giovedì 18 novembre 2010

6. Vecchi amici, posti nuovi

Arriviamo nello Yellowstone ed il cielo si fa improvvisamente grigio. Ventoso. Sembra quasi possa venire a nevicare.. e così avviene. Fiocchi di neve, il 5 settembre. Sarà la prima nevicata della stagione, e noi eravamo lì, anche se avrei preferito raccontare qualcos’altro. Il tergicristallo, prima spento, inizia a funzionare a livello 2, poi 4, poi 10. Il massimo. E’ scuro e nevica, peggio di così c’è solo l’inverno, con la strada ghiacciata. Per dover di cronaca chiarisco che il sottoscritto, in modo direi scellerato, veste pantaloncini corti e t-shirt, ovviamente senza canottiera. Quel che si dice un abbigliamento consono alla situazione. Non avendo vestiti atti alla bisogna, a portata di mano, accendi il condizionatore a manetta. Poi, quando esci a fare una foto, muori congelato sul colpo per la differenza di temperatura tra interno ed esterno, che è pazzesca. Però stringi i denti, mani sotto il culo per scaldarle, e via. E la nevicata, dopo venti minuti, smette, andandosene tanto tranquillamente com’era arrivata. Ed il sole tramonta su un cielo terso colorato di azzurro, viola ed arancione, velato da qualche nuvola allungata, che fa da sfondo alle cime imbiancate degli alberi. Uno spettacolo a cui è impossibile resistere. Siamo contenti, il morale è alto, ma pensiamo che arriveremo tardissimo al motel. Erano le 8 circa, ed arrivammo lì alle 9 di sera. Infatti, complice il buio e la scarsa efficacia della segnaletica, sbagliamo strada a Madison Junction e ci sciroppiamo 50 minuti di strada in più. Stavamo andando verso Mammoth Hot Springs senza saperlo. Dove saremmo andati il giorno dopo. Alla fine però riusciamo ad azzeccare la retta via, e nell’oscurità, interrotta solo da una sottile striscia d’azzurro sopra le montagne più lontane, all’orizzonte, dov’era tramontato il sole, arriviamo a West Yellowstone. Scendiamo dalla macchina, ed il freddo ci ammazza. Io batto i denti nel vero senso della parola e non riesco a fermarmi. Sono un martello pneumatico che anziché battere sul cemento della strada, frantuma i miei stessi denti. Devo mettere una felpa, ma nemmeno con quella resisto. C’erano circa -2 gradi ed ero in maniche corte senza niente, forse posso anche capire il perché di questo freddo. Raffaella è più brava di me, forse anche aiutata da vestiti più adatti all’uopo, ed insieme, con valige al seguito, andiamo a prendere le chiavi della camera ed a ricevere un messaggio che Becky, la mia amica dal South Dakota, ha lasciato al gestore del motel: “domani mattina ci vediamo. Chiamami appena arrivate, ci mettiamo d’accordo su dove e quando trovarci. In caso vi raggiungiamo lì.” Che tesoro! Si erano già preoccupati per noi! Confortati da ciò, ci avviamo in camera, una suite che ci avevano annunciato essere risalente al 1921. Ciò voleva dire che o era vissuta e trasudante aria dei bei tempi andati, o era terribilmente sporca e malridotta. Propendevo più per la prima alternativa, ma scoprii che nemmeno la seconda era proprio così infondata. Era un giusto mix, insomma. Pareti di legno duro e pesante, stile capanna in Klondike, arredamento spartano, mobilio che poteva essere quello della casa di tua nonna, e in bagno una “comoda” vasca da bagno senza manipolo-doccia o getto d’acqua proveniente dall’alto. Una vasca vecchio stampo, di quelle in cui i vecchi cercatori d’oro immergevano le loro chiappe polverose dopo una dura giornata di lavoro, imprecando contro i calli e gli scorpioni dentro le scarpe. Lungi dal fare una cosa simile, e anzi, morsi dalla fame, decidiamo di dar fondo a parte della nostra spesa per una cena tutta speciale: Chili riscaldato in microonde servito in bicchieri di polistirolo. Un banchetto da re. L’importante però era dormire, perché la mattina seguente ci aspettava il parco. Una lunga giornata nello Yellowstone.
Ci alziamo alle 7, di modo da essere a colazione per le 8. Ci avevano consigliato il “Running Bear”, localino conosciuto li in paese per eccellere nelle colazioni. E potemmo sperimentarlo di persona, perché, col senno di poi, fu la colazione migliore del viaggio! Io presi un doppio pancake, con burro, bacon e hash browns (patate tagliate “a julienne” cotto alla piastra), con contorno di pane bianco tostato. Ebbi l’idea grandiosa di togliere il bacon dal pancake e di metterlo sul pane, così creai un paio di toast al bacon. Poi, riempii i pancake di burro e, su richiesta, di panna montata. Svuotai interamente la coppetta che mi portarono dentro i due strati di pancake, e aggiunsi come topping dell’abbondante sciroppo d’acero: il top! Una cosa da buongustai.. fu decisamente un’ ottimo modo di iniziare la nostra avventura culinaria!
Fuori era freddo, e quando finimmo colazione, dovemmo affrontare il gelo. C’era il sole, ok, ma la temperatura non lasciava di tanto lo zero. Montiamo in macchina col vetro gelato, per cui, per ovviare alla cosa, vi gettiamo acqua bollente presa dal motel. Soluzione vecchia, forse rischiosa, ma efficace! Mentre carichiamo le valige, sorpresa, ecco arrivare i nostri amici: Dowell, Becky, e Mikayla, che personalmente (parlo di quest’ultima) dovevo ancora conoscere. Non vedevo Becky e Dowell da un anno e mezzo, ma ora erano lì, in forma come al solito, con lo stesso sguardo dolce e premuroso che li contraddistingue. Sono una coppia affiatata, di mezz’età (dico sulla sessantina in realtà) da Rapid City, quasi 1000 chilometri ad est di dove ci trovavamo in quel momento. Mi sentivo così vicino ai tempi del South Dakota, della riserva indiana, dei blizzard. Che ricordi. Mi sentivo come quella sera, 24 febbraio 2009, in cui arrivai nottetempo all’aeroporto di Rapid. C’era Dowell ad attendermi. Io distrutto da più di un giorno di viaggio e una notte persa nei meandri dei fusi orari, spiaccico qualche parola in un inglese piuttosto intuitivo. Lui mi si presenta - me lo immaginavo più giovane a dire il vero - e mi porta subito verso casa sua. Erano circa le dieci, anche se a me sembravano le due di notte. Poca gente per strada – a meno che tu non sia a New York, la gente circola poco di notte in città. Dowell mi rende partecipe di un breve tour della città, a cui mi spiace dirlo ma non ero minimamente interessato. Il mio interesse era un letto comodo munito di cuscino ove poter dormire per almeno una decina di ore. Facciamo una dozzina. Rapid City prese corpo in me, nella mia mente, come una città buia di cui non mi importava un fico secco. Ma di lì a qualche giorno avrei cambiato idea: sarebbe diventata una graziosa cittadina vivibile, equilibrata tra cemento – il concrete – e il verde, che vede anche la luce diurna e di cui imparai a memoria i nomi di vie ed incroci. Ancor oggi ricordo a menadito la strada per raggiungere, da Franklin Street, Kyle, situato nella riserva indiana. (devo per dover di cronaca sottolineare che le curve, le nuove strade da prendere, partendo da Franklin, erano più o meno 4).

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