Ero tornato in compagnia loro, ed ero felice. Felice come un bambino, uno che va allo zoo, perché Yellowstone alla fine, è un grande zoo a cielo aperto – senza recinzioni soprattutto. Così, partimmo per la nostra giornata. Andiamo subito a Firehole Falls. Vogliamo fare il bagno (Dowell vuole fare il bagno) ma gli viene detto che l’acqua è troppo fredda. Peccato, un tiro da matto ci sta sempre in vacanza. Ripieghiamo inizialmente verso Lower Geyser Basin. E’ un posto, come suggerisce il nome, pieno di Geyser. Yellowstone è pieno di geyser: ne detiene la maggior concentrazione al mondo. E quando entri in una zona del genere, è come entrare in un posto dove qualcuno ha lasciato marcire qualche decina di migliaia di uova. Fa impressione. Anche perché, il rumore prodotto dall’eruzione del vapore dal terreno – le fumarole sono disseminate ovunque, piccole o grandi che siano – fa da sottofondo musicale alle tue passeggiate. Si sente il continuo “sssssssssssss” del vapore che esce da terra ed inonda l’aria di un che di zolfo – giusto un che eh. Il turista qui, non deve far altro che seguire le passerelle, comode per chi ad esempio viaggia aimè in sedia a rotelle, ma che toglie quel po’ di “wild” che ci si aspetta, e snodare il suo passo nei meandri di un’ampia zona di geyser, fumarole e “pots” (pozze) d’acqua bollente. Manco a dirlo, è un posto molto rilassante, pacifico, dai colori a tratti monotoni, una scala di grigi, a tratti una tavolozza di verdi, blu e arancioni che lascia a bocca aperta. Quando il sole poi fa capolino dalle nuvole spesso compagne di viaggio lassù, il paesaggio si trasforma ed ha un’aria più allegra - meno tranquilla, ma più allegra. La gente che cammina, in lontananza, non si sente nemmeno. Le loro voci si perdono nella vastità dello spazio, e nel solito “sssssss” dei geyser, che da buoni compagni cancellano con le loro voci quelle meno opportune della massa di turisti. A malincuore, abbandoniamo il posto, non prima che io, sventuratamente, inizi con l’acquistare il primo di una lunga serie di libri. Un libro sugli attacchi degli orsi: “Bear attacks: their causes and avoidance”. Non proprio il genere di libro che una persona normale comprerebbe al suo primo giorno in terra di grizzly e orsi neri, ma ne avevo sentito parlare e non volevo farmelo scappare. Pagai 17 dollari e lo misi in macchina, deciso a non iniziare a leggerlo durante il viaggio. Scaramanzia. Ciò detto, fu il primo di una serie di libri che si sarebbe conclusa a Denver: 10 titoli. Non serve che stia qui a dirlo, il comune lettore può arrivarci da solo, fu una sfida epica farli stare tra valigia e zaino.
Per proseguire la giornata invece, decidemmo di optare per una camminata partendo da Sheepeater Cliffs, dove seguimmo lo snodarsi di un fiume fino ad un’altura dove scattammo qualche foto e ammirammo il paesaggio. Ci sono cipmunk ovunque, ghiandaie sui rami degli alberi, ed ogni tanto si scorge un rapace – hawk, sparrow od osprey che sia – che sosta sulla cima di un pino. Per strada invece, muovendoci da un punto all’altro del parco, vediamo un altro coyote, ci passa davanti alla macchina. Buon segno. Senza contare gli innumerevoli bisonti ed elk (da noi, wapiti), animali piuttosto comuni qui, arriviamo a Mammoth Hot Springs. Qual è l’attrazione di questo distretto del parco? Dei mucchi di materiale calcareo bianco ovviamente che stona parecchio con il restante colore del paesaggio: il rosso, l’arancione, il verde ed il blu. Oppure, non stona, ma macchia ancor di più la tavolozza di colori esistente, facendo sembrare il posto un costume da arlecchino di proporzioni gigantesche. Il cielo blu, il bosco verde, i tronchi marroni degli alberi morti, il bianco del calcare, il rosso che sfuma in arancione e oro dei materiali sedimentari depositati sul terreno coperto da acqua bollente. Che spettacolo cromatico! Il tutto coronato da una specie di organo fallico dell’altezza di 5-6 metri, ovviamente di calcare. Anche le tavolette del bagno lo sono, tra un po’. Simboli fallici a parte, il posto è molto affascinante. Ed è pieno di cartelli che invitano a far attenzione agli elk. Questi animali, non l’ho detto, sono delle specie di cervi. Detti wapiti, la miglior traduzione in italiano, sono un po’ più tozzi dei cervi europei ed hanno corna leggermente più grandi. Infine, sul deretano hanno una macchia di pelle bianca, a mò di mutande, che li contraddistingue. Sono animali tendenzialmente pacifici ma, come dicono ranger (e cartelli): DO NOT APPROACH ELK! – STAY AWAY FROM ELK – ELK CAN CHARGE YOU, HURT YOU AND DAMAGE YOUR CAR! Come a dire, sembrano solo carne da hamburger di classe in movimento, ma possono far male, se gli gira.
Noi stiamo relativamente a debita distanza. A parte un momento in cui, preso dalla mia solita smania di vicinanza al regno animale, cerco di acquattarmi per raggiungere un grosso elk maschio, comodamente adagiato sul giardino di una signora del posto. La gente è li che lo guarda dalla macchina, io, from Italy, che mi avvicino ala bestia con fare degno del compianto Steve Irwin di Missione Natura. Fino a che un tipo mi suona il clacson, ed io mi giro.
Lui mi dice “Stop! Don’t get closer!”
Io penso al perché di quest’esclamazione: cazzo, non è un ranger, non ho di fronte un orso, perché diavolo dovrei fermarmi a venti metri dall’animale? La risposta fu qualcosa del tipo “E’ la stagione degli amori, i maschi sono incazzosi nonché pieni di ormoni fino alle orecchie, e se ti avvicini ancora di caricherà! Quindi fermati se vuoi salvare la pellaccia!” Guardo Dowell un po’ perplesso, pensando che il tipo fosse un po’ troppo premuroso, e trovo Dowell che se la ride allegramente. Dopodichè, la signora che stava sulla parte posteriore della macchina mi dice:
“Ooh don’t care, he’s from Montana!”
Signora, la ringrazio molto per il suo sorriso e per avermi in qualche modo confortato, non facendomi sentire l’unico avventuriero pirla di Mammoth Hot Springs, ma cosa voleva suggerirmi?? Che quelli dal Montana sono particolarmente premurosi – e magari un po’ fifoni – o che sono semplicemente gente macina palle che non sa farsi i cazzi propri?
Alla fine, con la sera, arriva anche l’ora di cena. Mangiamo nel ristorante più in della città – e guarda caso quella sera dovevo offrire io.. – ed abbiamo subito un assaggio delle prelibatezze che ci avrebbero deliziato il palato per i giorni a venire. Prendo una bistecca di bisonte, con contorno di fries e pane all’aglio. E’ una carne sublime. Altro che la nostra solita, vecchia, a volte stopposa mucca del cacchio. Quella è carne! E’ morbida al punto giusto, non si rompe con un grissino ma nemmeno fabbisogna di una motosega per essere tagliata, e soprattutto, ha un gusto migliore. Non so descriverlo, mi mancano i fondamentali da chef che me lo consentirebbero, ma posso dire che è migliore! Provare per credere. (Un biglietto per New York lo si trova anche per 350 euro. Il bisonte lo trovate anche li) Il conto rispecchia la qualità del cibo, del servizio – eccellente – ed anche la pienezza del mio portafoglio. Era il primo giorno, ed avevo ancora biglietti verdi “da vendere”. Anzi, da spendere. Il conto, per cinque persone, fu di 82 dollari, la cena più costosa che un poveretto come me abbia mai offerto di tasca propria, ma ci stava. Così, con gli stomaci pieni, e la pellaccia salva, ci accingemmo a salutare Dowell, Becky e Mikayla. Fu un momento per me commovente. Sapevo che, forse, poteva essere stata l’ultima volta in cui li vedevo su questo mondo. E’ una cosa triste, che mi capita spesso di pensare, con persone che magari non vedo molto di frequente. “E se fosse l’ultima volta che lo vedo? Cosa vorrei dirle? Magari non avrò mai più occasione, che ne so, di giocare a carte con lui!”. Al di la degli esempi banali, è un argomento che mi lascia un po’ interdetto sul da farsi. Mi spiacerebbe un mondo vedere per l’ultima volta una persona e lasciarla dicendole “Ciao! E occhio agli elk eh!” – brutto deficiente – penserei redarguendomi, col senno di poi. Ma quel giorno andò meglio. Diedi loro un piccolo presente, che apprezzarono molto ed ebbero occasione di usare nel viaggio di ritorno (erano due sciarpe, ed in Montana fece freddo mi dissero), e mi profusi in abbracci e frasi di commiato. Mi dispiaceva molto lasciarli, gli sono molto legato. Ma così volle il destino, ed in cuor mio, nonostante so benissimo sarà molto difficile, spero di rivederli, lì in South Dakota o qui in Italia. Nel frattempo, mi mancheranno.
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