venerdì 28 ottobre 2011

"Tanta roba"

Nota introduttiva: una grande giornata anche oggi cazzo! Come sempre, di questi ultimi tempi.

Quando il telefono fa partire la mia melodia da risveglio preferita (Deuter – Lovesong from the Mountains, andate ad ascoltarla perche' merita) mi alzo, tranquillo, in pace con me stesso e non incazzato col mondo come accade nei giorni lavorativi. Stropiccio gli occhi, ringrazio lassu’ che anche oggi vedo il sole – anche se fuori e’ ancora buio pesto – e mi espongo al freddo levandomi le coperte da sopra. In poco tempo ho le valige fatte, dei vestiti indosso e sono pronto a partire. Ho lo stomaco vuoto, ed un solo obiettivo: vedere una delle famose albe di Bryce e drigermi poi a tutta velocita’ verso un posto dove aggreppiarmi per colazione. Ma intanto guido semplicemente verso Sunrise Point. Lo dice il nome, l’alba si vede da quel posto! Arrivo una decina di minuti prima dell’orario previsto per il sorgere del sole, e prendo posto tra la folla gia’ radunata in loco. L’attrazione e’ famosa e richiama molta gente. Lo si vede dal fatto che sulle ringhiere dove ieri osservavo allibito e meravigliato per la prima volta l’amphitheather, oggi non c’e’ un buchetto neanche a pagarlo. Sono tutti gia’ appostati da un pezzo, peraltro attrezzati con abbigliamento tecnico che li fa sembrare in partenza per un trekking sull’Himalaya. Io, solito turistello pezzente, in pantaloncini corti neri, maglietta di cotone a maniche corte e felpa grigia. Ah, piu’ l’inseparabile berretto verde e grigio, compagno di mille avventure sin dai tempi gloriosi e degni di fama del South Dakota. Morale della favola: saro’ stato piu’ intrepido, avro’ sfottuto gli altri vecchiardi tutti bardati, ma io intanto non vedevo l’ora che quel cazzo di sole sorgesse perche’ mi stavo ghiacciando anche i lacci delle scarpe! Credo la temperatura fosse intorno ai 2-4 gradi al massimo, oltre ad una certa brezza di cui avrei fatto volentieri a meno! Comunque, rimango intrepido e non mi faccio distrarre dalle avversita’ climatiche. Guardo il Painted desert che si tinge di qualche colore, un violaceo, un bluastro, e si stacca dalla monotonia nera imposta dalla notte. Poi, sposto la mia attenzione a destra, all’amphitheather in se’. Ai primi riflessi di luce, quando il sole deve in effetti ancora sorgere, le pareti rocciose hanno un colore quasi spettrale, chiaro, fioco. Mano a mano che il disco luminoso sale nel cielo e passa lo zenit, gli hoodoos appena sotto il margine della terra diventano rosso arancioni accesi, e contrastano con i fratelli neri, quelli non ancora illuminati dalla luce solare. E’ questione di minuti pero’, affinche’ tutto il Bryce, tutti gli hoodoos, godano di un po’ di luce e si tingano di molteplici fantasie tra il rosso e il giallo. Sono spettacoli quasi effimeri. Dopotutto, credo che gli spettacoli effimeri siano quelli che ci attraggono di piu’, quelli che piu’ ci affascinano. Che gusto c’e’ a fissare una montagna per ore e ore? Ma una volta che ci mettiamo di fronte ad una palla infuocata che sorge, e per pochi minuti colora di tinte surreali un posto, allora ogni nostra barriera si abbatte e la nostra felicita’, la nostra ammirazione, scorrono senza frontiere. What a feeling! Non mi trattengo molto solo perche’ altrimenti rischierei seriamente un ritorno all’era glaciale, e preferisco quindi battere in ritirata con le mani in tasca verso la macchina, dove accendo per la prima volta il riscaldamento, anche se basso. Ecco, la guida al mattino, con le strade ancora semi deserte, quella sensazione di freddo data dalla temperatura in se’ e dai colori che si vedono fuori, e magari un po’ di riscaldamento acceso.. tutto questo da un piacere inpagabile secondo me. E’ come essere in pieno inverno, in montagna, seduti in poltrona davanti al caminetto, col fuoco acceso. Magari non proprio cosi’, pero’ la sensazione piacevole ci assomiglia! Guido piacevolmente verso una buona colazione. Piano piano io mi scaldo, e mentre faccio benzina mi tolgo una felpa e spengo l’aria calda. Ormai sono le 8 mezza ed il giorno e’ avviato! Mentre guido verso un paese degno di esser apostrofato cosi’, penso tra me e me che vorrei tanto far colazione in uno di quei diner da campagna in cui lo spazio e’ poco, ci si siede sugli sgabelli al bancone, e le cameriere hanno occhi solo per te, e ti coccolano sempre portandoti caffe’ caldo ogni 2,5 minuti circa e domandandoti ogni 1,5 se necessiti di qualche altro genere alimentare. Uno di quei posti dove ti senti a casa! Non l’avessi detto. Mi trovo a guidare il mio veicolo attraverso la Main di un paesino chiamato Hatch, credo un centinaio di anime e pochi business. Vedo un insegna che riporta scritto “Diner”, butto la macchina a sinistra e scendo. Sono aperti, dunque non vedo perche’ non entrare. Anzi non ci vedo proprio e tiro dritto oltre la porta d’ingresso. L’ambiente e’ piccolo, accogliente, familiare. Non faccio nemmeno a tempo a posare le mie onorevoli chiappe al bancone che il tipo mi riempie subito la tazza con abbondante caffe’ americano e mi chiede se desidero altro. Lo congedo e gli chiedo solo del tempo per meditare sul menu (in Italia non funziona cosi’. Se in ogni bar venissero aggressivi ma simpatici per depositare litri di caffe’ sulle tazze di ogni cliente, i baristi farebbero miliardi! E i peoci non andrebbero piu’ in nessun bar). Poco dopo decido di andare per un toast con uovo, bacon ed american cheese – scopriro’ quanto questo formaggio sia delizioso! – e le solite hash browns da contorno. Mentre l’ordine viene passato in cucina, ovvero al muro di fronte a me, perche’ la cucina e’ praticamente a vista e la cuoca mi guarda con circospezione, l’avventore mi pone varie domande: da dove vengo, cosa mi porta ad Hatch, che giro sto facendo, ecc. Parliamo beatamente mentre io sorseggio il mio caffe’ allattato (allungato con latte) e riprendo calore. Vedete, queste cose, questi posti, non esistono nelle citta’ tipo LOS ANGELES MERDA. No, zero, nada. Li solo traffico, confusione, locali impersonali, privi di quel calore e di quel senso di “familiare” che puoi trovare solo nelle zone country, di campagna. Io adoro questi posti e questa gente. Come canta una canzone country:” These are my people!” Finalmente poi arriva sul bancone il mio piatto, che con costanza spazzolo avidamente e deliziato. La padrona intercetta il mio sguardo, capisce, e mi chiede “Ancora fame?!” Io replico “Be’, a dire il vero sento ancora un languorino..” E getto lo sguardo sul menu, pronto a scegliere gli Homemade biscuits with gravy. Al sentire la mia scelta, la cuoca esclama incredulita’. “Sei sicuro?! Guarda che e’ tanta roba!”, mi dice. Ma io sono oramai un guerrero impavido, che non teme i colpi del fritto o della caseina, del lattosio o delle proteine. Do il via libera per l’ordine. E arrivata la merce, inizio a farla fuori. Completo 3 biscuits su 4, e avanzo buona parte delle altre hash browns di cui proprio non riesco a liberarmi (sono onnipresenti, mangio piu’ patate di un irlandese). Alla fine di questa colazione, che potra’ sembrarvi durata ore – e prima o poi lo diventeranno cosi’ lunghe, le mie colazioni – saldo il conto, saluto cordialmente gli avventori e mi avvio verso il parco di Zion. Al solito, con il mio personal airbag sullo stomaco. L’entrata lascia presagire un cambiamento repentino del paesaggio. Lo Zion Canyon (Zion e’ una parola che sta per “Eden”,”meraviglia”) e’ uno dei pochi canyon che si visitano da sotto. Lo si fa prendendo dei comodi e regolari bus-navetta che partono ogni 15 minuti sia dalla limitrofa cittadina di Springdale che dal Watchman campground, che assieme al South Campground forma la struttura di ricezione turistica piu’ vicina ai confini del parco. Sebbene innumerevoli hotel, motel e lodge si trovino a cento, duecento e oltre metri di distanza in Springdale. Il canyon, che viene visitato da Sud a Nord, e’ una stretta vallata verde dove scorre verde il Virgin River, che e’ accompagnato ai suoi lati da un’altrettanto verde vegetazione, ed e’ riparato da imponenti vette di sandstone, un materiale formato dalla compattazione di strati su strati di sabbia, che attualmente risultano essere tra le piu’ alte al mondo. Intendo, tra i monoliti di sandstone piu’ alti del mondo. La geografia cromatica e’ molto semplice: cielo blu, rocce rosse, vallata verde. Il quadro e’ fantastico anche solo a prima vista. Inoltre, Springdale e’ una bellissima e accogliente cittadina. Non si e’ trasformata nella classica trappola per turisti, pur contando decisamente tante strutture di lodging e dining, ma ha piuttosto mantenuto l’aspetto di una tranquilla e pulita cittadina del sud-ovest montano. Idilliaca. Mentre guido le prime miglia nel parco, noto la possenza delle vette circostanti. Le strade su cui si guida sono rosse tendenti al viola, e sembra siano un tutt’uno con i piedi delle colline adiacenti ad esse. Arrivo al centro visitatori vicino al campeggio, lascio la macchina al sole e presi i miei effetti ed il mio zainaccio, parto. Chiedo le solite informazioni al solito ranger, un arzillo vecchietto stavolta, e prendo la navetta. Una cosa diversa da altri parchi, che apprezzo molto, e’ la voce registrata che non solo elenca le fermate lungo la strada ricordandoti dove diamine ti trovi, ma narra fermata dopo fermata la storia e gli elementi caratteristici del parco, dando al turista una buona infarinatura di base. Io mi fermo subito a Zion Lodge e parto verso le Lower&Upper Emerald Pools per scaldarmi le gambe e vedere i primi assaggi di Zion. Avevo visto, dall’internet, che le pools sono un posto piuttosto scenico, con cascatelle, pozze color smeraldo e begli scorci sulle montagne circostanti. In realta’ la camminata mi delude, non fosse per un passaggio sotto una parete rocciosa, passando dietro ad una cascata purtroppo quasi secca. Ma comunque bella. Compio il tragitto in breve tempo e sono subito in strada. Faccio il tragitto in navetta fino alla fermata successiva, e decido che e’ giunto il momento di iniziare a far sul serio: punto Angel’s Landing. L’orologio segna l’ora in cui nessuno ti consigliera’ mai di partire per una camminata, a meno che non ti trovi al polo Sud. Sono le 13. La camminata e’ segnata per un tempo di circa 4 ore. Parto gagliardo e supero una masnada di gente, come uso fare di solito (non per tirarmela). Guardo parecchio per terra, per non rischiare di mettere il piede in fallo e rovinare al suolo, ma quando alzo lo sguard vedo spettacoli poco affascinanti e anzi piuttosto raccapriccianti. Ad esempio, i giappi. Non ci crederete, ma vedo una coppia che, scendendo, alle 13 del pomeriggio di un assolato giorno di fine settembre (sempre estate nel sud dello Utah) indossa: pantaloni impermeabili neri e lunghi, felpa e giacca a vento a collo alto, nera ed impermeabile, guanti ovviamente neri e cappello, manco a dirlo, ROSA. No sto scherzando, e’ nero anche quello! In pratica, una coppia di zorri senza mantello e dalla parlata asiatica che al posto del sergente Garcia potrebbero chiamare il sergente Matsuto. Brutta visione. Forse mai quanto quella di ragazze che, forse non consce di cosa le aspetta, salgono (e scendono) in semplici infradito. Pazze scriteriate. Credo che al mio posto, il mio tecnico cugino Barzy (A.L.) sarebbe inorridito. Lui che anche per una semplice scarpinata ad Asiago non lascerebbe nulla al caso, vedendo questi obbrobri tecnici rischierebbe l’infarto. Io che sono equipaggiato con le mie brand new trekking shoes salgo col passo di un camoscio ed inizio a sudare cospicuamente, sotto un sole che non perdona. Seguo la pista che si inerpica sul lato di quella specie di “dente” che e’ Angel’s Landing, facendo un continuo zig-zag, una volta all’ombra e una volta al sole. Per fortuna, veramente, che ho il mio cappello di paglia. Mi sta davvero parando il culo ultimamente. Arrivo finalmente ad uno spiazzo sabbioso, dove trovo un assembramento di gente che mi suggerisce la fine della pista. Non trovo nulla di scenico, di cosi’ bello, ed il motivo e’ presto detto: non e’ la fine. Dannazione. Mi mostrano la via, e mi inerpico per l’ultimo tratto. La salita verso Angel’s Landing, un giro che conta 8 km round-trip, non e’ cosi’ difficile di per se’. La difficolta’ e’ data dal fatto che gli ultimi, diciamo, 2-300 metri si compiono in ferrata e perennemente esposti da un lato. Si sale tenendosi alla corda di ferro, ma per i piu’ intrepidi come il sottoscritto e’ un optional. Si sale di slancio e si ammira il maestoso salto verso il basso. Certo che con lo zaino e’ tanta roba. Arrivo alla fine della cresta con i muscoli gia’ andati, ma la gente mi avvisa che non ci sono ancora, che sono solo “almost there”, quasi li’. Impreco copiosamente. Con i quadricipiti a pezzi, salgo le ultime scale. La ferrata non e’ un sentiero che sale piano verso la cime, e’ un insieme di massi e crepe su cui bisogna salire a mo’ di scala, sforzando i muscoli delle gambe in modo atroce. Lo zaino acutizza le sofferenze. Sfinito, arrivo sulla vera cima sollevandomi con le braccia attaccate alla corda, per risparmiare le gambe. Il sole vuole darmi il colpo di grazia, e lo spazio non gioca a mio favore perche’ ogni albero e’ occupato dalle persone – notate che gli alberi in cima sono 4 o 5 e sono alti due metri. Mi arrangio a modo mio e mi butto all’ombra di una protuberanza della roccia, scomoda ma efficace come riparo dal sole. Bevo, e mangio energia (ovvero, barrette e fluidi energetici). Lo sforzo e’ stato importante, ma il risultato ottimo: 52’ per guadagnare la vetta! Sono contento di me stesso, e ammiro un po’ piu’ rilassato la spettacolare vista che si gode da quassu’. La Zion valley si apre maestosa verso sud, incastonata tra due lati di imponenti catene di sandstone. Immediatamente sotto di noi, un ansa del Virgin river fa un effetto “horseshoe” notevole, e mostra dei puntini bianchi che corrono sulla strada, le navette. A nord, la valle che si stringe fino a “the Narrows”, la fine della valle percorribile. Respiro a pieni polmoni, per recuperare e per assaporare questi bei momenti. Vengo poi fermato da una tipa, che scopro chiamarsi Karyl, che mi chiede di farle una foto e che si offre gentilmente di farmi una foto. Colgo l’occasione al volo, visto che sara’ una delle rarissime occasioni in cui potro’ comparire in una foto! (Non che mi interessi molto in realta’ esser nelle foto. Vedete, io ormai, nonostante un passato di questo genere, sono assolutamente contro alle persone maledettamente EMO da comparire in ogni cazzo di foto, davanti a tutto e a tutti. Un po’ giappi, no?! Nel senso che, alla fin fine, non conta un cazzo arrivare a casa e dire agli amici, ai familiari “Questo sono io davanti alla Torre Eiffel, questo sono io davanti a London Bridge, questo sono io davanti a Grand Canyon”. Che minchia me ne frega di vedere TE davanti a Gran Canyon scusa?! Un ricordo dirai?! Ma che ricordo e’!! Il ricordo di un posto lo si porta nel cuore, non in una foto. Quella, lasciatelo dire, e’ una cazzo di foto rovinata.) Sbrigate le formalita’ fotografiche, iniziamo a parlare del piu’ e del meno, come si fa sempre. Karyl, originaria di Las Vegas, sta a Salt Lake City per studio. Mi racconta un po’ di Vegas, mia prossima meta. Ci salutiamo dopo un po’, non prima di esserci lasciati un recapito per scambiarci le foto fatte, e prima l’una poi l’altro ci avviamo a ritornare indietro. Io ritorno con macchina fotografica in mano e piuttosto di corsa, all’inizio, il che mi fa sentire un po’ una specie di freelancer (magari inseguito da un leone di montagna!) Lungo la strada ritrovo Karyl, quindi continuiamo a scendere assieme. Torniamo a parlare di questa e di quella citta’, di cosa vorremmo fare, dei viaggi. E quando raggiungiamo un suo amico che la aspetta allo spiazzo che poco fa mi aveva ingannato, ci riposiamo un po’ all’ombra scambiando altre due parole. E poi, grato per questo piacevole diversivo, li saluto e riparto. Mentre scendo mi meraviglio di come qui la gente sia aperta, cordiale, socievole. Da noi non e’ cosi’. Io ho sempre la sensazione, parlando con sconosciuti, che stiano pensando “Chi cazzo e’ questo cretino che mi importuna?”. Qui non e’ cosi’, sara’ il clima rilassato del viaggio, sara’ l’aria magica di questi posti, o sara’ piu’ semplicemente che gli americani hanno una marcia in piu’, e scusate se lo dico da italiano. Amo questa gente, e in questi giorni, grazie a loro e a tante altre persone, sto vivendo momenti magnifici. Corro con rinnovate energie fino alla fine della pista. Anzi, quasi fino alla fine. Poco prima infatti mi trovo a pochi metri dal fiume, verde, limpido. Fresco. Io ho un caldo mannaro. Sento le braccia infiammate e le vedo rosse. Non ci vedo piu’, e decido di tuffarmi in acqua. Cammino la mia strada verso l’acqua. Mi viene in mente che non ho il costume con me, ma non importa. Mi buttero’ in mutande, che sara’ mai! E cosi’ faccio. Arrivo, mi tolgo tutto, ammucchio i miei effetti sopra lo zaino e li copro dal sole con un cappello di paglia. Sembra la tomba di un contadino. Io mi lancio in acqua. CHE SOLLIEVO MEEEN!! Sento la vita fluire su di me. L’acqua fredda tonifica e la vista, immediatamente sopra, della torre di Angel’s Landing, pure. Non c’e’ nessuno in giro. Fa un po’ Into the Wild. E magari, Dio solo lo sa, un giorno potro’ provare le stesse sensazioni facendo un bagno in Alaska. Mi godo quei brevi attimi di freschezza, esco dale acque con le mie mutande bagnate e mi asciugo un po’ al sole e un po’ con una maglietta bianca sudata che mi ero tolto (nota dello scrittore: quella maglietta non sarebbe mai piu’ tornata al candore iniziale. Innumerevoli aloni di terra rossa l’avrebbero segnata per sempre). Qualche minuto dopo sono di nuovo in marcia, poi in navetta, e poi all’inizio della breve camminata che conduce a The Narrows. Questa “cosa” altro non e’ che la fine del canyon normalmente percorribile, e l’inizio di un percorso che la gente puo’ fare previo noleggio di attrezzatura tecnica, seguendo il corso stesso del fiume. Si cammina sul greto del torrente e lo si risale, arrivando addirittura a nuotare in pozze profonde facendo galeggiare lo zaino, per poi arrampicarsi sui salti che il fiume naturalmente fa. Un percorso che porta belle emozioni e luoghi quasi surreali, come la fantastica “galleria” scavata nella roccia chiamata a ragione “The Subway”, un posto che sfortunatamente non tutti possono ammirare. Me compreso, che quindi cammino solo per il tratto accessibile del percorso. Mi basta questo, per oggi. Qualche foto, l’aria frizzante della parte ombrosa del canyon. La mia giornata attiva al canyon puo’ dirsi conclusa, e ho una forte voglia di milkshake. Ne ho bevuti pochissimi da quando son qui!! Devo rimediare ad ogni costo. Me ne torno in navetta fino in citta’, stoppo al primo posto utile, anche se non proprio una gelateria, e prendo una “cream” alla vaniglia che altro non e’ che un ghiaccio alla vaniglia. Lo prendo enorme – 24 oz, ovvero 0,68 litri – ed e’ anche buono! Momenti di fresca goduria. Momenti felici che protraggo visitando brevemente la cittadina di Springdale. Come ho gia’ sottolineato, e’ una cittadina piccola, che si sviluppa su una Main Street di un paio di miglia, con casette curate ma non eccessive, giardini verdi ma non megalomani, panchine bianche ai lati della strada, le bici dei bambini legate ai pali delle fermate del bus, la piccola chiesa bianca con poco di fianco l’ufficio postale, anch’esso minuscolo. Sembra uscita da una fiaba, da un racconto in cui si narra la faccia piu’ bella dell’America. Camminarci e’ un piacere, perche’ non c’e’ traffico, non c’e’ inquinamento, non ci sono clacson e i marciapiedi non sono dannatamente affollati come in citta’. Anche se ci sono praticamente quasi solo motel, lodge e mangiatoie, non mi dispiace. Il clima in genere, e’ magnifico. Entra di diritto tra le 10 citta’ piu’ belle che ho visto in USA, e dovro’ farci un pensierino qualora decidessi di trasferirmi in questa nazione! Mi reco al motel con ancora lo shake fra le mani, e me lo slurpo mentre parlo con la solita vecchiotta al desk. Entrato in camera non esito a farmi una doccia tonificante, e prendo fiato poi scrivendo un po’ di appunti, riordinando la macchina e le valigie, entrambi gia’ ridotti malissimo. Solite faccende. Esco presto stasera, relativamente affamato ma pressato da esigenze logistiche. Butto l’occhio sul sole che inizia a tramontare e accende i colori dei torrioni dietro alla mia stanza. Sembra che le montagne ci proteggeranno stanotte. Entro poi nella mangiatoia qui affianco, posto che non sembra male dall’aspetto e di cui non mi delude nemmeno l’aspetto della cameriera che mi serve! Mi accomodo e sfoglio la rosa delle ordinazioni. Mentre lo faccio, un tipo stravagante con una chitarra in mano improvvisa un po’ di musica country. Lo sento suonare poi, a richiesta, delle canzoni davanti a un gruppo di tedeschi evidentemente patiti di country. A un certo punto parte la piu’ toccante: “Take me home, country roads” di John Denver. Io personalmente ho la pelle d’oca mentre la melodia scorre, ed io realizzo di trovarmi nella terra del country, nel paese che amo, mentre uno strimpellatore peraltro bravissimo canta una delle melodie piu’ belle che il country mi abbia fatto conoscere. Sono commosso, e non fosse per l’ambiente, potrebbe anche cadere una lacrimuccia. Bello, bello. Alla cameriera che passa ordino una full rack di BBQ ribs, con contorno di fagioli alla texana e un bel po’ di te’, che mi viene servito sui barattoli enormi in cui le nostre mamme mettono la conserva di pomodoro. Interessante, anche se l’avevo gia’ visto fare in un posto in cui ho cenato a Banff, BC, in Canada. Attendo troppo per la media americana, credo una decina di minuti o addirittura quindici, poi mi avvento sulle ribs. Non sono il top, forse perche’ sono enormi, e ne mangio solo meta’. Finisco i fagioli, ma per le ribs non ce n’e’ piu’. Cosi’, per mascherare la sconfitta, accampo la vile scusa di un mal di pancia e batto in ritirata, pagando il conto. Mi vergogno di me stesso, anche perche’ poi trascorro del tempo a passeggio in citta’ e a far la spesa per il mattino dopo. Manu voto 3,5. In quanto alla spesa prendo un paio di barrette energetiche al cioccolato e un paio di banane. Domattina infatti ho in programma il top: Observation Point. E’ la camminata da farsi in giornata piu’ lunga del parco, 12 km a/r e un tempo raccomandato di circa 6 ore. Presuppongo di svegliarmi presto, attorno alle 6, per essere alla fermata alle 7, prendere la prima navetta ed essere alla trailhead per le 7.30. Dunque, no breakfast domani, primo perche’ i posti aperti sono n.1, e non eccezionale, secondo perche’ non avro’ tempo di digerire. Meglio sgranocchiare qualcosa di leggero in navetta e qualcosa arrivati in cima. Mi corico appena tornato, dopo aver liberato il letto dalle tonnnellate di robaccia di cui l’avevo ricoperto. Al solito, mutande e canottiera e via a letto. Qui in America credo non si abbia mai freddo. Ho dormito in varie stagioni e ho sempre trovato diversi strati di coperte nei letti. Sara’ per questo.. e anche perche’ probabilmente mi stanno gia’ sparando il riscaldamento senza che io lo possa controllare! No dai, questo lo escludo, c’e’ una specie di condizionatore (freddo pero’) che io ho spento. Quindi.. boh, quindi non lo so, non riesco a concludere questa mia divagazione sul microclima delle camere americane, vi dico solo di non portarvi pigiami, vi basteranno le mutande e la canotta che indossate durante il giorno! Buonanotte. Domattina mi trovate ad Observation Point.

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