I nostri, quel giorno, arrivarono in fretta e fummo subito pronti per andare a ritirare la macchina. Dovemmo prendere un autobus che faceva servizio in aeroporto per raggiungere il noleggio auto, e ricordo che fu un momento molto intenso. Ci fece salire a bordo un nero, di corporatura atletica e molto educato. Una persona che mi ricordò, all’istante, un certo Obama. E fu molto piacevole viaggiare per qualche minuto in sua compagnia, attraversando i dintorni del terminal rischiarati dalla fioca luce del sole calante dietro le Rocky, ascoltando musica americana di artisti americani. “Ragazzi, sono in America!” devo aver pensato. Sono di nuovo a casa.
Dopo dieci minuti di dialogo in cui la commessa, al solito, fa di te quello che vuole facendoti firmare cose che poi leggi con calma e per cui ti taglieresti le palle, ritiri l’auto. Nella fattispecie, una Chevrolet Impala grigio lucente che per due turistelli italiani come noi va più che bene. Una berlina comoda, tranquilla, come sempre con il cambio automatico, che era suo malgrado ancora ignara di quante miglia avrebbe dovuto sobbarcarsi in 18 giorni! Una volta fatto il controllo di danni, strisci e ammaccature di ogni sorta, carichiamo le valigie, e lasciamo l’aeroporto di Denver, sezione car pick-up @ Avis, per inoltrarci nelle strade d’America, il mio sogno da qualche mese a quella parte. Quando lasci l’aeroporto di quella città ti sembra che l’America sia una lunga, vasta, desolata pianura. Infatti, a parte le Rocky Mts sullo sfondo, non si vede altro che erba, colline e ancora erba, che è di un colore a metà tra il verde chiaro ed il marroncino, in questa stagione. Ah, e poi vedi un grosso cavallo rampante nero, con gli occhi rossi, che saluta la tua entrata/uscita dal terminal. Chissà che cazzo c’entra.
Ci armiamo di cartina, in realtà uno straccetto con sopra scritti via e numero della nostra destinazione (l’Holiday Inn di Aurora, Denver. Roba da ricconi, per la prima sera!) e prendiamo subito una strada sbagliata. Ci riporta al parcheggio long-stay dell’aeroporto. Imprechiamo copiosamente e, graziati dal parcheggiatore che ci dice che non avremmo pagato nulla, torniamo in strada. Non sto qui a narrarvi dove siamo finiti: tangenziali, forse anche highway, strade a pedaggio dove non abbiamo messo in funzione “il loro telepass”.. insomma, un macello stradale. Abbiamo girato per le strade della periferia di Denver per 1h e venti minuti. Eravamo stanchi, affamati e vogliosi di arrivare in albergo, dove ormai credo ci avessero dato per caduti in combattimento o per reclusi in una prigione di stato (non essendo il regola con l’ESTA). Ma come si sa, le vie del Signore sono infinite, e quella sera la via era nera. Non fraintendete: indico solo il colore della pelle. Ci siamo fermati infatti in una zona che col senno di poi era piuttosto vicina alla destinazione. Eravamo ad Aurora, uno dei district di Denver. Parcheggiamo davanti ad un fast-food e domandiamo informazioni ad una coppia di neri che stavano montando nel loro pick-up. Chiediamo di South Abilene Street. Il tipo prima prova a ragionare con la compagna su dove potesse essere salvo poi, mentre un italiano qualunque avrebbe detto una frase tipo “Non sono di qui, scusate” quando magari abita dall’altro lato della strada, estrarre il telefono touch screen e trovarci su GoogleMaps la destinazione. Era ancora poco. Infatti, subito dopo, facendo ciò che un italiano definirebbe perdita di tempo e generosità inaudita verso sconosciuti – un vero reato – decide di farci strada in macchina verso l’hotel. Io e Raffaella ci guardiamo, gli occhi che testimoniavano la nostra espressione allibita nei confronti di cotanta bontà, e felici come un bambino che apre la calza della Befana, montiamo in macchina per seguire il nostro inaspettato benefattore. Cinque minuti dopo ci salutava dicendoci “Take care” ed indicandoci l’albergo, la cui entrata era cinquanta metri più avanti. Un miracolo!
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