giovedì 4 novembre 2010

1. Let him go

“Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita”. Così recita un proverbio cinese. Credo che pochi altri detti o proverbi abbiano un fondo di verità così grande. Ogni volta che metti piede in aeroporto sai che, quando ritornerai lì fra dieci, quindici, venti giorni, o fra qualche mese, sarai una persona nuova, diversa. Forse in poche cose, forse in molte, ma sarai una persona diversa. Io a dire il vero non sono partito pensando a quello. Stavo pensando solo a vedere le meraviglie a cui ormai pensavo da mesi. Stavo pensando che magari lì avrei avuto quella scintilla che forse cerco in cuor mio e che mi avrebbe fatto pensare “Cazzo, è ora che mi trasferisca qui!”. Stavo pensando che forse non sarei tornato proprio, magari sarei stato sbranato da un branco di lupi o da un grizzly inferocito. Addirittura, forse, non stavo pensando a niente, tranne che a montare in aereo e lasciare la desolata Padova, il lavoro, gli amici, e la tristissima routine quotidiana per andarmene al fresco (non in cella ovviamente) tra i monti di Yellowstone e le Rocky Mountains. O al caldo, nello Utah, terra di archi e di canyon, dei parchi di Arches e di Canyonlands, appunto. Ero carico a palla, non vedevo l’ora di attraversare, seppure a qualche migliaio di metri d’altezza, il confine che separa l’Italia dal resto del mondo. Volevo smettere di essere italiano per un po’, perché certe volte, sinceramente, essere italiano mi fa schifo. E te ne accorgi solo quando viaggi, quando vedi come ci comportiamo noi e come si comportano gli altri. Siamo degli incivili, spesso e volentieri. Quindi volevo provare ad essere un po’ americano, parlando inglese, guardando il football anziché il calcio, bevendo coca cola ogni sera e mangiando bacon e fagioli la mattina, indossando magliette con la scritta del proprio stato, dicendo sempre “you know” mentre parli, correndo con una macchina col cambio automatico e alloggiando in motel squallidi a due piani. “Tu vò fa l’americano”, come diceva la canzoncina..
Con questo spirito, partivo il 4 settembre 2010, alle ore 11.35 dall’aeroporto Marco Polo di Venezia.
Mi chiamo Emanuele e ho 23 anni. Il viaggio ha iniziato ad essere la mia passione principale da appena un anno e mezzo fa. Avevo 22 anni, e andai per la prima volta oltre oceano. Ci andai per la prima volta da solo, e ci andai per due mesi. Si, non per una settimana o due, per due mesi. Fu un’esperienza importante, che tralasciando gli studi (ero lì per svolgere il tirocinio universitario) mi regalò molte altre cose più importanti. Imparai molte lezioni di vita, lì nel selvaggio, difficile, povero ma amabile South Dakota. Vagai dal 24 febbraio 2009 al 21 aprile tra Rapid City, “The Star of the West” come viene forse un po’ esageratamente denominata lì, e la riserva indiana di Pine Ridge, che comprende alcune delle contee più povere degli Stati Uniti. La vita lì è difficile, la neve ti tormenta da novembre ad aprile, il vento soffia feroce e fa tremare le case mobili su cui vive la maggior parte della gente della riserva. Il lavoro latita, la povertà ti soffoca. E chiaramente, a rimettercene sono i nativi americani, che hanno combattuto tanto per arrivare, infine, a soffrire altrettanto la fame e la povertà. Loro però, hanno molto da insegnare. Sanno arrangiarsi, sviluppano le qualità umane, non mancano d’ingegno e spirito di adattamento, fanno proprie doti che alcuni occidentali non sanno nemmeno di avere. Catapultato in questo mondo, per la prima volta lontano da casa e da qualsiasi forma di aiuto, ho dovuto imparare ad arrangiarmi. Non che vivessi in una tenda in mezzo alla steppa per carità, ma è un’avventura che gran parte dei miei coetanei non ha fatto e forse non farà mai. E’ un’esperienza che ti cambia. Capisci cosa vuol dire frontierman, cosa vuol dire sopravvivere, adattarsi, ambientarsi, entrare in sintonia con ciò che ti circonda. Impari ad avere più fiducia in te stesso, a fidarti del motto chi fa da sé fa per tre, a capire che,seppure in una parte civilizzata del mondo c’è tanta povera gente che però non tira i remi in barca ma continua a lottare, per un futuro migliore. Sono loro i veri esempi da seguire, al mondo d’oggi. Sono loro gli eroi.
In questo contesto, mi sono innamorato del paese. Le vastità collinari che sembrano non finire mai, ammirate dalla cima di un colle sopra casa. La neve che ricopre tutto. La potenza del vento. Il sole che quando esce allo scoperto, ti fa sudare anche a metà marzo. L’immensità. Una cosa che solo chi ha visto può capire. E’ impossibile trasmetterlo a parole, esse possono solo incuriosire. Il fatto è che lì, mi sono innamorato del South Dakota. E questo, in cuor mio, mi ha fatto capire che, se anche uno degli stati più piatti e poco declamati degli USA ha scatenato in me questa reazione, il mondo dev’essere proprio una miniera d’oro che dovevo esplorare a tutti i costi. A breve distanza infatti, mi sono recato in Canada, British Columbia per l’esattezza, per immergermi nel profondo, verde nord che accompagna nella mia testa l’immagine di quella parte del paese. Poi, a maggio 2010, è toccato alla Scozia, di cui ho girato le coste in macchina, percorrendola per la sua quasi completa interezza. Infine, eccomi di ritorno negli stati uniti per il viaggio che mi sto accingendo a raccontarvi.
Perché questo cambiamento? Nel senso, perché questa malattia del viaggio di punto in bianco? Beh, non che prima amassi stare a casa in divano. Ero già stato con gli amici sulle nostre montagne, in Germania, in Spagna, e qualche toccatina in Austria e Francia. Mi piaceva già immergermi in nuove culture e nuovi scenari, ma soprattutto perché avevo gli amici al mio fianco. Ora è tutto diverso. Parto indipendentemente da ciò. I dieci giorni in Scozia ad esempio furono solitari. La compagnia per me diventa una questione relativa, in viaggio. Il posto lenisce la mancanza della gente con cui stai di solito. E poi, sai sempre che tra un po’ ritornerai. Staccarsi dal mondo in cui vivi fa solo che bene, ogni tanto. Se no, si corre il rischio di normalizzare il tutto, di rendere la vita una costante, ripetitiva monotonia. Almeno, così la vedo io. Avere qualche avventura particolare da raccontare può solo arricchire, la persona in sé e ciò che ha da dire agli altri! Ciò per cui cambiai così repentinamente dunque fu essenzialmente perché avevo scoperto che oltre l’Italia, oltre l’Europa, c’è un mondo enorme, attraente, pieno di vita. Ed ora che lo so, voglio vederlo. Io poi, impazzisco per la natura. Vi assicuro che vedere scoiattoli di trenta centimetri che corrono per le strade della città anziché topi o scarafaggi, bè quello è già una cosa che ti lascia stupito! Figuriamoci poi quando ci si alza alla mattina, si avvolge la tenda e si scopre che una decina di cervi sta tranquillamente mangiando l’erba sul prato di casa tua! Rimani sbalordito. Combinando la possibilità di immergermi in posti mozzafiato, sconfinati, incantevoli, adornati poi da una fauna diversa e maggiore rispetto a quella a cui sono abituato, ecco, ciò fece si che la mia voglia di cimentarmi nei viaggi esplose. Ora un viaggio è come una ricarica. Una droga. Ti senti bene in quel momento, ti da carica per andare un po’ avanti, anche se poi, inesorabilmente, finisce. Ma ti lascia dentro qualcosa di grande, di importante. Ai tuoi figli, ai tuoi amici, potrai raccontare degli orsi d’Alaska o dell’immensità delle pianure del Nebraska, delle altissime cascate Takkakaw in British Columbia o delle frastagliate coste scozzesi, anziché dir loro di aver vinto una gallina alla sagra di Arsego. Questo soprattutto, mi fa pensare un sacco.

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