratamente denominata lì, e la riserva indiana di Pine Ridge, che comprende alcune delle contee più povere degli Stati Uniti. La vita lì è difficile, la neve ti tormenta da novembre ad aprile, il vento soffia feroce e fa tremare le case mobili su cui vive la maggior parte della gente della riserva. Il lavoro latita, la povertà ti soffoca. E chiaramente, a rimettercene sono i nativi americani, che hanno combattuto tanto per arrivare, infine, a soffrire altrettanto la fame e la povertà. Loro però, hanno molto da insegnare. Sanno arrangiarsi, sviluppano le qualità umane, non mancano d’ingegno e spirito di adattamento, fanno proprie doti che alcuni occidentali non sanno nemmeno di avere. Catapultato in questo mondo, per la prima volta lontano da casa e da qualsiasi forma di aiuto, ho dovuto imparare ad arrangiarmi. Non che vivessi in una tenda in mezzo alla steppa per carità, ma è un’avventura che gran parte dei miei coetanei non ha fatto e forse non farà mai. E’ un’esperienza che ti cambia. Capisci cosa vuol dire frontierman, cosa vuol dire sopravvivere, adattarsi, ambientarsi, entrare in sintonia con ciò che ti circonda. Impari ad avere più fiducia in te stesso, a fidarti del motto chi fa da sé fa per tre, a capire che,seppure in una parte civilizzata del mondo c’è tanta povera gente che però non tira i remi in barca ma continua a lottare, per un futuro migliore. Sono loro i veri esempi da seguire, al mondo d’oggi. Sono loro gli eroi.
In questo contesto, mi sono innamorato del paese. Le vastità collinari che sembrano non finire mai, ammirate dalla cima di un colle sopra casa. La neve che ricopre tutto. La potenza del vento. Il sole che quando esce allo scoperto, ti fa sudare anche a metà marzo. L’immensità. Una cosa che solo chi ha visto può capire. E’ impossibile trasmetterlo a parole, esse possono solo incuriosire. Il fatto è che lì, mi sono innamorato del South Dakota. E questo, in cuor mio, mi ha fatto capire che, se anche uno degli stati più piatti e poco declamati degli USA ha scatenato in me questa reazione, il mondo dev’essere proprio una miniera d’oro che dovevo esplorare a tutti i costi. A breve distanza infatti, mi sono recato in Canada, British Columbia per l’esattezza, per immergermi nel profondo, verde nord che accompagna nella mia testa l’immagine di quella parte del paese. Poi, a maggio 2010, è toccato alla Scozia, di cui ho girato le coste in macchina, percorrendola per la sua quasi completa interezza. Infine, eccomi di ritorno negli stati uniti per il viaggio che mi sto accingendo a raccontarvi.
Perché questo cambiamento? Nel senso, perché questa malattia del viaggio di punto in bianco? Beh, non che prima amassi stare a casa in divano. Ero già stato con gli amici sulle nostre montagne, in Germania, in Spagna, e qualche toccatina in Austria e Francia. Mi piaceva già immergermi in nuove culture e nuovi scenari, ma soprattutto perché avevo gli amici al mio fianco. Ora è tutto diverso. Parto indipendentemente da ciò. I dieci giorni in Scozia ad esempio furono solitari. La compagnia per me diventa una questione relativa, in viaggio. Il posto lenisce la mancanza della gente con cui stai di solito. E poi, sai sempre che tra un po’ ritornerai. Staccarsi dal mondo in cui vivi fa solo che bene, ogni tanto. Se no, si corre il rischio di normalizzare il tutto, di rendere la vita una costante, ripetitiva monotonia. Almeno, così la vedo io. Avere qualche avventura particolare da raccontare può solo arricchire, la persona in sé e ciò che ha da dire agli altri! Ciò per cui cambiai così repentinamente dunque fu essenzialmente perché avevo scoperto che oltre l’Italia, oltre l’Europa, c’è un mondo enorme, attraente, pieno di vita. Ed ora che lo so, voglio vederlo. Io poi, impazzisco per la natura. Vi assicuro che vedere scoiattoli di trenta centimetri che corrono per le strade della città anziché topi o scarafaggi, bè quello è già una cosa che ti lascia stupito! Figuriamoci poi quando ci si alza alla mattina, si avvolge la tenda e si scopre che una decina di cervi sta tranquillamente mangiando l’erba sul prato di casa tua! Rimani sbalordito. Combinando la possibilità di immergermi in posti mozzafiato, sconfinati, incantevoli, adornati poi da una fauna diversa e maggiore rispetto a quella a cui sono abituato, ecco, ciò fece si che la mia voglia di cimentarmi nei viaggi esplose. Ora un viaggio è come una ricarica. Una droga. Ti senti bene in quel momento, ti da carica per andare un po’ avanti, anche se poi, inesorabilmente, finisce. Ma ti lascia dentro qualcosa di grande, di importante. Ai tuoi figli, ai tuoi amici, potrai raccontare degli orsi d’Alaska o dell’immensità delle pianure del Nebraska, delle altissime cascate Takkakaw in British Columbia o delle frastagliate coste scozzesi, anziché dir loro di aver vinto una gallina alla sagra di Arsego. Questo soprattutto, mi fa pensare un sacco.