E’ difficile svegliarsi un giorno e sentirsi imprigionato nella propria esistenza.
E’ difficile perché hai passato 23 anni della tua vita in questa parte del mondo, con questa gente, con questi amici, abituato a trascorrere il tempo in un certo modo, ad uscire in certi posti, a spendere in determinati modi i pochi soldi che ti passano per le mani. Hai vissuto per 23 anni della tua vita seguendo certi esempi, mirando a certi risultati, aspettandoti determinate cose dalla tua crescita, educazione e formazione. Hai studiato fino all’università, magari mantenuto dai tuoi genitori, ti sei vestito sempre alla moda, hai frequentato pub e discoteche, hai agognato i 18 anni per avere uno straccio di macchina – anzi, una Mini – e per portare con essa i tuoi amici in montagna per una settimana bianca, prima dell’inizio delle lezioni di marzo. Poi, se sei stato bravo e ti sei laureato in fretta, hai trovato un lavoro, magari non il massimo, magari non ciò che sognavi da piccolo, ma hai 23 anni e tanta voglia di fare, sarai in tempo a cambiarne quanti ne vuoi, pensi. Insomma, hai vissuto felicemente e spensieratamente la tua giovane esistenza, ti sei istruito in tempi rapidi, e sei diventato parte del mondo lavorativo senza dover elemosinare un lavoro da pezzenti pur di essere un minimo indipendente dalla tua famiglia. Non devi ripiegare le camice che i clienti spiegano e provano nei centri commerciali, non devi pulire il pavimento dello Spizzico, non devi tantomeno pulire cessi per guadagnare due soldi e spenderli il sabato sera con gli amici, rompendo loro le palle per uscire perché quello è l’unico momento della settimana in cui puoi.
Hai tutto, o quasi. Amici, lavoro, e, fino a quando i tuoi ti accetteranno in casa, anche un tetto.
Ma, come detto, un giorno ti svegli e ti senti imprigionato in un’esistenza che non senti più tua, che non ti soddisfa più, in cui ogni giorno è solo un lungo, stancante, arrancare verso quello successivo, in vista di un traguardo che chissà, forse non vedrai mai, un po’ come un uomo, nel deserto, cerca invano una pozza in cui abbeverarsi, trovando solo miraggi e mai la vera fonte.
Un po’ come indossare per tanto, tanto tempo un abito, e provarlo un bel giorno rendendosi conto che non va più bene. Ma come? Dopo così tante avventure insieme, dal giorno alla notte, non va più? Sono sicuro che forse, sotto sotto, anche prima non fosse proprio così.. così fit?
E’ quello che mi sono chiesto anch’io, perché quello che ho detto finora rispecchia il mio stato d’animo.
Non sono, in realtà, completamente sicuro che questa prigionia sia una cosa recente. E’ più probabile sia radicata in eventi passati, in realtà già vissute, in momenti che solo dolci e amari ricordi possono riportare alla luce. Credo di sapere quale sia la causa del mio malessere, e che momenti andare a ricercare per vederne gli inizi. Non avrei dovuto andare in America. Lì mi sono ammalato, ammalato di America.
Dicono che chi ci vada, magari non per un viaggio di una settimana, ma per un tempo sufficiente ad entrare nella sua logica, nel suo modo di essere, finisca per amarla o per odiarla, non ci sono vie di mezzo. Io devo aver finito per amarla, perché non riesco più a starne senza. Senza pensarla, senza parlarne, senza immaginarla, senza nominarla, senza agognarla. Come una fidanzata - quella che mi ha fatto smettere di aver la voglia di cercare. La vedo nelle foto dei viaggi, nei notiziari in tv, nelle scritte in inglese (il bad English, non quello colto e raffinato d’oltremanica), nelle insegne dei MacDonald. Ogni giorno ho modo di sentire la mia prigionia italiana attuale come immancabilmente legata alla mia voglia di libertà statunitense. Ma perché?
Ecco, io non so se tutto ciò, questa overdose di America che mi è stata iniettata nel sangue da quello stesso paese, sia dovuta solamente al modo in cui – da turista – vivo le mie vacanze negli USA. Non so se la mia prigionia sia semplicemente dettata, chi lo sa, da un lavoro poco coinvolgente o poco soddisfacente dal punto di vista umano e professionale, o da un vuoto interiore che, chissà quando e come, potrebbe colmarsi. Non so se la mia sia l’ultima di una serie infinita di noie, paranoie, invaghimenti e affini che hanno tormentato - e continueranno a farlo - la mia esistenza. In poche parole, so ancora poco del male interiore che mi affligge. Una cosa che so è che voglio curarlo, ed in fretta, perché vivere così, senza una cosa che possa rendermi felice – a parte il pensare che, presto, rivedrò quel paese a me tanto caro – è abbastanza deprimente. Mi domando se ora che gli amici, il lavoro, gli svaghi di sempre, i luoghi di sempre, ecco se tutte queste cose non sanno più rendermi felice della mia esistenza, non sia veramente il caso di darci un taglio e buonanotte. D’altronde, ho 23 anni e sono ancora giovane, al mondo c’è stata gente che ha sputato in faccia a fortune maggiori della mia e che ha sopportato sacrifici maggiori di quanti (pochi) ne abbia fatti io, dunque non vedo il motivo per cui anch’io, con un minimo di coraggio, possa mollare tutto e costruirmi una nuova vita in un posto diverso, lontano da qui.
Mi ero posto, poco fa, una domanda semplice quanto terrificante, sorprendente, immobilizzante: perché? Perché tutto questo? Cosa c’è di tanto bello, di attraente, in quel paese?
Ci sono tante cose, tante quante, credo, lo siano quelle brutte. Ci sono tanti motivi per amare l’America quanti sono quelli per odiarla.
Posso dire di aver vissuto un po’ laggiù, non nella vera America, ma in un surrogato che vorrebbe, un po’ alla volta, assomigliarle. Ma l’ho girata - ancora poco, purtroppo - abbastanza per capirne l’essenza ed immaginarne il resto.
Il mio vestito, ora, non è più fit perché non ha città enormi dove puoi perderti per ore in mezzo al traffico senza capire che stai girando lo stesso isolato. Non ha gente che consuma litri su litri di benzina venduta a 50 cent al litro giusto per muovere un fuoristrada da 5000 di cilindrata per portare il bambino a football, al campo distante appena 500 metri da casa. Non ha la musica country. Non ha praterie infinite di erba che d’autunno brilla di un colore dorato, agli ultimi raggi del sole, e in primavera risplende di un verde che rende felice l’occhio di chi lo osserva. Non ha catene di fast food che riempiono intere strade. Non ha il cibo grasso e unto (ma goloso) che si usa consumare sia a colazione che a cena. Non ha gli stadi da football, i giocatori di football, il football, e la civilissima gente che assiste alle partite di football. Non ha un sistema di parchi nazionali così possente. Non ha gelaterie dove puoi scegliere di mettere Mars, confetti di cioccolato, scaglie di cocco e orsetti gommosi sui gelati. Non ha un esercito così grosso, potente e straordinariamente orgoglioso di sé. Non è così vasto. Non è così variegato. Non è così normale nella sua stravaganza. Non ha gente che si permette di andare via vestita da straccione senza beccarsi commenti di altra gente che pensa “Guarda che straccione quello la!”. Non è così patriottico. Non ha un barbecue in giardino per ogni casa, perché non è affatto scontato che ogni casa abbia il giardino. Non ha siti storici dove sono “sacralizzati” i campi di battaglia e dove si rievocano ogni anno battaglie appartenenti alla storia di 200 anni fa. Non ha deserti asfissianti, montagne altissime, fiumi immensi, praterie senza fine, laghi che sembrano mari, colline dolci, canyon vertiginosi, e animali d’ogni tipo. Il mio vestito, il mio paese, non è l’America. E io amo l’America.
Voglio esser libero di scorrazzare per 50 miglia senza vedere anima viva, eccetto per forme di pubblicità su cartelloni che mi indicano la presenza di un WalMart a Cooperville, 80 miglia più a Est. Voglio poter, in un giorno solo, passare alla Casa Bianca per dire “Good morning Mister President!”, entrare nel cimitero di Arlington per porgere omaggio al Generale Lee, osservare l’oceano Atlantico da un porto qualsiasi in Virginia, ed infine godermi il tramonto e la quiete di campagna nelle sue colline più occidentali. Voglio guidare con una specie di enorme bicchiere di coca cola infilato nel poggia-bibite della macchina. Voglio mangiare pollo fritto alla salsa barbecue mentre assisto, in mezzo alla folla, alla partita di football tra i Chicago Bears ed i Minnesota Vickings. Voglio avere una casa in un quartiere dove mio figlio può correre libero dagli amici, senza aver paura di essere investito da qualche pazzo mentre io sono a lavoro – perché li rispettano la segnaletica e, soprattutto, hanno un po’ di etica stradale. Voglio potermi vestire da boscaiolo, da skater, da pezzente, senza che la gente per strada pensi “Guarda che straccione quello la!”. Voglio, anzi, andare a lavoro in pantaloni beige, camicia azzurra e cravatta rossa e bianca senza che i colleghi pensano “Come si è svegliato quello stamattina?”, perché anche loro sono vestiti o come me o, usando un eufemismo, in modo ben più stravagante. Voglio vivere in un paese più gentile, più ospitale, più educato di quello in cui vivo adesso. Voglio guidare per il South Dakota, con un pick-up e un cane sul retro. Voglio parlare l’inglese e voglio che altrettanto facciano i miei figli. Voglio festeggiare il Thanksgiving Day, l’Indipendence Day ed assistere ai sondaggi ed ai polls dell’Election Day. Voglio aver la possibilità di essere a contatto con una natura grandiosa. Voglio tornare dal supermercato con borse strapiene di ogni genere alimentare – dalla pizza pollo e aglio, alle patate ripiene surgelate, alle costolette di maiale, alla rimpianta pasta Barilla. Voglio vivere in mezzo a gente cordiale, sorridente, che se ne frega degli schemi, che non è mai uguale, che non bada all’etichetta, che si comporta come meglio crede. L’America è la mia meta.
Non è tutta rose e fiori, ma o la si accetta, e la si ama, o la si diniega, e la si odia. Accetto che in un viaggio a Chicago di una settimana possa rimanere ammazzato da uno dei tanti rapinatori-killer sfornati della povertà dei bassifondi. Accetto che ogni mese di ogni fottutissimo anno, dovrò pagare (se potrò) fior di quattrini per assicurarmi l’assicurazione sanitaria. Accetto che dovrò lavorare come un mulo per guadagnare meno di quanto avrei qui. Accetto che la maggior parte delle spese del mio paese saranno volte alla guerra e all’Esercito, oppure alle lobby che ne controllano i meccanismi. Accetto che passerò dalla moneta che sta diventando quella di riferimento – l’euro – a quella che lo è stata per tanto tempo e che ora sta declinando – il dollaro. Accetto che i medicinali costeranno un sacco. Accetto che la polizia, se superi il limite di velocità, non mi manderà la multa a casa: ti arresta – perché ti vede – e ti fa anche pagare. Accetto che sarà difficile costruire una vita nuova, senza amici, senza “ponti”, senza certezza. Accetto che la mia futura casa potrebbe essere spazzata via da un tornado. Accetto che una nuova vita, in un paese potenzialmente d’oro quanto incredibilmente difficile, potrebbe essere umiliante. Accetto che l’istruzione dei miei figli sarà lacunosa quanto maledettamente costosa, se vorranno avere un curriculum degno di tal nome. Accetto tutto questo, sì, sono disposto ad accettarlo.
Sono innamorato dell’America.
E non venite a chiedermi perché io lo sia, perché io non sorrida più, perché sembra che tutto ciò che mi circonda faccia schifo. Sono disposto, previe le opportune procedure, a svegliarmi un giorno e dire “Fanculo Manu, partiamo e basta!”, ed il perché è scritto qui, è chiaro. Se volete comprenderlo meglio, vi consiglio solo questo: due settimane di ferie, una macchina, la radio accesa su una stazione country, del pollo fritto alla salsa barbecue, e tanta voglia di correre attraverso un posto fantastico e sconfinato come sono gli States. Forse ci rimarrete anche più di due settimane.
E forse dopo capirete perché il mio vestito non è più fit, perché io non sono più così felice, e perché mi è rimasta questa strana voglia di football.
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