Lasciammo Mammoth alla volta di West Yellowstone, ma prima di giungervici, ci fermiamo per strada. Un bisonte, un grosso bisonte, cammina nel bel mezzo della corsia opposta alla nostra. Noi siamo da soli, non ci sono altre macchine. Ci fermiamo, io combatto una battaglia estrema contro gli obiettivi e la sacca dove tenevo la reflex per cercare di montare il 300 ed ottenere uno scatto super ravvicinato. Il bisonte però, si avvicina inesorabile. Scatto, malissimo, e poi decido di ammirare l’animale. E’ impressionante vedere una bestia di 7-800 chili, alta poco più di un cavallo al garrese (ma molto più possente), passarti a due metri di distanza, respirando in modo quasi affannoso, fissandoti con quei grossi occhi bovini ma al contempo fieri e potenti, e battendo gli zoccoli sul manto duro della strada. Non resisto, e appena mi sfila davanti, lo rincorro col 300 montato a dovere. Faccio 50 metri di corsa, Raffaella in macchina nel caso avessimo dovuto tagliare la corda a cannone, e all’improvviso il gigante si ferma, e si volta. Io mi inchiodo al terreno. Generalmente sono un tipo che disprezza distanze di sicurezza e buone abitudini nei confronti degli animali. Tendo ad avvicinarmi il più possibile. In quell’occasione.. non so, forse un senso di rispetto, di inferiorità verso di lui, mi sono fermato. Mi guardava, il collo girato in modo da potermi fissare con un occhio. Il tempo si ferma per una decina di secondi, è magico. Chissà, magari a poca distanza c’era anche un orso che stava passeggiando nella vegetazione adiacente alla strada! Poi, a rompere l’incantesimo, arriva un camper dalla nostra stessa direzione. Il bisonte gira la testa, e prosegue la sua marcia. Il camper non sembra più tanto grande al cospetto di mister Buffalo. Due pesi massimi a confronto. Una scena che puoi vedere in pochi posti al mondo, se non a Yellowstone. E’ magico.
Come il tramonto, un cielo sereno, freddo, l’aria tagliente, le stelle puntellate al blu profondo che fa da cornice alle nere montagne, stagliate in lontananza. Manca solo l’ululato di un lupo. Siamo a Yellowstone, ed è fantastico. Io, vado a letto pieno di felicità.
7 settembre. Sveglia alle 6. Temperatura meno 2 gradi. Voglia di alzarsi, 0. Basta numeri. Ci alziamo e stop, intorpiditi e rattrappiti. Combattiamo quel brusco contrasto che si prova nello smettere di sentire il caldo trasmesso dalle coperte e, anzi, provare il freddo del resto dell’ambiente. Ci si scalda presto facendo del movimento, agitando un po’ le braccia, e ovviamente infilandosi lestamente qualche maglia pesante. Le mie in realtà erano sempre quelle due, un dolcevita nero ed una felpa nemmeno troppo spessa. Se il freddo era acuto, il rimedio consisteva in una t-shirt sopra il dolcevita. Un po’ poco forse per il clima del nord Wyoming. Se avessi saputo che avrei incontrato un clima del genere, un maglione in più forse l’avrei messo. Ma, col senno di poi, a qualcosa è servito tutto ciò: mi ha dato una maggior resistenza al freddo, e non sto scherzando. Dopo un po’, ci fai l’abitudine, e a casa magari smetti di uscire col maglioncino sulle spalle nelle serate estive un po’ più ventilate. Bene così.
Dopo esserci messi in moto fisicamente e psicologicamente, anzi, più che messi in moto, direi scongelati, ci avviamo verso il compimento della nostra missione delle 6.45 del mattino, ovvero avvistare wildlife nel parco. E’ risaputo che le ore migliori per l’avvistamento degli animali in un qualsiasi ambiente naturale sono l’alba ed il tramonto. Con il favore dell’imbrunire, la fauna esce dalle foreste per cercare cibo dove durante il giorno sono in circolazione troppi esseri umani. Così, una strada che alle 12 è trafficata da decine di macchine al minuto, alle 6.30 o alle 19, anche se non troppo meno trafficata, viene invasa pacificamente da elk in cerca di buone pasture ai lati della carreggiata o viene percorsa da un orso che si dirige verso il ruscello adiacente. Questo era ciò che cercavamo, questo era ciò per cui la mattina si sfidava il freddo. Quel giorno però, a parte un’alba veramente incantevole, con un sole caldo e pienamente arancione che sorgeva dal terreno montuoso e cosparso di erba secca, non vedemmo molto. Solo un branco di wapiti che faceva singhiozzare il traffico lungo la strada, occupandola a tratti per attraversarla. Degli wapiti però, non valevano certo la perdita delle mani a causa del freddo, quindi decidemmo di puntare altrove. Tipo a Canyon Village, dove avremmo anche potuto trovare un posto dove aggreppiarci. Non trovando altro di particolarmente interessante lungo la strada, eccetto per tre guys (in questo caso bisonti) che camminavano solitari nel mezzo di una steppa dorata, andammo direttamente alla nostra mangiatoia. Mangiammo al centro visitatori, anzi, al locale adiacente ad esso, un posto richiamante una tipica tavola calda americana: sgabelli disposti lungo banconi sistemati a ferro di cavallo, dove per ognuno dei ferri (horseshoe, in lingua madre) servivano due camerieri, come sempre simpatici, svegli e gentili. Le cucine erano posizionate a breve distanza, cosa che ci permise di vedere le quantità industriali di patate e uova pronte ad esser trasformate in hash browns, scrambled eggs, o in guarnizioni per chissà quale tipo di toast. Un posto insomma, che non può mancare di farti venir fame. Il menù è, come in tutti i posti, adescante: colorato, lungo, dai prezzi modici e dalle tante offerte. Prendi due paghi uno, prendi questo e aggiungi gratis quell’altro, paghi tot e scegli 4 elementi tra quelli sotto elencati, free refill. Uno insomma, o è del posto, o ci mette all’incirca 5 minuti per tradurre tutto, 3 minuti per valutare le diverse offerte, 6 minuti per scegliere cos’è più allettante per i propri gusti, 3 minuti a mettere insieme tutto ciò che ha pensato, e due minuti per capire come esprimersi al meglio con il cameriere. Totale: 17 minuti. Tenendo conto che il cameriere americano medio è pronto a prendere le ordinazioni in circa 4-5 minuti alla peggio, ero completamente fuori tempo massimo. E come al solito in questi casi, finisci per non valutare bene le offerte, i tuoi bisogni e i tuoi desideri. Finisci col prendere la cosa che più ti attira al primo impatto. Quel giorno ad esempio, andai sul classico: doppio toast con bacon, hash browns, poached eggs e un pancake, naturalmente con maple syrup al seguito. Una colazione piuttosto standard. Misi le patate ed il bacon nel toast, insieme all’uovo (poached è il nostro uovo “in camicia”) e mangiai avidamente. Poi fu il turno del pancake. Infine, finii le patate. Quelle sono sempre il colpo di grazia. Te ne danno in quantità indescrivibile, sembra se ne vogliano liberare. Se dai un’occhiata ai forni, vedrai credo un qualche paio di chili di patate affettate a julienne a cuocere sulle piastre, girate ogni tanto dagli addetti alla cottura, di modo che le parti direttamente a contatto con la piastra facciano una sottile crosticina marrone. Poi, inforcata una spatola che ricorda una normale cazzuola ma di dimensioni doppie, il cuoco la inserisce nel cumulo di patate, la riempie, e ne trasla il contenuto sul tuo piatto. Mentre lo guardi pensi sempre “Quel signore deve aver ordinato solo un piatto pieno di patate, è chiaro!”, salvo poi ricrederti puntualmente quando il cameriere, sorridente, ti dice “buon appetito” e ti serve questo container di tuberi cotti che ricordano come mole un piatto da tre etti di spaghetti. Purtroppo, riesci anche a sentirti in dovere di finirle, e così ti senti pieno fino alle 4 del pomeriggio, ed inizi a sentire fame solo attorno alle 5 e mezza. Così ho spiegato, e neanche tanto nel dettaglio, come un turista in america può saltare tranquillamente il pranzo.
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