venerdì 5 novembre 2010

2. Il solito volo da ridere

Ad accompagnarmi nell’avventura che stavo per intraprendere c’era Raffaella, una ragazza mia coetanea che ho avuto modo di stimare molto anche solo per il fatto di aver deciso di seguirmi nel viaggio. Facevamo le elementari e le medie assieme, quando eravamo dei giovani ragazzi che volevano solo imparare a scrivere bene, e a giocare a pallone o a fare le donne adulte. Poi le nostre strade si divisero, alle superiori: chi si diresse verso la strada più congeniale alla sua persona, optando per il liceo linguistico (Raffaella), e chi si imbarcò in una nave per lui alquanto ingovernabile, fatta di remi di equazioni e di vele di algoritmi (il sottoscritto). Facilmente la prima, arrancando straziandosi il secondo, entrambi giunsero all’Università, dove la prima ebbe il buon senno di continuare per la strada intrapresa, laureandosi a luglio in Mediazione Linguistica, mentre il secondo decise bene di cambiare aria dedicandosi agli studi inutili, laureandosi nel giugno dello scorso anno, 2009, in Cooperazione allo Sviluppo. Almeno non v’era traccia di equazioni, derivate o problemi su come scende una pallina di metallo su un piano inclinato. Problemi geotermici ed intellettuali a parte, Raffaella e lo scrivente si incontrarono di nuovo in ambiente universitario, e da lì iniziarono ad uscire saltuariamente. La conoscenza di una persona basta a candidarla automaticamente a “compagna di viaggio”, da cui la mia proposta per un piacevole soggiorno nel West degli Stati Uniti, che Raffaella prese come un possibile regalo di laurea. Di lì, tutta una serie di vicissitudini e complicazioni che non sto qui a raccontarvi: una terza persona, Leonard, doveva essere del gruppo, salvo poi dover rinunciare all’ultimo. Raffaella che non passa un esame e mette a rischio la sua presenza, salvo poi passarlo in secondo appello e pronunciare, alla fine, il fatidico si, che non le avrebbe messo un anello al dito bensì un pensiero in testa: si va negli States.
Dicevo, ho avuto modo di ammirarla in quanto non dev’essere proprio così facile, per una ragazza, voler seguire un tipo con cui non si passa proprio molto tempo assieme, e che la porterà in mezzo agli orsi, ai lupi e ai coyote, tra ore di macchina in posti dimenticati da Dio nel West americano. Anzi, fossi stato io in lei, mi sarei detto di no accampando la prima scusa che mi fosse venuta in mente. (Dal manuale di Manu “Scuse per ogni occasione”, avrei detto: Scusa, devo cambiare l’acqua ai pesci ogni dieci giorni, mi è impossibile lasciarli da soli per 19!). Lei invece si è messa in gioco, senza paura, sprezzante dei rischi derivanti da bestie di ogni qual tipo e cibi di ogni fattezza.
Così, partimmo. Il viaggio si preannunciava lungo: stop a Londra dopo 2 ore di volo, trasferimento in bus da Gatwick a Heathrow in tempi che dire ristretti è un eufemismo, e volo verso Denver, dove saremmo arrivati alle 18.15 circa. Poi macchina, hotel, e l’agognato riposo notturno. Non sembrava poi così difficile, ma lo divenne. Già a Venezia, guarda un po’ te, nacquero problemi. Dopo pochi secondi di dialogo con l’addetto al check-in, mi viene detto che non sono in regola con l’ESTA. Cos’è? E’ una specie di visto elettronico obbligatorio per chi si reca negli Stati Uniti. Si tratta, in sostanza, di rispondere ad una serie di domanda cretine che nemmeno un bambino di 1^ elementare riuscirebbe a concepire, allo scopo di determinare se tu sia o meno un terrorista o un tizio che vuole andare negli USA per far scoppiare qualche bomba in Kentucky piuttosto che alla Casa Bianca. Chiaramente, chi ha concepito tutto questo meccanismo ha pensato bene di pretendere che il terrorista tipo si dichiari candidamente, e magari ti dica anche dove atterrerà di preciso e a che ora. Lapalissiano. Va da sé, comunque, che questo test idiota io l’avessi fatto, avendo cura di stamparne una copia per testimoniare la mia buona fede a chiunque l’avesse in qualche modo messa in dubbio. E così feci. Anche quel mio atto di premura però fu inutile. A loro la registrazione non risultava. Già vedevo, con il passare dei minuti, il mio sogno americano svanire. “Ecco, per uno straccetto di carta non vedrò Yellowstone!” pensavo. Anzi, a dire il vero stavo già guardando i tabelloni con i voli in partenza, pensando a che volo prendere per le mie vacanze nel caso mi fosse stato proibito l’ingresso negli USA. Stavo pensando al Sud Africa, oppure a qualche paese del SudEst asiatico. E proprio mentre ero intenzionato a dire a Raffaella che avremmo preso un volo verso Bangkok, il gentile signore mi disse che in realtà il problema era ovviabile direttamente all’aeroporto di Londra, dove avrebbero provveduto a sbrogliare la matassa. Insomma, via libera! Mandai a fanculo Bangkok e le sue attrazioni (con tutto il rispetto, anzi, credo ci sia qualcosa di meritevole anche laggiù) e mi affrettai al check-in. Solo dopo pensai che se avessimo dovuto fermarci anche a Londra, magari non avremmo perso l’aereo – speravo – ma il bus che avevamo prenotato, quello di sicuro. Sempre meglio 37 euro, che dieci volte tanto!Prendemmo l’aereo per Londra, e quel volo non riservò nulla di che. Arriviamo in terra inglese, e cerchiamo subito di recuperare in fretta i bagagli per non perdere il bus. Ci fermiamo davanti all’orologio, e al tabellone che indica i nastri per i vari voli arrivati. I minuti passavano, e noi, piantati come due pali della luce, eravamo sempre ad aspettare che comparisse il nostro maledettissimo volo. Nel mentre, vedevamo la nostra corsa sfumare: era alle 13.35, ed in quel mentre stavamo ancora imprecando, aspettando. Poco dopo, casualità, compare il nostro nastro. Subito iniziamo a correre, recuperiamo le valigie, e ci dirigiamo verso il service desk della compagnia di autobus. Fortunatamente, almeno quello, ci dicono che possiamo prendere la corsa successiva “with no additional charge”. Sollievo. Così, montiamo sul pullman in direzione dell’altro aeroporto di Londra. Non pensavo fosse così distante, anzi, non pensavo che Londra fosse così grande. O almeno, non tanto da dover necessitare di 4 aeroporti! Che storie. Il viaggio è noioso. Tra un ingorgo e un corvo, un corvo e un ingorgo, prendere sonno è facile. C’è sempre il rischio di trovarsi svegliato bruscamente dall’autista mentre sei beatamente rattrappito su te stesso con le bave alla bocca. Ma quella volta, resistetti, anche se a fatica. Arrivati, scappiamo verso il terminal, facciamo il check-in, e ci rilassiamo un po’. Anzi, un po’ poco. Siamo subito in volo verso Denver.
Per chi non li avesse mai fatti, i voli intercontinentali sono una lunga tortura alle chiappe. Quando ti alzi sembra che ti abbiano messo un chiodo nell’osso sacro. O almeno, a me capita così! Non viaggiando in Business Class, i comuni mortali devono accontentarsi si del servizio eccellente, degli schermi touch sul sedile di fronte, e di un set di coperta-eyeshades-dentifricio-calzini, ma anche di uno spazio atto alla mobilità che sembrerebbe piuttosto ristretto anche ad un bruco. E’ difficile dormire, stando quasi seduti per 9 ore, con un motore di un Boeing 787 sotto il sedere e gente che tossisce, starnutisce e ti muove il sedile a destra e a sinistra. Ma, a causa della stanchezza che dopo un po’ ti colpisce, ci si prova sempre. Ed io, dopo aver tentato di guardare “Prince of Persia” in inglese con risultati discutibili, cerco di addormentarmi. Altra caratteristica dei voli intercontinentali, è quella che il passeggero, appena si addormenta, viene puntualmente svegliato da un profumino che mette in moto il suo apparato cibario: sono le hostess che servono il rancio. Lo chiamo rancio perché, sebbene all’olfatto sembri un piatto sfornato dal primo chef premiato dal Gambero Rosso, e alla vista non sembri neanche poi così malvagio, in bocca si trasforma in una malattia. Aromi provenienti da chissà dove si mescolano nel tuo palato, mettendone a dura prova la resistenza. Il cibo sembra vivo, sembra parlarti e dirti “Mangiami e ti soffoco!”. Tu soppesi tutto quanto, poi guardi il tuo stomaco, poi di nuovo il piatto, e dici “Fanculo, ho fame!”. E mangi il rancio, fino a che, sentendoti sazio (o sufficientemente colpito da un virus letale) ti arrendi e ti dai di nuovo al sonno. Ti svegli, o almeno credi, perché in realtà sei più rintronato di prima, quando il pilota annuncia, nel suo inglese del cazzo del tipo “We’rrrr landinggffffssshhhhhhhh at thiiii Errrrrportttt ofdenvr……thetemprtur issssssabouttt……sevtifav dgriiiiiissss (75 gradi voleva dire).. tks andddddd……. Hevvv aaaaa…… gd time in Denver!”
Cioè??? Ti svegli sul serio solo per chiedergli ad alta voce “Che cazzo hai detto?? Ma le ffff e le ssshhh ce le metti apposta o sei dislessico di tua natura?” Il pilota credo sia davvero dislessico di natura. Li assumono dislessici apposta per non far capire un cazzo alla gente che viaggia. Per non fargli sapere se devono uscire con la T-Shirt della Florida o con un giubbotto in Goretex dall’Alaska. Comunque, più o meno sveglio, più o meno incazzato con il pilota, atterri, e ti ritrovi a tirar fuori il bagaglio a mano ed a scendere dall’aereo. Un sollievo. Il culo urla dolore, barcolli come un cimice che è appena stato calciato via dal bordo di un marciapiede, e raggiungi il bagno, prima del nastro dei bagagli. Poi, pesante una libbra in meno, ti avvii a recuperare i tuoi effetti.

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