giovedì 29 novembre 2012

Another day, in Paradise


Mentre sto camminando a pochi chilometri da un volcano che ha eruttato una settimana fa, e di cui in molti temono una spettacolare e ben piu’ grande eruzione a breve, ripenso a questo. E’ martedi’. Cos’avrei fatto fossi rimasto a casa? Uhm.. mi sarei svegliato imprecando pensando alle otto ore che avrei passato chiuso in banca a Marsango, avrei mandato a fare in culo qualche simpaticone (dico, clienti), avrei caricato il bancomat, NON sarei uscito (e se lo fossi sarebbe stato tipo “andiamo da omar a bere qualcosa”. Nnnniiiiice!) e me ne sarei andato a letto imprecando per le altre 8 ore di gabbia che mi attendevano il giorno dopo. Molto, molto interessante. Vale proprio la pena vivere cosi’ a 25 anni. Ora invece sto solo, solo camminando vicino al Mt Tongariro, un vulcano attivo sul serio. Vedo i 2500 metri di Mt Taranaki a piu’ di 120 km di distanza, inconfondibili. E mi sembra di essere in Patagonia, per le viste che ho. Suvvia, ma vogliamo mettere con lo starsene a casa, lavoro sicuro, indeterminato, vestitini eleganti e scarpette alla moda?! E chissene frega di avere amici da tutto il mondo, fare sport estremi, guidare in lungo e in largo e camminare altrettanto chissa’ dove nel mondo. Macche’, niente in confronto alla mia amatissssima Cadoneghe. La pace e la tranquillita’ della vita di TUTTI, tutti i santissimi giorni.

Ma vafanculo. Con una f sola, I’m politically correct. E con tutto il cuore.

Stamattina comunque, poco dopo il mio risveglio, mi aspettavo di essere in gabbia, piu’ che al Tongariro National Park. Dopo la notte in macchina, alle 6.30 ero in fase “get ready”. Caccio via il sacco a pelo, mi svesto e vesto con movimenti che rassomigliano quelli di una larva che si trasforma in farfalla. Mentre mi tolgo il berretto e guardo fuori dal finestrino, vedo che dall’altra parte della strada un signore sulla sessantina avanzata esce dal cancello di casa e si dirige verso di me. Anche se non ha una brutta faccia o un’espressione poco rassicurante, fra me e me penso che e’ finita. “Mi chiedera’, gentilmente, di farmi trarre in arresto alla stazione di polizia piu’ vicina senza opporre resistenza”. Mi vedo gia’ a marcire in gabbia con una ventina di altri backpackers (tedeschi) rei di aver dormito in macchina e di aver infranto la legge. La pacchia e’ finita. Questi sono i pensieri che scorrono nella mia testa mentre tiro giu’ il finestrino. E come volevasi dimostrare, proprio li’ va a parare il signore anziano, ovviamente non pensando di chiedermi consigli sul come dar da bere alle piante in giardino. “Hai dormito qui in macchina tutta la notte?”, e io, mettendo le mani avanti, replico pronto “Si, lo so che non si potrebbe ma e’ stata un’emergenza, da stupido non ho prenotato l’ostello per tempo e venendo dalle cave sono stanco morto, non ho trovato posto nell’unico che ho trovato ed ora e’ tutto chiuso, ho pensato che qui fosse un posto dove non avrei dato fastidio ecco”. Poi, anziche’ estrarre delle manette o il cellulare per chiamare la polizia, mi replica: “Ah.. beh, mi spiace perche’ ieri sera non ho notato che ti eri sistemato qui per dormire, l’ho realizzato stamattina e son venuto fuori per accertarlo, averlo saputo avresti potuto venire in casa e avere un letto dove passare la notte! Pazienza, dai, se vuoi venire dentro puoi avere almeno una buona colazione, una doccia se ti serve, e se vuoi restare la notte, non farti problemi!”

Rimango, assolutamente, di sasso.

Chi legge potra’ pensare e dire cio’ che vuole. Il solito colpo di fortuna, semplicemente l’incontro con una persona generosa, casualita’. No. Io la penso diversamente.

Vedete, ho dormito di fronte ad una chiesa, lo ricordate? Non sono uno che crede molto in miracoli, gesti paranormali che accadono cosi’ all’improvviso, persone mandate dall’alto per provvedere ai tuoi bisogni. In realta’ poi bisognoso non lo ero affatto, avevo gia’ in programma di guidare fino all’ostello dove avrei dormito la notte successiva e cucinarmi li una buona colazione. Ma vedete, c’e’ sempre un momento nella vita in cui qualcosa accade, e quel qualcosa ci aiuta ad aprire gli occhi, a vedere al di la’ della nebbia di ogni giorno. Io sto capendo tante cose viaggiando qui. E una di queste e’ che c’e’ veramente Qualcuno lassu’ che ci guarda, che ci segue, che ci aiuta e ci protegge, soprattutto se lo cerchiamo e se stiamo con lui. Oggi e’ stato come dormire vicino a Lui, e come ricompensa – anche senza aver fatto nulla per riceverne una! Il bello della gratuita’ – ecco che ti manda una persona nobile e generosa ad offrirti una colazione e della genuina ospitalita’. E’ fantastico, quasi da non credere. E’ veramente pura casualita’?! Mah.

Salta fuori che questo signore e’ un prete che lavora come cappellano nella prigione locale. Mi vengono in mente tante cose mentre parlo con lui, con sua moglie, mentre mangio le uova e il toast, il latte e cereali che gentilmente mi offrono. Arrivo alla conclusione mentre li saluto, e mentre mi danno un fogliettino con i loro recapiti, “Giusto in caso dovesse capitare qualcosa, sai che puoi contare su qualcuno qui vicino!”.

E la conclusione e’ presto detta: se devo indicare le persone che finora piu’ hanno segnato questa mia esperienza, che piu’ mi hanno aiutato, che piu’ mi hanno colpito per generosita’ e altruismo, dovessi prenderne 3, ecco, sono tutti e 3 delle persone religiose che hanno una fortissima fede in Dio. E non, non e’ un caso. Uno dopo aver avuto un rapporto affittuario-inquilino, diventa grandissimo amico e mi offre di stare da lui a gratis, mi aiuta con la posta, i locali, gli sconti. Una persona che, per dire, in una giornata di sole prende e va al lago con la Bibbia in mano, per “meditare e cercare di parlare con Dio”. Uno lo incontro come host su couchsurfing e mi offre, oltre ad un letto, una cena, una colazione ed un pranzo per il giorno seguente. Tutto, ovviamente, a gratis – come la connessione internet, del resto. Anche lui, una persona che prega per il cibo che riceve ogni giorno e per le persone che, come me, incontra sulla sua strada. Infine, uno che anziche’ chiamare gli sbirri e farmi sbattere in cella per barbonaggio o qualcosa del genere, mi apre le porte di casa sua e mi offre vitto e alloggio. Un cappellano, uno “casa e chiesa”, come si dice da noi. Casa e chiesa da noi ha un’accezione spesso negativa, vero? Troppo santerello, troppo candido, puritano. Beh, sapete che vi dico? Non e’ tutta questione di casa e chiesa qui, c’e’ anche tanta cultura, cultura buona, onesta’, altruismo, generosita’, cose che a casa non vedo o se vedo, vedo mischiata a tanto opportunismo, superbia e anche, scetticismo. Non c’e’ paragone. Ora sto in un mondo diverso, dove le pecore nere ci sono comunque, ma sono la minoranza, e sono circondate da un esercito di persone brave e pronte ad accogliere il prossimo. E se questo vuol dire essere circondati da persone “casa e chiesa”, ben venga. Adoro questo tipo di persone.

Piu’ avanti, lungo la strada, dopo una curva vedo stagliarsi all’improvviso sulla mia sinistra un imponente monte che si erge solitario, dal nulla. Non una montagna dalla cima aguzza, esile, quelle stilizzate che si vedono di solito. Questa ha la cime che la fa assomigliare piu’ ad un trapezio che ad un triangolo. E, ops, mi correggo, non e’ solitaria: dopo la curva successiva, poco piu’ a sinistra si staglia un’altra, imponente figura, che piu’ che un monte richiama alla mente un vulcano. Si, sono decisamente arrivato a National Park. E’ il nome di un paese eh, non fraintendete, non potrei mai essere cosi’ generico nell’indicare un parco nazionale. C’e’ veramente un paese che si chiama National Park, probabilmente perche’ e’ circondato da due parchi nazionali. Si, direi che la spiegazione potrebbe calzare a pennello. Anche se ricordo ancora, un mese fa, la prima volta che ci passai vicino, vidi un cartello con l’indicazione “National Park, Rd.4”. Rimasi allibito, pensai, “Come cazzo indicano i luoghi questi??! Poco generico no?!”. In realta’, dovetti correggermi. Ma fa niente. Il villaggio e’ minuscolo, a fatica un supermercato e un ufficio postale, ma sta bene. A me interessano piu’ i chilometri non asfaltati di sentieri e piste, che quelli asfaltati delle strade che conducono a negozi e cose del genere. Mi dirigo dritto al visitor center e ovviamente, avendo il Tongariro eruttato poco piu’ di una settimana prima, mi viene negata la possibilita’ di fare il Tongariro Crossing, la day hike piu’ bella della Nuova Zelanda. Provo ad indagare se alla trailhead vi sia semplicemente un cartello con scritto “Vietato proseguire oltre” o se vi siano anche dei loschi figuri addetti al rispetto di tal prescrizione. E ovviamente, mandando a banane qualsiasi mio infido piano, mi viene risposto che si, i figuri in questione sarebbero li ad aspettarmi. Bene. Vengo demandato alla camminata verso Upper Tama lake, le solite 6 ore andata/ritorno che percorrero’ nella meta’ del tempo. C’mon.

Cammino sotto il sole cocente, possente, ustionante. La mia politica non ha previsto una razione di crema solare anche sulle spalle e sulle braccia, col risultato che gia’ a meta’ camminata mi sento “un leggero bruciore” in quelle zone. Le mie braccia poi sono speciali, assomigliano a dei Ringo, marroni sopra, gialle sotto. Lungo il sentiero viaggio con la mente dalla Nuova Zelanda alla Patagonia, alla Scozia, all’Alaska. Paesaggio sublime, ispirante. E’ bello ogni tanto fermarsi per qualche secondo e girare per 360 gradi sui proprio piedi. Passare dai possenti, vulcanici quasi 2300 metri di Mt.Ngauruhoe ai meno possenti, ma decisamente piu’ massicci 2900 di Mt.Ruapehu, e infine, voltandosi verso le pianure, passando foreste, fiumi, praterie, 120 km piu’ ad ovest, perdere il proprio sguardo sulla vetta imbiancata di Mt.Taranaki, 2500 metri d’altezza. Semplicemente fantastico. Anche se non e’ come essere sull’Everest, per ora mi posso dire soddisfatto. Un giorno saro’ anche dalle parti dell’Everest, lo so. Lungo la via, supero il solito macello di gente. Mi fermo solo in cima, per qualche biscotto energetico (che ho rinominato “biscotto di Balzar”, per i cultori di DragonBall) e per iniziare il mio lavoro da fotografo. Treppiede attaccato alla camera, e via, giu’ per la montagna, a fermarsi, provare, trovare lo scatto migliore. Mentre scendo attacco bottone con un neozelandese di Auckland che mi dice che questa e’ la terza volta che prenota un tour del Tongariro Crossing, e che per la terza volta consecutiva non riesce a farlo per un motivo o l’altro. La prima era stata il brutto tempo, la seconda l’eruzione dell’agosto scorso, la terza, recente, l’ultima eruzione. Pazzesco eh? Io gli consiglio di rinunciare, dev’esserci qualcosa di losco sotto evidentemente. La cosa che mi stupisce di piu’ tuttavia e’ che, quando mi chiede da dove vengo e gli rispondo ovviamente “Italia”, lui mi risponde “Pensavo fossi americano o qualcosa del genere”. E non e’ il primo. In questi giorni mi sto molto meravigliando – e a dire il vero inorgogliendo – del fatto che diversa gente pensa che sia americano o che comunque, perlomeno abbia un forte accento americano. Non riesco ancora a capacitarmi di come un english-speaker possa confondermi con un americano, so che ho ancora un sacco da imparare soprattutto in articolazione dei discorsi e in vocabolario, ma la cosa mi da un sacco di orgoglio. Quando arrivero’ in America saro’ pronto!

La giornata, una volta completata la camminata, potrebbe dirsi completa e stupenda: notte decente, risveglio sorprendente, persone incredibili, paesaggi incantevoli, tempo pregevole. Cos’altro desiderare di piu’? Io personalmente, non riuscivo ad immaginare altro. Cosa chiedere di piu’ dopo un giorno cosi’? Direi piuttosto che solo pensare ad avere qualcosa in piu’ sarebbe maledettamente egoista, sbagliato, presuntuoso. Mi sarei accontentato di un terzo delle emozioni e della felicita’ avuta. Eppure, le vie del Signore sono infinite e anche se lungo la via ogni tanto c’e’ un dosso, una sbarra, una buca, tante, tantissime volte ci sono dei pacchi regalo grandi come case. Ecco cosa mi e’ capitato la sera. Un regalo enorme.

Una ragazza. Entrata nel mio mondo in punta di piedi, chiedendomi se stavo cercando le forbici e aiutandomi a trovarle. Non so perche’, ma da quando l’ho guardata in quell’istante, il sorriso che si siamo scambiati, tutto il resto e’ passato in secondo piano. E’ una ragazza che mentre io sistemavo le mie foto al tavolo della cena, si e’ seduta di fronte a me, e non ho visto il perche’ di non iniziare a parlare con lei. Non voglio dire del mio sguardo da pesce lesso mentre fissavo i suoi occhi, voglio dire invece che e’ stato bellissimo parlare con lei, non mollare mai uno sguardo, entrambi, condividere tante esperienze. E darci l’arrivederci al giorno dopo. Pensare di rivederla e di stare ancora insieme a lei per un’altro giorno e’ stata la miglior ninna-nanna che potessi ricevere. Sono andato a letto felice come un bambino alla vigilia di Natale.

mercoledì 28 novembre 2012

Waitomo Caves adventure


Eccetto quell’ora e mezza con Evan giu’ alle Luxmore caves, non avevo mai fatto caving in vita mia. Non posso considerare caving la solita gita del cazzo dove, con la scuola, ti portano a vedere le grotte piu’ schifose del Triveneto e addirittura in quella grotta pezzente ci passi delle ore. Quindi, con lo spirito di un novellino, ma con la voglia di Bear Grylls, mi accingevo ad addentrarmi in un giorno a meta’ tra il sereno e il nuvoloso nelle Waitomo caves. Non sono le piu’ grandi del paese, non sono le piu’ profonde, ma hanno una cosa piuttosto famosa: l’abseiling in quello che viene chiamato “Lost World”, come lo chiamarono i primi esploratori della zona, indietro al 1954. L’abseiling e’ il calarsi - imbragati propriamente - da una fune, nel vuoto. Il “Lost World”, LW d’ora in avanti, e’ l’entrata della cava (o una delle due, essendo questa dotata fortunatamente di una fine), ed e’ spettacolare. Un buco nella terra, una voragine larga circa una cinquantina di metri nel punto di massima estensione, fuori completamente ricoperto da alberi e felci, che appena sotto il livello del terreno lascia spazio alla cava, che scava la sua via verso il fondo con pareti ripide e ricoperte di muschio e verdi licheni. Le pareti della cava, dell’entrata, sono lunghe 100 metri. L’abseiling di conseguenza, si protrae per la stessa lunghezza, fino a raggiungere il fondo dove scorre il torrente. LW e’ famoso per la luce che filtra dalla superficie, che vista dal basso fa tanto “mondo perduto” in effetti, con le pareti oscure, il fascio di luce intenso, quasi palpabile, e la vegetazione che chiude la vista a qualsiasi altra cosa. Verde, giallo, e nero, questi sono i colori perfettamente discernibili dall’occhio umano. The Lost World. Non aspettavo altro, mentre mi imbragavano, mentre con goffe movenze indossavo la tuta e mi instivalavo. Mentre camminavo piu’ come una papera che come un essere umano, per raggiugnere la piattaforma di “lancio”, pensavo alle prossime 6 ore che mi aspettavano. “Let’s do it man!”

Gia’ dai primi momenti escludo di potermi salvare in caso di pericolo: non capirei un beata fava di cio’ che mi urlerebbero le guide, due piu’ o meno coetanei neozelandesi che parlano come i giovani, ovvero tendenzialmente veloce e con slang. Capisco credo il 25% di quello che dicono. Ma non importa. Mi assicuro alla fune, ascolto le istruzioni – faccio ridere l’audience composto da altre 4 persone e faccio imbiancare le guide quando chiedo piu’ o meno “Quindi se voglio andar giu’ piu’ veloce sgancio questo vero?”(praticamente scegliendo di andare all’altro mondo) – e sono pronto a calarmi. Non mi fa paura scendere nel vuoto. Mi godo semplicemente lo spettacolo. Scendere e’ tecnicamente molto facile – basta tirare la corda in su, mollarla se mi voglio fermare – e mentre mi calo assaporo le sensazioni che provarono i primi esploratori di questi luoghi. Meraviglia, stupore, annichilimento di fronte a cotanto spettacolo. Starei li sospeso con le palle spiaccicate tra tuta e costume anche per prendere il te’. Ma devo scendere con gli altri, non possiamo perdere troppo tempo qui. Siamo giu’ e siamo pronti al pranzo: un sandwich, un buon muffin e una bar, ottima. Pronto ad inoltrarmi ancora nel buio, dove scorre l’acqua, nell’ignoto. Ancora, non ho paura. Una cosa positiva c’e’ nel fare questo genere di esperienze: alza la tua soglia della paura, la soglia in cui il tuo corpo inizia a rilasciare adrenalina. Non mi sento eccitato. Molta gente ai giorni nostri e’ eccitata quando vede una mucca fuori da un recinto. O quando sale su un grattacielo. O quando monta in aereo. A me un po’ dispiace, perche’ mi priva di sensazioni fantastiche che altra gente ha, ma forse mi risparmia qualche macchia marrone sulle mutande ogni tanto. Come non mi ha praticamente toccato lo skydiving, l’entrare in una cava, dove una frana mi puo’ fottere a vita o dove una piena improvvisa puo’ far lo stesso, non mi impaurisce, non mi tocca. La vedo come una passeggiata piu’ difficile, dove mi dovro’ sporcare di piu’. E se c’e’ da scalare, da bagnarsi, da aver freddo, da tagliarsi qua e la.. facciamoci sotto, e’ solo un’altra sfida!

Dentro la cava, e’ subito qualche decina di litri d’acqua dentro gli stivalacci di gomma. Ovviamente, mentre sei con l’acqua al ginocchio o peggio ancora, alla vita, non fa molta differenza. Il brutto e’ quando devi camminare sulle rocce, o sulla ghiaia. Sembra come la pubblicita’ del Gatorade di un po’ di tempo fa, l’asfalto che ti si attacca alle scarpe. Fatichi il triplo per alzare il piede. Ma non e’ quello di cui mi preoccupo, cerco invece di divertirmi il piu’ possibile. Come con le anguille, che vivono anche qua sotto, nel torrente. Le richiamiamo con gli avanzi di qualche panino, e loro, affamate, non tardano ad arrivare. Fameliche, ti mordono il dito se indugi troppo. Mentre come giapponesi con i piccioni in piazza S.Marco ci divertiamo con le anguille a cento metri e passa sotto la superficie, ci raccontano un aneddoto. The Cow Hole. Il nome non dice abbastanza? In una piccola apertura sul terreno sotto la quale passeremo poco piu’ avanti un giorno cadde una sventurata mucca. Ovviamente, non torno’ indietro saltellando. Non torno’ indietro affatto. I primi che realizzarono la cosa furono due guide che, assieme a dei clienti, scesero la cava qualche giorno dopo. Immaginate lo spettacolo: siete in una cava per la prima volta, e vi trovate spiaccicata davanti al muso una vacca morta da giorni. Non male eh?! Ebbene, dopo il ritrovamento, qualche conato di vomito, etc, si decise di tirare su la sfortunata. Ma non ve ne fu verso: legando le 4 gambe ad una fune e usando come forza motrice un trattore, la mucca veniva su ma si inceppava su rocce e vegetazione poco prima di uscire del tutto. Dopo diversi tentativi, si decise cosi’: il trattore spinse a tutta, con l’effetto di recidere le gambe della mucca dal resto del corpo, che cadde nel vuoto ancora, per l’ultima volta. Le ANGUILLE, avrebbero fatto il resto. E cosi’, la carne della mucca servi’ altro che ad ingrassare molte, fameliche anguille che ora se ne stanno ancora, piu’ grosse che mai, sul fondo del torrente, ad aspettare il prossimo pasto. Potrebbero esser grosse, credeteci o no, come un braccio umano.

La prima “sfida” che ci si presenta e’ secondo me la piu’ difficile – che comunque in senso assoluto, difficile non e’. Siamo in una strettoia da dove io, ovviamente il primo valoroso a provare, mi sporgo verso il basso e mi tengo solo con i gomiti, posati sulle rocce ai miei fianchi. Sotto, una pozza, dove il torrente si getta. Non e’ alto, al massimo sono 3 metri. Il fatto e’ che subito davanti alla mia testa ci sono altre rocce, e non devo lanciarmi, altrimenti mi frantumo il cranio. Devo semplicemente, ma non e’ cosi’ facile, mollare i gomiti, tirarli indentro, e farmi precipitare giu’, a chiodo, dritto. Ma, ma, giustamente – troppo facile cosi’ – i nostri simpatici amici kiwi mi dicono di spegnere la luce, e cosi’ fanno anche gli altri. Mi butto nel buio, fidandomi, sperando di non muovermi in avanti per qualche strano motivo. Classico urlaccio alla Tarzan mentre cado, un grosso SPLASH, ed eccomi riemergere dale acqua scure. Oro, neanche un graffio. Si procede tra una nuotatina qua e la, amo nuotare qua sotto credetemi, con la tuta non fa troppo freddo, l’acqua e’ come quella di una Jacuzzi, sempre un po’ ossigenata, e la scena fa tanto, tanto Gardaland, giostra dei pirati. Scenario che sembra costruito col polistirolo. Poi, dopo qualche interruzione qua e la, arriva la parte che ci dicono essere la piu’ difficile. Dobbiamo scalare una cascata alta circa 3 metri, sotto una valanga d’acqua, partendo dala base, nuotando perche’ non si tocca il fondo stando in piedi. Se cadi, ritenti. Se cadi quando sei quasi a posto, caschi male di sicuro, e ti fai male altrettanto sicuramente. Ancora, mi butto per primo. La corrente pompa duro, e’ difficile solo prendere l’appiglio. Fatto cio’, e’ tutto muscolo. Cerchi di tenerti, di guadagnare un appiglio migliore, e una volta raggiuntolo, ponderi il da farsi mentre sei sballottato qua e la dai flutti. La guida mi dice, fai cosi’, fai cola’, io non lo bado e gli rispondo “Please, don’t help me!”. “Sweet man, that’s the way!”, ottengo come risposta. Come a dire che sono tagliato per il lavoro haha. Parto, un piede qua, uno la, la testa a Bear Grylls e ai suoi consigli (ma vafanculo), e un due tre sono in cima. Well done, non difficile in realta’, capisco che per molte persone puo’ essere eccitante comunque. Le ultime centinaia di metri sono piu’ o meno tutte a camminare, io cerco di spegnere la luce per assaporare di piu’ quel senso di lost, di perduto, di fioco, di spettralita’ che si respira qua sotto. Bevo l’acqua che sgorga ogni tanto dal fianco della roccia, purissima. Mi sdraio petto a terra per passare sotto rocce che mi costringono a strisciare come non ho mai dovuto in vita mia. La sensazione di non poter muovere il mento di un centimetro altrimenti la tua testa si blocca tra il terreno e un masso di qualche quintale, e’ abbastanza opprimente sapete. Infine, dopo una peregrinazione di qualche ora, ci sediamo su una roccia, grossa, e ci dicono di stenderci a mo’ di pennichella. Lo facciamo, spegniamo le luci, e come per magia, nell’oscurita’, spuntano migliaia di stelle. No scusate, vermi. I famosi Glowworms. World famous credo. E’ uno degli spettacoli piu’ incredibili a cui abbia mai assistito. E’ come un cielo stellato, ma in miniatura, e piu’ azzurro. Piu’ distinto. Piu’ avvolgente, vicino. Ti sembra di poter riconoscere delle costellazioni vermose. Tutto e’ vermoso. I glowworms sono vermetti, larve per l’esattezza, con la testa fluorescente, una luce d’un forte azzurro, che vivono per trasformarsi in farfalle, falene e procreare prima di lasciarci la pelle. Come fanno un sacco di insetti d’altronde. Ma loro sono fantastici, creano degli agglomerati, o degli insediamenti, o dei singoli puntini, nella volta della cava, a qualche metro dalla tua testa, o lontano, decine di metri prima o dopo di te, ad estendersi come un braccio, che si perde nelle oscurita’ della cava. E’ pazzesco, restiamo credo 15 minuti in silenzio a goderci lo spettacolo. Non m’importa piu’ della luce del sole, di altre stelle. Anche i vermi vanno alla grande.

Una cosa che mi piace fare quando si tratta di osservare stelle, nuvole, e vermi luminosi e cercare delle forme, qualcosa che mi ricordi una figura note, un volto noto. Anche qui, perdo interi minuti scrutando la volta celeste (e lo dico a ragione) per individuare qualcosa. A volte capitano cose grandiose, in circostanze del genere. Ed ecco, la prima cosa che vedo, e’ una specie di aquila, di uccello rapace, ali spiegate, testa in avanti. Maestoso. Girando la testa a sinistra, i miei occhi si fermano su una specie di uomo mascherato, incappucciato, che brandisce una spada sopra la sua testa. Un guerriero, un guerriero oscuro. Cazzo vuol dire?! Boh. Non so dargli un senso. Infine, infine rimango colpito di brutto. Mentre vago nel vuoto non guardo, ma vengo guardato, fissato da una faccia, la faccia di un leoncino. E’ Simba. Ricordate, il Re Leone? Quando Rafiki la scimmia disegna sull’albero la faccia di Simba? Ecco, io ho quella faccia in fronte a me, che mi fissa. E’ incredibile perche’ poco fa, giu’ nella cava, parlavamo di Re Leone, giusto pochi minuti fa. E anche li’ avevo commentato “Non lo vedevo da anni, l’ho rivisto giusto durante il volo da Melbourne diretto ad Auckland”. Un’altro caso. O, che debba diventare anch’io un re? Magari, mi risparmierebbe la preoccupazione di dormire in macchina piuttosto che in un hotel a 5 stelle. Scherzi a parte, sono contento, quasi commosso. Un leone. Un aquila. Fatti di vermi. Devo essere umile come un verme ma allo stesso tempo aquila, le ali, il volo, le nuvole. Cloud Rider. Con lo spirito e la forza di un leone. Si, e’ questo il senso, ne sono sicuro.

Usciamo dalla cava dopo 4 km, umidi, decisamente bagnati, io un po’ tagliato qua e la e ammaccato al ginocchio, ma tutto ok. Sono felice per l’esperienza fatta. Mentre cammino nel sole calante sulle solite, infinite, ondulanti verdi colline del Waitomo, mi immagino gia’ scalare le pareti di Yosemite, dei boulders giu’ a Joshua Tree, fare rafting nel Colorado, esplorare slot canyons nello Utah. Oggi non ho solo fatto caving per la prima volta, seriamente. Oggi ho buttato giu’ un portone dentro il quale voglio assolutamente entrare. Ho gia’ dimenticato come ho passato il mio tempo prima. Calcio? Tennis? No il football lo tengo ancora ma.. voglio voltare pagina. C’e’ un mondo la’ fuori di cui sapevo poco, ora mi sento in dovere di approfondirlo. Finora ho urlato di liberazione per aver raggiunto camminando la vetta di una montagna. Ora voglio farlo scalando. Voglio sentire gli spruzzi delle cascate sulla mia pelle. Voglio scendere ancora piu’ giu’, la sotto. E ho il tempo per farlo, e’ questo il bello. Dio benedica il giorno in cui ho preso quella decisione, di lasciarmi tutto alle spalle.

Piu’ tardi, in macchina, guido con le ultime luci del giorno, diretto a sud. Dormiro’ in macchina, i sogni di liberta’ in questo mondo costano quindi devo in qualche modo risparmiare su qualcosa. La bilancia credo indichi che sul cibo devo ancora perfezionare la tecnica, quindi lo faro’ sul lodging. Non so dove parcheggiare la macchina pero’: il Mc in cui mi fermo per il solito cono gelato-scrocco connessione da 0,60 cents ha telecamere 24h su 24, quindi dubito sia il posto ideale. La main street del paese mi sa tanto da gabbia all’alba del giorno seguente, troppo sgamabile. Opto per il bush. Ma quando vedo che tipo di bush mi si prospettava – oscuro, senza una piazzola decente – torno indietro. Giro su una laterale, tiro avanti finche’ non trovo una chiesa. Bianca. Mi vedo al sicuro qui, potranno esserci i vicini piu’ schifosi del mondo, ma mi sento tranquillo qui. Protetto. Scommetto che qui piu’ che in altri posti, qualcuno vegliera’ su di me stanotte. Parcheggio la macchina, tiro fuori sacco a pelo e cuscino, e mi metto a dormire.

Non corro pericoli, stanotte, lo so. E per questo prego, soprattutto stanotte, per dire grazie per un’altra, grandiosa, giornata.

domenica 25 novembre 2012

Rotta a Nord-Ovest


Ogni tanto guidare e’ l’unico modo che hai per assaporare appieno cio’ che una terra ha da offrirti. Certo, sedentario, magari un po’ monotono, costoso: tutto ci sta. Ma stamattina, mentre lasciavo Napier attorno alle 8 del mattino, credo proprio fosse il modo migliore per gustarsi al massimo le colline che circondano la zona. Partito a tutta birra per arrivare a Rotorua, circa 360 km a nordovest, ad un orario decente per concedersi un po’ di chillout, quasi rimango deluso appena al di fuori della citta’. Cio’ che vedo – e cio’ che avrei visto per l’ora e mezza seguente – non e’ altro che un susseguirsi di verdi, verdissime colline ricoperte da pecore e qualche albero, e tra quei “qualche alberi”, altre pecore. La strada e’ “winding”, e non mi permette, forse per mia fortuna, di correre chissa’ quanto veloce, anche se ci metto del mio convinto che non arrivero’ mai troppo presto a destinazione. Ma lo scenario e’ superbo, bucolico di quelli descritti dai migliori poeti, dolce da far venire le lacrime agli occhi, illuminato com’e’ dalla luce ancor non fastidiosa del mattino. Una luce calda, ma non troppo. E’ sempre un pericolo guidare quando di fronte hai un bel panorama e non un container di merda: col secondo preferisci decisamente tenere gli occhi sulla strada, col primo sei altamente distratto da cio’ che ti sta attorno, e il rischio si moltiplica. Lo so, ma e’ impossibile che i miei occhi si stacchino da tutto quel verde. Ogni tanto un albero solitario si innalza su una sella tra due colline, blocca i raggi del sole, l’immagine e’ da quadro. Mi viene in mente Hadrian’s Wall in Inghilterra, dove la via che cammina lungo il muro arriva ad un certo punto a quello che e’ chiamato Sycomore’s Gap, dove c’e’ appunto una piccolissima sella, il “gap”, dove nel bel mezzo si trova un sicomoro. Beh, ora non mi serve piu’ andar fin li. Ne ho avuta la mia razione, solo stamattina!

Sono cosi’ dannatamente tentato di fermarmi e scattare qualche foto. Desidererei ardentemente fermare qualcuno di questi momenti, immortalare qualcuna delle scene che scorrono attraverso i miei occhi, si’ belle esse sono. Sono disposto a fermarmi, a farmi ripassare dalle macchine superate con tanta fatica, e a perdere del tempo prezioso sulla tabella di marcia. Ma non mi fermo, e so bene il perche’. Ne rimarrei terribilmente deluso. Sapete, questa puo’ sembrare una sciocchezza, ma per me conta molto. Odio quando mi fermo, quando vorrei andare avanti ma mi fermo, per fare qualche foto. E poi, la foto non e’ uguale a cio’ che vedo. Ne rimango abbattuto. E sapete, purtroppo ho realizzato una cosa: forse neanche il miglior fotografo riesce a catturare esattamente cio’ che i suoi occhi vedono, cio’ che la natura gli mostra in quel preciso istante. Se vi riesce, quella e’ la foto che tutti ammireranno e che tutti acclameranno. Ma non tutti vi riescono. Io non sono nessuno, e non voglio provare a essere qualcuno che so di non essere. Ho realizzato questo, e non fermo la corsa della mia macchina. Anzi, premo sull’acceleratore, consapevole che quelle immagini cosi’ perfette resteranno per sempre impresse. Non sulla SD o sul mio pc, ma sulla mia mente. E dentro il mio cuore, questo e’ certo.

Non posso peraltro esimermi, per coprire il lasso di tempo che mi vede guidare tra verdi colline verso la giungle di Te Urewera NP, dal raccontare la mia trovata della sera precedente. Mi trovavo in un ostello teutonico: la lingua principale era il tedesco. Credo di non mentire quando affermo che l’unica persona che ho sentito parlare inglese sia stata il receptionist. E di nuovo, quando i tedeschi son pochi, magari donne, e ancor meglio gnocche, ci sta. La conversazione fluisce piacevole. Quando invece sono sciami, puzzano, sono perlopiu’ uomini e quando sono donne, sono piu’ degli ogre che delle ragazze, allora possono pure andarsene a fare in [...]. Il mio dormitorio era di 12 letti, insolito per la norma qui, al massimo ho sempre avuto un 8-beds. Apro la porta e mi assale una vampata di odori maligni, tipo spiriti malvagi sotto forma di odori flautolenti mixati a calzini in putrefazione. Sul pavimento di tutto, dai calzini appunto, ai caricatori, a mutande, abbigliamento vario, libri, cibo. Mi sorprende di non aver trovato un gabbiano, un topo, una capra o qualche civetta la’ dentro, ci calzavano a pennello. Alla sera ne ho abbastanza, quando voglio riesco a zingarare abbastanza, ma tutto sommato sono ancora un principino (come mi chiamavano all’universita’ uahuah, adoro quel soprannome!) e un posto del genere mi da abbastanza il voltastomaco. Mentre passeggio per il corridoio ho l’ispirazione: vedo una camera doppia libera, con la porta aperta. La reception ha appena chiuso, e dubito il receptionist si faccia il giro del posto per controllare sia tutto ok. La mia mente diabolica pensa ed elabora il piano in un secondo. Mi precipito in camera mia, dove non c’e’ nessuno per fortuna, faccio i bagagli in men che non si dica e mi fiondo nella camera doppia, chiudendo la porta. Sono gia’ andato al bagno e ho tutto quel che mi serve, quindi non mi cambia nulla il fatto di non aver le chiavi della camera. Geniale no?! Dormo beato la notte, senza odori molesti e tedeschi fastidiosi. Il mattino dopo mi sveglio presto – prima del receptionist – per evitare possibili rogne, faccio colazione, e me la svigno. Ho pagato 25$ per una camera doppia che costerebbe piu’ o meno il doppio. Questo si chiama RISPARMIARE.

La giornata prosegue alla grande, perche’ Te Urewera e’ un signor parco. La giungla e’ stupenda, ricca di vegetazione e di corsi d’acqua, cascate a non finire. Perdo diverso tempo a cercare lo scatto migliore quando mi imbatto in cascate appunto. Il sole non mi abbandona e si sente “del caldo” per usare un eufemismo. Penso al latte che sto portando nel bagagliaio, chissa’ come sara’ preso ora di questa sera. Poi, se devo proprio trovare un difetto al parco, ecco, esso e’ lampante: le strade. Sapete cosa vuol dire guidare per piu’ o meno 100 km su strade UNSEALED, UNPAVED, e per di piu’ WINDING?! Vuol dire una tortura, soprattutto se fuori fa caldo, non puoi aprire i finestrini altrimenti ti troverai un camion di polvere dentro la macchina nel giro di 5 minuti, e l’aria condizionata funziona come un frigo senza presa per la corrente. Ah, e anche se la tua macchina e’ del ’91 e devi ancora scoprire quale magagna nasconde. Mi vien da pensare a come possa davvero esistere una condizione del genere. Voglio dire, non sono in Africa, punto primo. Sono in un parco nazionale, punto secondo. E terzo, e’ l’anno 2012, non il 1816. Mi aspetterei ben altro. Forse vogliono tenerlo fuori dalla portata di molti?! Beh, magari con i giappi ci riusciranno, di sicuro non vedro’ pullman in giro per queste strade (me lo auguro, farei una brutta fine se me ne trovo uno in curva!) ma con me non ce la faranno. Sono pronto a tutto.

Anche se in realta’ devo annoverare la strada, la n.38, tra le piu’ pericolose che abbia mai guidato. Ormai un po’ di strada in giro l’ho fatta, e mi ricordo alcuni pezzi insidiosi qua e la. Le strette, winding roads delle Highlands scozzesi, dove per circolare “a doppio senso” esistono solo dei passing places dove fermarsi e far passare gli altri. Ricordo anche una strada in Irlanda talmente stretta che ebbi la sensazione di passare a stento con la mia macchina (e trovari, solito culo, un camper. Non so come ho fatto quella volta). Ma questa probabilmente vince. Sarebbe una strada su cui divertirsi: non girano tante macchine, c’e’ il giusto mix di sassi e polvere, insomma, gran rally, e il mio stile di guida sarebbe adatto alla bisogna. Purtroppo non posso confidare nella macchina, e non posso permettermi sbalzi perche’ dietro ho cibo “deperibili” e danneggiabile, una valigia che fa salti da venti centimetri con un sasso di cinque, computer, etc. Quindi, devo prestare parecchia attenzione. Anche agli altri, perche’ ci son certi deficienti che “I GA’L SUV”, e vengono su e giu’ sparati come proiettili. Con la mia carretta, non posso far altro che mandarli velocemente a cagare. Ma alla fine, tra un’imprecazione e l’altra, riesco a portare a casa la pellaccia anche stavolta, e con la pellaccia, porto a casa sani e salvi anche i miei asparagi e le mie banane!

Sapete, concludere la serata degnamente e’ come la ciliegina sulla torta, “cherry on the pie” come dicono qui. A Rotorua mi fermo per un paio di giorni di relax e di bagni nelle “hot pools”, non vedo l’ora di immergerci le chiappe! Ma la sera, stasera, ho bisogno di un buon pasto. Provo ad inventarmi la ricetta di un risotto asparagi e carote, bollendo i due e creando una specie di brodo cremoso con acqua di cottura e latte. Il risultato non e’ forse da top restaurant italiano, da novelle cuisine, ma mi sfama e non e’ nemmeno malaccio. Sono decisamente contento, e tale, mi concedo una serata in un bel pub locale in compagnia di una ragazza ceca e di una tedesca.

Poi, quando hai i coupon che ti consentono di avere una coca omaggio al pub – e non un bicchierino da caffe’, ma uno 0,4 lt intero! – concludi la serata ancor piu’ felice!

PS. Per domani ho prenotato un’altra follia (economicamente parlando): mi aspettano le Waitomo Caves! Ovvero, circa 8 ore tra abseiling (calarsi giu’ in una cava tramite una fune, per 100 metri!), salti nel vuoto dentro cascate sotterranee, scalate di cascate, pareti, esplorazione di cave, osservazione del soffitto dove sono presenti i GLOWWORMS (vermetti fosforescenti) per tornare infine in superficie, dalla parte opposta, e godersi un BBQ con gli altri partecipanti! Non vedo l’ora, sara’ la cosa piu’ BearGryllesca che abbia mai fatto!

sabato 24 novembre 2012

E un mese se n'e' andato!

(Per chi non volesse leggere, sotto ci sono alcune foto)
Oggi mi sento piu’ completo. Era come mi mancasse un pezzo, come sentissi un vuoto tra una costola e l’altra, ma ora va meglio. Indietro a quest’estate, a fine maggio, ero stato tra i vari posti anche in Oregon, ed avevo seguito la costa circa da Florence fino su a Nord, quasi al confine con lo stato di Washington. Li’ avevo visto il posto geografico con il nome piu’ breve al mondo, un fiume, dal nome pressoche’ non scordabile: D. Il D river. Semplice no?! Ebbene, non me n’era fregato granche’ all’epoca. Ma quando venni a conoscenza, mentre esploravo le curiosita’ della Nuova Zelanda prima di partire, che in questo paese si trova il luogo geografico col nome piu’ lungo al mondo, mi sentii subito in dovere di completare quest’opera. Il tutto venne ad assumere un senso. E’ come giocare a memory, e imbattersi a fine turno in una carta di cui sai gia’ per certo dov’e’ la coppia. Devi farlo. Ce l’hai.
E cosi’, oggi, l’obiettivo di giornata – e che giornata, ricorre un mese dal mio atterraggio ad Auckland, dall’inizio del mio viaggio in Nuova Zelanda – era solo giungere in quel posto, una collinetta insignificante dal nome impronunciabile ed indicibile sperduta nelle campagne vicine alla costa sud-orientale di North Island. Quando giungo ad un cartello marrone che dice “Longest Geographical name on Earth” mi emoziono. Sento che l’impresa e’ vicina. E quando vedo un enorme cartello bianco lungo piu’ o meno 6 metri con scritto il nome della collina, mi viene da ridere. E’ veramente lungo una vita. Sarei curioso di sapere se c’e’ qualcuno in grado di leggerlo. Provateci: Taumatawhakatangihangakoauauotamateapokaiwhenuakitanatahu. Facile no?! Vi narro brevemente la storia che c’e’ dietro, usando nomi ovviamente fittizi – gli originali stanno sul cartello. Un giorno il capo JohnJohn della tribu’ degli Spaccotutto se ne stava andando a spasso con la sua tribu’, quando vide una terra che molto gli aggradava. Gli aggradava talmente tanto che penso’ quasi quasi di stabilirvici. Peccato che un’altra tribu’, i Tispaccodipiu’, occupava gia’ quella terra rinomata. Cosi’ le due finirono inevitabilmente per scontrarsi, al fare alla guerra. In un singolar tenzone, il capo JohnJohn degli Spaccotutto perse suo fratello, a cui voleva del bene. E fu cosi’ che il capo rimase per giorni, su questa collina, a suonare il suo flauto per commemorare il fratello perduto. Il nome della collina, piu’ o meno, sta ad indicare “Luogo dve il capo JohnJohn degli Spaccotutto rimase per giorni a piangere suo fratello”. Interessante eh?
Scosso e felice, realizzato, ora posso dire di essere stato nei luoghi geografici col nome piu’ lungo e piu’ corto della terra. Questo mi riempie di soddisfazione. Sono cosi’ contento che mi concedo un soft cone e un milkshake allo stesso tempo – e allo stesso tempo rubo per la modica cifra di 3,2 NZD un ora e mezza di connessione al mio caro amico Mc. Se non ci fossero i McDonald sarei fottuto, dico sul serio. Ho la mia chiavetta, ma devo centellinarla quando la uso, non posso permettermi di sprecare MB preziosi pagati a caro prezzo. Quella serve per le emergenze, o per quando non ci sono McDonald’s!
Mentre guido oltre la collina, oltre il Mc Donald’s, oltre Dannevirke – un piccolo villaggio orgoglioso delle proprie radici vichinghe (danesi per l’esattezza), tanto da sfoggiare emblemi vichingi e nordici ovunque – realizzo una cosa che mi colpisce. L’input me lo da una via, Franklin Rd. Mi viene in mente l’indirizzo che usavo mentre vivevo nel Dakota del Sud, Franklin Street. E poi, mi viene in mente l’indirizzo che per poco tempo, ho usato mentre stavo a Queenstown: Frankton Rd. Entrambi gli indirizzi dei posti dove ho vissuto eccetto casa mia, iniziano per Frank. Franklin e Frankton. E’ o non e’ curioso, quantomeno?! Significa che ho Frank nel mio destino. Ma chi cazzo e’ sto Frank? Se e’ un tedesco, non voglio conoscerlo!
E’ il mesiversario (se esiste, questo termine) del mio arrivo, dicevo. Anche questo mi eccita, posso dire alla gente che mi chiede da quanto sono qui, “un mese”, anziche’ tot settimane. Non sono piu’ un novellino ormai. Posso dire il fatto mio. Vi chiederete, forse, come mi sento.. se mi sembra sia passata una vita o se la mia partenza mi sembra ieri, in particolare. Ebbene, mi sembra normale. Mi sembra di esser partito circa un mese fa, e cosi’ e’. Invece, se prendessi le giornate singolarmente, direi che sono incredibilmente lunghe. Non perche’ siano noiose, quanto invece perche’ sono piene di eventi e di cose da fare. Non ho mai le mani in mano. Anche “perdere tempo al computer”, usando un termine caro a mio cugino, diventa qualcosa di serio, perche’ si mettono in ordine le foto, si aggiorna il blog, si aggiorna FB, si risponde alle mail, ogni tanto si skypa con qualcuno. Non e’ cosa da poco, solo questo. Ed oggi, dopo un mese, me la voglio prendere comoda e arrivare in ostello presto. Voglio farmi una bella, lunga doccia calda, e fanculo al risparmio dell’acqua, ambiente, etc. Etc. Tanto so che lo scrivete solo perche’ vi costa un macello di energia per scaldare l’acqua calda che uso, quindi lo faccio quasi volentieri. Poi voglio farmi la barba, voglio andare al supermercato e perdere tempo fra gli scaffali a vedere le offerte, cosa c’e’ di interessante, sognare cibo che purtroppo non posso comprare – uno perche’ prima o poi mi costerebbe caro sul conto in banca, due perche’ se mangiassi tutto scoppierei – e poi voglio andare a letto presto stasera. Dormire in macchina si puo’ fare, ma non posso di certo tirare le 3 di mattina il giorno dopo.
Prima di fare tutto questo pero’, per strada noto un cartello che indica un chioschetto dove in vendita ci sono prodotti freschi dall’orto. Mi ci fermo, anche se non sono il cliente tipo di questi negozi, ma mi hanno detto che vi si possono trovare prezzi inferiori ai supermercati, ed ho bisogno di mangiare qualche verdura fresca. Ieri ho mangiato una zuppa in scatola, un minestrone ecco, che all’aspetto faceva ribrezzo ma al gusto era interessante. Oggi vado sugli asparagi. A casa non li mangio, ma so che fanno bene. E costano poco, e ne ho per due giorni. Quando esco dal chioschetto con circa 3-400 grammi di asparagi per 2 NZD, sono contento. Stasera forse mi inventero’ un risotto con parte di essi, o forse li mangero’ come contorno a della buona carne.
Anche questi sono i pensieri di un tramper.
 
 
Kia. Copyright Emanuele Canton, 2012.
Il Kia e' l'unico pappagallo di montagna che vive in Nuova Zelanda. Le sue dimensioni sono piu' che rispettabili - sono alti piu' o meno 30-35 cm e pesano attorno al chilo e mezzo/2 kg. Il loro becco e' maledettamente affilato, e sono con esso in grado di aprire le zip degli zaini e slacciare le fibbie. Sulla mia auto, una volta in un parcheggio lungo la Milford Rd - con il motore ancora acceso e me e un amico DENTRO la vettura! - 5 di essi si sono avventati su cofano, finestrini e tettuccio, e hanno tentato di aprirsi un varco fin dentro la macchina. Diciamo che non si fanno pregare, quando capiscono che c'e' in ballo del cibo.

Fountain @ Napier, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

Il luogo geografico col nome piu' lungo del mondo. Ovviamente, in New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

Infine, vi voglio mostrare questa: la mia casa, cucina, il mio letto con vista panoramica di un paio di sere fa. In basso c'e' il mio fornelletto da campo, con una pentolaccia e della "deliziosa" zuppa vegetale (lo chiameremmo minestrone in barattolo, l'aspetto era rivoltante, il sapore dignitoso grazie alle lenticchie). Ho parcheggiato la macchina sotto i cespugli, al riparo da occhi indiscreti, e mi son goduto il tramonto sulla baia, fino a quando anche l'ultima luce del giorno non se n'e' andata ed io, solo, ma con lo stomaco pieno e tante cose da raccontare, ho accompagnato il giorno morente in un sonno ristoratore.

giovedì 22 novembre 2012

Abel Tasman, along the coastal track, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

mercoledì 21 novembre 2012

Coastal Scenary

Knight's Point, West Coast, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

Sapore di sale, sapore di mare


Se ne avessi il tempo e le forze, potrei scrivere pagine intere ogni giorno su quello che faccio e quello che provo. Ma fortunatamente, le mie giornate sono spesso talmente piene che talvolta mi riesce proprio difficile, faticoso, ritagliarmi del tempo per sedermi e scrivere, anche se provo immenso piacere nel farlo. Anche perche’ spesso mi accompagno a del te’ o del caffe’ seduto su un comodo divano, specialmente se il caffe’ o te’ di turno e’ offerto dall’ostello.

Solo negli ultimi due giorni, ho fatto talmente tanto che sembra sia passata una settimana intera. Che dico, anche due. Dal mio piano originario di camminare a Nelson Lakes NP (alcuni laghi sono ancora ghiacciati.. a 1700 metri.. in quello che da noi sarebbe maggio..) mi sono immerso in Abel Tasman NP. Ho guidato da Greymouth a Nelson, passando dal grigiore della costa al sole che spezza le nubi nelle campagne dietro Nelson, amabili posti collinari dove fattorie semplicemente deliziose fiancheggiano la strada e i piedi delle colline, docili e verdi. Guidare diventa un piacere, non del tempo che si deve trascorrere in un cartoccio di metallo per andare da un punto all’altro. L’occhio si perde tra prati, pascoli, pecore, cavalli, case che sembrano uscite dal set di qualche film, tipo Forrest Gump. Cartelli indicano “Fresh fruit – please drive in!”. Mi fermerei li ore, il fatto e’ che son perlopiu’ mele e a me la mela non ha mai appassionato a dismisura. Fossero angurie, albicocche, pesche e meloni, il mio viaggio finirebbe qui. Arrivo a Nelson, la mia base per esplorare AT. Sono in macchina il giorno dopo per la parte Sud del parco, dove intendo prendere un water taxi fino a Bark Bay e camminare i circa 22 km del ritorno a piedi. Noto subito una cosa, l’acqua stupenda, magnifica, pulitissima. Di quelle che vedi solo da cartoline che arrivano dai Caraibi, o in tv mentre guardi documentari sulla Polinesia magari. Mentre solco le acque sul veloce water-taxi, un motoscafo che trasporta i turisti lungo la costa a prezzi modici, conosco due ragazze tedesche che mi fanno pentire di tutte le imprecazioni profuse nei giorni precedenti nei confronti di questo amabile popolo. Dai tratti melliflui, dal solito inglese semi-perfetto, piuttosto “chatty”, cado in-love all’istante. Passo con loro una buona mezza giornata, camminando tra la foresta in parte, accompagnato da orde di uccelli canori che cantano in tonalita’ mai sentite, facendomi sentire veramente nel mezzo di una giungla esotica, e in parte lungo la costa. Una costa che annovera sabbia granulosa, impeccabile, senza rifiuti o bastoncini, di un colore giallo pallido che diventa arancione una volta sulla battigia, bagnata dall’acqua. Un’acqua chiara, azzurrina per i primi metri, dove banchi di pesciolini nuotano seguendo le onde. Diventa scura piu’ avanti, verde smeraldo prima, azzurro profondo poi, in un quadro fantastico che ha in rocce grigio chiare ornate da alberi una cornice adatta. Sono in paradiso. Mi manca un’amaca e del latte di cocco e potrei anche lasciarci le penne, lo farei contento.

A Torrent Bay non ce la faccio piu’, e anche se non ho costume ne’ tanto meno asciugamano, mi faccio il bagno. Le mie amiche tedesche non cedono, ma io mi butto lo stesso, in mutande. Un piacere pazzesco, nuotare in un posto cosi’ bello, pare di disturbare la quite della baia, dove nessuno nuota, dove il vento non alza onde e non muove le foglie degli alberi. Nuoto tranquillo ed esploro le piccole baie, i sassi, guardo i pesciolini nuotarmi attorno. L’acqua e’ tra i 15 e i 20 gradi, perfetta per una nuotata. Dopo Lake Marian, posso nuotare in diversi posti potrei dire. Riemergo dall’acuqa soddisfatto, con le mutande bagnate, ma contento.

Salutate le mie amiche, con le quali di sicuro vorro’ tenermi in contatto, riprendo a camminare per mio conto. Macino km su km ad una media dei 6 all’ora, sapendo che sarei arrivato in ostello tardissimo, seppur stanco ed affamato. Riesco comunque ad apprezzare quello che vedo camminando, quel verde smeraldo che finche’ non andro’ alle Fiji non mi levero’ dagli occhi. Piscio nel mezzo della trail davanti ad una baia nascosta, tanto nessuno sta camminando nei miei paraggi, ho incontrato 10 persone in un paio d’ore. Una volta arrivato in paese, e’ tardi, e ho ancora un km da camminare. Me lo provo a risparmiare, anche per i miei poveri piedi, facendo autostop. La prima volta nella mia vita. Ed incredibilmente, come per magia, la prima macchina che passa si ferma e mi tira su, un ragazzo sui 30 del posto, che ascolta musica tecno a palla e mi fa scendere al parcheggio dove avevo lasciato l’auto. Grandioso. A volte lo penso, che son nato con la camicia (ma non e’ sempre vero, purtroppo!)

Poi e’ un susseguirsi di emozioni: la strada al tramonto, che da Marahau a Tataka e’ inverosimile. La Tataka Hill che mi regala una delle scene bucoliche piu’ belle che ricordi, con il sole che squarcia le nubi in raggi densi all’inverosimile, che giungono potenti a terra a inverdire campagne spente dal grigio delle nubi. Pare di guardare lo spettacolo dalla stessa altezza del cielo. Pare che uno dei raggi, tanto e’ grosso, forte e denso, sia quello che nei film, nei cartoni, preannuncia la discesa di Dio stesso, di un angelo. E io, non ne avevo mai visto uno cosi’, penso a Lui che mi ha donato di vedere tutto cio’. Mentre guido e scendo la collina, ammiro le fattorie e la pace che sembra circondarle. Credo che vivere qui la propria vecchiaia sia come comprarsi una bara di lusso: un posto magnifico dove trascorrere gli ultimi anni, in pace, tranquillita’, serenita’ che solo la campagna circondata dalla collina puo’ darti. Se perdipiu’ e’ affacciata su un mare da sogno, io non posso immaginare di chiedere di meglio. Riesco a perdermi nel paesaggio a tal punto da passare 20 km oltre l’ostello, e perdo tempo prezioso per tornare indietro al punto da rischiare di trovare la reception chiusa, e con essa, la porta d’ingresso. Ma la camicia con cui pare a volte sia nato me la tengo ben stretta addosso, e arrivo giusto quei 5 minuti prima della chiusura, che mi garantiscono un letto anche stanotte!

Mentre il giorno successivo, dopo una breve camminata di 3 km fino a raggiungere la “mia” spiaggia privata, prendo il sole disteso su uno scoglio, penso a tutto cio’. Ieri parlavo con 2 ragazze tedesche e la sera, in ostello, con una coppia dal Texas, con cui ho parlato delle porzioni enormi del loro cibo e degli highlights del paese. Facevo il bagno qui, il 21 novembre. Il 21 novembre, inoltre, sono abbronzato piu’ di quanto lo ero l’1 agosto a casa mia. Sono a sud del mondo, lontanissimo da casa mia, a volte da solo a volte con molta piu’ gente, con gente molto piu’ positiva ed energizzante di quella con cui mi trovavo ad essere a casa. Sono cosi’ maledettamente contento di come vanno le cose: ho la certezza di avere un lavoro per i prossimi 3 mesi che mi permettera’ non solo di coprire le mie spese di viaggio finora, ma anche forse di salvare qualche soldo. Ho fatto l’autostop e ci sono riuscito al primo colpo. Posso permettermi di pisciare in mezzo ad un sentiero, davanti ad una baia limpida o al Franz Josef glacier ma tanto nessuno mi vedra’ perche’ c’e’ poca gente sul sentiero, o li ho staccati di parecchio. C’e’ la solitudine giusta per contemplare lo spettacolo che vedo. Sto facendo un sacco di amicizie, sto apprezzando il creato come non mai. E realizzato tutto cio’, scottato dal sole, apro gli occhi.. e c’e’ una foca che sta nuotando a 10 metri da me, nell’acqua cristallina in cui ho nuotato ieri.

lunedì 19 novembre 2012

Hidden Valley

On the trail to Rob Roy glacier, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

Momenti speciali

Sono le 06.30 del mattino quando maldestramente irrompo giu’ dal piano superiore del letto a castello stamattina, domenica 18 novembre. In camera c’e’ un fetore da balena morta – credo che l’altro utente di questa 4 beds stia per raggiungere l’appena citata balena – e io non vedo l’ora di mettere il naso fuori dalla porta per vedere che tempo c’e’ fuori. Ho in programma la dura Alex Knob track, un bel macigno da 17,2 km che dovrebbe portarmi in cima ad una cresta da dove dovrei avere una visione superba del Franz Josef glacier. Il DOC (Department of Conservation) definisce la hike “only for skilled trampers” sulla guida che ho letto io, ed io non lo sono. O almeno, non mi ritengo tale. Vedremo chi la spuntera’. Nel frattempo sono a prepararmi la colazione: gelato alla vaniglia (ne ho comprata una confezione da 2kg ieri, la piu’ piccola, e credo che solo ieri ne ho mangiato un chilo) con caffe’ freddo microondato – l’avanzo di ieri, ottimo comunque – cereali e frutta in barattolo con latte, qualche biscotto. E un po’ di caffe’latte, quello non deve mancare. Mentre preparo le mie cose, sento una signora che dice “Arigato”. Deduco sia giapponese, ma per conferma le chiedo da dove viene. Conferma. Le dico che avevo sentito la parola e che, siccome e’ l’unica che conosco di quella lingua, avevo supposto bene. Si mette a ridere e mi fa capire che parla poco inglese. Ma pochi minuti dopo mi manda l’interprete (credo) a farmi dire che sono un “nice guy” (e daje). Gia’ che ci sono offro all’interprete il gelato avanzato, e lo accetta con piacere. Quando la voce si sparge nel gruppetto di 5-6 giappi, e’ tutto un profondersi di ARIGATO’ e inchini a mani giunte in omaggio al mio nobile gesto. Credo di essere vicino all’elezione a samurai, quando invece mi crolla tutto sotto i piedi e mi viene semplicemente offerta della banana in cambio. Banana che scopro essere consumata in uno strano modo in Giapponia: viene tagliata a pezzi ancora con la buccia, e servita di modo che ognuno faccia la fatica di cavarne almeno un po’. Curioso, comunista, ma sensato. Si spartiscono gioie e dolori.

Pochi minuti dopo sono fuori, scruto il cielo: quasi nemmeno una nuvola. Dietro al mio ostello c’e’ una montagna con una foresta pluviale, quindi al momento non vedo alcun ghiacciaio, ma mi basta prendere la macchina e guidare 2 minuti, ed ecco aprirsi davanti ai miei occhi uno spettacolo mozzafiato: montagne innevate di neve fresca, il Franz Josef glacier alla mia sinistra, immacolato, senza nuvole. Rimango, come spesso mi capita quando viaggio in ambienti di montagna, a bocca aperta. Credo di avere gli occhi lucidi, mentre guido verso la trialhead, tanto stupendo e’ lo spettacolo a cui assisto. Questa semplice, fugace occhiata potrebbe di suo valere la giornata. Insomma, alle 7.50 inizio la Alex Knob. Parcheggio ovviamente deserto. Pregusto gia’ l’emozione che trasmette essere il primo ad arrivare in cima in un determinato giorno. Sono fiducioso, la ranger mi ha detto di iniziare almeno per le otto, altrimenti avrei rischiato di non vedere nulla a causa della foschia, in cima. Sono le 8, ma io ho un passo superiore al normale, quindi ho discreti margini di successo. L’inizio e’ paradisiaco, forse sono morto, non lo so. Cammino in una specie di tunnel naturale fatto da fitta vegetazione ricoperta di muschi, che forma le pareti ed anche la volta del tunnel. La luce solare fatica a trovare i varchi necessari ad illuminare la via, ma quando lo fa, crea giochi di luce amabili, i raggi si vedono chiaramente e la luce e’ piu’ bella di quella di qualsiasi lampada fabbricata dall’uomo. Gli uccellini continuano a cantare, tanti, diversi, con voce forte e chiara. Assaporo ogni passo in questa idilliaca scena. Ma tutte le cose belle hanno un termine, una camminata cosi’ potrebbe essere la piu’ bella di sempre: il fatto e’ che non ho considerato le abbondanti piogge dei 2 giorni precedenti. La pista, dopo poche centinaia di metri, diventa a tratti un pantano difficile da superare con agilita’, bisogna ponderare i passi per non finire col fango alle caviglie o peggio, scivolare e rovinare a terra. Entrambe cose che preferirei risparmiarmi. Tra una pozza e l’altra emergono rocce di cui mi posso fidare e insidiosi legni che sembrano invitanti ma che, coperti da muschio, risultano scivolosi come l’olio. E’ difficile proseguire spediti, e mi tocca camminare come un cretino per evitare tutti gli ostacoli. Avete presente Jack Sparrow e la sua camminata “braccia un po’ all’insu’ e fare da frocio”?! Ecco, credo riassuma bene il mio hiking style. Devo bilanciarmi bene e camminare in punta di piedi.

Mentre cammino un sacco di elicotteri sorvolano la mia testa, alcuni molto molto bassi: sono quelli dei tuor che portano i turisti a vedere il ghiacciaio da vicino. Sono quei turisti che piuttosto di camminare dove sto camminando io si mangerebbero una merda fumante. Per me non ha alcun senso. Voglio dire, che bello c’e’ nel pagare (non c’e’ del bello qui) e pagare per farsi portare direttamente a destinazione, senza assaporare il gusto di arrivarci da se’, con i propri mezzi, con le proprie fatiche? Per me, nessuno. Non ha senso. E penso a tante cose mentre salgo. Alla fortuna che ho per essere cosi’ in forma (anche se il ginocchio, ancora, mi da forti preoccupazioni: mi bastano 10 km o piu’ in un giorno e il giorno dopo provo dolore a scendere 3 scalini. Dovro’ prendere provvedimenti, fare 1 o 2 anni cosi’ e’ da purgatorio), a quando ero piccolo e andavo in montagna a camminare coi miei genitori, allo spirito “competitivo” che c’e’ in me, che mi spinge un po’ piu’ in la’, un po’ piu’ veloce. E’ grazie a tutto questo che ora posso dire “Ok, andiamo!”, che posso camminare lunghe distanze, che posso sopportare il peso di un grosso zaino, che posso raggiugnere posti per cui altre persone devono pagare o che, semplicemente, non vedono.

Raggiungo la cima dopo 2 ore di camminata. Lungo la via, un paio di viewpoint mi hanno permesso di vedere bene il ghiacciacio, prima che venisse inesorabilmente ricoperto da un denso strato di nubi che ora mi oscura completamente la visuale. Il bello e’ che al primo viewpoint stavo per scattare qualche foto, ma l’umidita’ talmente elevata mi aveva riempito la lente di condensa, e cercando di levarla avevo solo peggiorato le cose. Avevo concluso con me stesso che avrei risparmiato le foto per il ritorno. Gran bella scelta del cazzo. In cima, e’ una sensazione stranissima, non ricordo bene ma forse non l’avevo mai vissuto, un momento del genere. E’ come essere morti, stare in purgatorio, perche’ il paradiso spero di vederlo un giorno, ma ben piu’ luminoso e accogliente. Sono a 1303 metri, e la visibilita’ sulla cresta e’ 30 metri da una parte e 30 dall’altra. A destra e a sinistra, bianco quasi totale. Soprattutto sul versante dove dovrebbe esserci il ghiacciaio. Se guardo in basso ho l’illusione che mettendo un piede fuori potrei essere sostenuto dalle nuvole, e camminare su di esse, tanto spesse e dense sono. Dall’altra parte, giro la testa e scorgo per pochi attimi, in un buco tra le nuvole, la costa, l’oceano. E’ magnifico, quanto d’altro canto deludente, sapere che la fuori, lassu’, in mezzo alle montagne, si gode della vista di un ghiacciaio alpino, e semplicemente girando il collo, dell’oceano e delle spiagge dorate e fittamente ricoperte di vegetazione. Mi metto in piedi su una roccia, e aspetto. Aspetto, mi gioco le mie chance e aspetto per vedere se qualcosa accade, se le nubi si squarciano. E’ domenica, e intanto prego.

Chiudo gli occhi, ascolto un po’ di musica, provo a “meditare”, a parlare con Dio. Rifletto. Cosa sto facendo della mia vita? Com’e’ che sto tentando di darle un senso? Nei miei occhi che vedono solo il buio, che non sentono il vento che soffia la fuori, si materializzano immagini di laghi, fiumi, montagne, canyon, di deserti, di gente, di una macchina che corre sulla strada. Per me tutto sommato, vedere posti nuovi, esplorare e ammirare la natura, conoscere nuovi amici e godere della loro compagnia, e’ essere felice. E’ raggiungere un benessere interiore ed esteriore tramite i miei occhi, e i miei stessi sensi. Io sono felice, ora. Ma non e’ questo cio’ che dobbiamo fare nella nostra vita, no? Troppo facile perseguire obiettibi meramente personali, futile egoismo. Una vita vissuta a meta’, un bicchiere mezzo pieno di cui si nota perlopiu’ la parte mezza vuota. E io cosa faccio per riempire il bicchiere? La musica sale, un crescendo, un’emozione in piu’ fa salire anche il mio pensiero. Io sono quello che faccio, e quello che faccio ora e’ girare, conoscere, ammirare e ringraziare per tutto questo. Io devo condividere quello che mi viene donato. Ho una grande fortuna, che ho costruito in buona parte da me ma che e’ pur sempre un dono, quello di poter girare e vedere. Io devo portare agli altri la mia gioia, la mia felicita’, il mio amore per il creato, per gli animali, per l’acqua e per gli alberi, per la stessa gente che mi sta attorno. Contagiarli con la mia positivita’. Colorare il grigio di certe giornate scure. Questo devo fare. So che Lui mi ha mostrato la strada, Gli sono riconoscente, e voler bene a quello che lui ha creato e ai miei fratelli, e’ voler bene a Lui.
Apro gli occhi dopo diverse canzoni, sono sulla stessa roccia, immobile, da 25 minuti. Una lacrima mi scende dagli occhi. Purtroppo, fuori non si vede ancora nulla, le nubi non sono miracolosamente scomparse, come accadrebbe in un qualsiasi dozzinale film. Sono ancora li ad impedirmi la visuale, da qualsiasi parte. Ma a me ora non importa piu’. Non m’importa piu’ il ghiacciaio, non m’importa piu’ l’idea di aver faticato tanto, essermi sporcato ed ora, di essere da solo li in cima a prendere freddo, per nulla. Sono contento ora. Quel tempo ritagliato per me stesso e’ stato importante, ben speso, vissuto. Se c’e’ una cosa che posso dire, lo so, per questa giornata, a prescindere da cosa accadra’ poi o dalla trail o da qualsiasi altra cosa, e’ che ho realizzato veramente, mi sento veramente, CLOUD RIDER.

PS. Oggi un ragazzo dai capelli rossi mi ha chiesto un passaggio in citta’, fuori pioveva. Gli faccio ok con la bocca chiusa perche’ sto masticando un pezzo di pane all’aglio e basilico. Salta in macchina, mi dice “Just because the weather, the previsions.. were good!”. La parola previsions mi puzza lontano un miglio. Il ragazzo non e’ di sicuro di madrelingua inglese. Non ha tratti orientali. Di sicuro non e’ del nord europa, parlerebbe meglio l’inglese. Due son le cose: o e’ spagnolo, o e’ italiano. E io sono molto, molto certo sia italiano. La prima frase che gli rivolgo e’ “Where are you from?”. E lui, “Italy”. “E allora parliamo italiano va’”.

sabato 17 novembre 2012

Voglia di gelato mentre fuori piove


Ormai e’ un filo conduttore, odio i tedeschi. Non posso cazzo alzarmi dal letto e la prima lingua che sento e’ il tedesco! Non si puo’! Vado in cucina e becco due crucchi che tra preparare un piatto e l’altro limonano duro. Sono piazzato a chill-out in salotto e a mezzodi’ arriva un’altra coppia crucca. La sera mi sto guardando John Rambo (credetemi, non c’era di meglio, ma non ho disdegnato) e un gruppo di 4 ragazzotti stile “spacco-tutto-mi” entra in sala.. e ho il fortissimo sospetto siano tedeschi. Li ucciderei. Perche’ non mettono un limite alla dogana in USCITA?! Tipo stare a casa na volta ogni tanto no?!

Bah devo smetterla, alla fine sono come noi italiani a meta’ secolo scorso. Con la sola differenza che noi eravamo dei poveri morti di fame, simpatici, ma morti di fame, che cercavano di sopravvivere di qua e di la, mentre loro son dei poveri ricchi cagoni che spendono la loro grana crucca in giro per il mondo, hanno tempo o ferie chissa’ perche’ illimitate e a volte trovano anche il gusto di fingersi puaretti – e ci riescono maledettamente bene. Se vogliono sono i piu’ pezzenti del creato.

Comunque, giornata uggiosa qui. Credo di essere stato fuori dall’ostello per un totale di 15 minuti oggi. Poco male: ho pianificato i prossimi giorni, fatto diversi conti, scritto un po’, fatto la barba, mi son lavato e imbalsamato. Ho comprato dell’ottimo pane al pesto e formaggio. Anche se costa parecchio secondo me, e’ troppo buono! Ed e’ enorme haha, posso dosarlo per pranzo, spuntino e cena!

Ho deciso che andro’ nell’isola del Nord prima di iniziare a lavorare. Non avrei tempo per farlo dopo, altrimenti sottrarrei preziosi giorni all’Argentina e ai miei amati States. E non voglio. Spendero’ diversa grana purtroppo, ma voglio fare alcune cose. Tutti, tutti, mi hanno detto che devo fare il Tongariro Crossing, e dalle foto che ho visto, pare valerne la pena. E uno. Voglio andare a Rotorua e farmi il bagno nelle piscine termali gratuite che ci sono li in giro. E’ come essere a Yellowstone dalle foto che ho visto, ma senza orsi, coyote e elk. E due. Poi vorrei fermarmi una notte a Taupo che dicono essere carina, vedere Urewera National Park e alcuni laghi e cascate che ci sono da quelle parti. E poi – mi piacciono troppo queste cagate – voglio andare in un posto che non ha niente di bello, di importante, di rimarchevole. E mi costringe anche ad una deviazione di un oretta credo. Ma ne vale la pena: c’e’ il posto geografico con il nome piu’ lungo del mondo! E’ una collinetta ignominiosa di poco piu’ di 300 metri, ma ha un nome lungo tipo 32 lettere che significa una frase intera! Non la cito per pigrizia, e anche perche’ la connessione la pago e non mi connettero’ per cercare una minchiata del genere!

Oggi ripensavo a quanto fatto finora, quasi 4 settimane di viaggio. Se tornassi ora sarebbe comunque un successo. Porto gia’ dentro cose che mai avrei immaginato, sentieri, montagne, laghi, strade.. persone. Ho un sacco di amici in piu’ in Facebook ad esempio. Di sicuro ho gia’ un amico di quelli con cui sei stato assieme relativamente poco, ma che sai gia’ rimarrete amici per tutta la vita. Ho ottimi amici anche dall’Asia ora, e ne sono felice. E cosa incredibilmente positiva, non ho sentito la mancanza di nulla da casa, finora. A volte quando partivo per le ferie, anche solo dopo 2 settimane volevo mangiare del cibo nostrano, parlare con i miei amici, mostrare le foto ai miei genitori.. ora non sento nulla di tutto cio’. Forse ho preso veramente il volo, nella direzione giusta, quella che sognavo e quella che programmavo. E’ bello quando le cose vanno cosi’, come un treno che segue le rotaie.

Ho comprato una vasca di gelato stamattina, 2 chili. Piu’ economica di una coppetta con 1 pallina qui in Nuova Zelanda. Ne ho gia’ mangiato a pranzo con la frutta in barattolo (ottimo), a merenda (col caffe’ solubile, stupendo) e stasera ne prendero’ ancora. Ho una voglia matta di gelato. Ma stasera lo voglio condividere. Per questo chiedero’ a una coppia di ragazzi inglesi che ho conosciuto qui – e a cui daro’ un passaggio per splittare il gas fino a Greymouth – se vorranno una coppa di gelato in compagnia. E’ bello avere gente attorno mentre si mangia.

venerdì 16 novembre 2012

Sure you don't wanna enjoy a drive here?!

Lake Hawea and road 6, New Zealand. Copyright Emanuele Canton, 2012.

West Coast


Stamattina mi sveglio, e provo odio o quasi verso gente di altre nazionalita’. E vi spiego il perche’. Ci sono due signore asiatiche (scommetto cinesi) di mezz’eta’ che sono sedute al tavolo della colazione, affianco alla finestra panoramica che da sul lago Wanaka. Una delle due scatta foto per 5 minuti al lago. Da dentro. Da dietro la finestra. Che cazzo ti costa uscire, fare 10 passi e scattare da la scusa?! Punto due: la suddetta signora poi inizia a farsi qualche autoscatto. Io vedo cosa inquadra, e mi viene il voltastomaco. La foto e’ del suo bel viso da sberle, mezzo tavolo con una tazza di te’, una finestra e credo un riflesso sbiadito del lago. Ora, cosa vuol significare una foto cosi’? Vuoi mostrare a casa che facevi colazione quando eri via? Vuoi ricordarti che un giorno hai mangiato sopra un tavolo marrone e vicino ad un lago sbiadito? Vorrei tanto andare li’ e dirglielo in faccia, ma mi limito a mangiare i miei cereali, i miei biscotti e il mio pane.

Un’altra nazione che sto imparando ad odiare e’ la Germania. Mi fermo prima di iniziare per precisare: ho diversi amici tedeschi, tutta bravissima gente, cordiale, gentile, simpatica. Non ho niente contro di loro. Quel che ho va contro diversi loro conterranei e contro diversi loro costumi. Uno: non puoi fare colazione con quintali di pane integrale con sopra etti di burro zio can. A te piacera’ anche, ma a me fa vomitare. E non ci tengo a sedermi per far colazione per alzarmi un minuto dopo per andare al cesso a vomitare. Due: smettila di camminare, tu tedesco, in qualsiasi ostello a piedi scalzi. Va ben che magari sara’ piu’ pulito di casa tua e che vuoi risparmiare 5$ per un paio di infradito, ma che cazzo. Mi fa cagare solo a vederti scalzo in cucina. Tre: sei invadente come le cavallette. Una piaga. Credo che il 50% della gente che ho trovato qui finora venga dalla Tedeschia. Mi sono un po’ svangato i coglioni sinceramente. Parlavo l’altro giorno con un americano: statistiche degli albergatori pare dicano che sia il 10% della popolazione tedesca in giro. Cio’ equivale a circa 8 milioni di persone in giro per il mondo. E credo che una buona fetta sia da ste parti. Cio’ vuol dire che e’ asfissiante la cosa. Ed il brutto e’ che fanno cummaro’: trovano altri connazionali, sei fottuto tu, povero english-speaker. Ti sembrera’ di essere in un lager nazista. Percio’, ho deciso che a meno che non si tratti di fighe fotoniche, lascero’ perdere nuove conoscenze germaniche. Almeno per un po’.

Per il resto, la giornata e’ stata bella. Sono stato alle Blue Pools. Credo ci siano nove milioni di posti chiamati “Blue Pools” nel mondo, ma se ce n’e’ uno che si merita appieno questo nome, questo e’ sulla Haast-Highway (road n.6) in Nuova Zelanda. Ed io ci sono andato. L’acqua in tutto il paese ha un colore pazzesco. I laghi soprattutto, sembrano i Caraibi, la Golden Coast australiana. L’autista della navetta che mi porto’ a fare skydiving mi disse che l’acqua del lago Wakatipu, di fronte a Queenstown, si puo’ anche bere da quanto pura e’. Un blu profondo che cambia solo a qualche metro da riva, divenendo un verde smeraldo che lascia intravedere il fondale, che pare tutto sabbioso. I torrenti poi, sono di un acqua intendo, glaciale. Non a caso tre quarti di essi proviene dallo scioglimento delle nevi a monte, onde per cui allo sventurato che decide di tuffarvisi dentro – anch’io sinceramente ne sono invitato, ma limito la mia “foolishness” a Lake Marian – consiglio di tener pronto il numero di un’ambulanza. Ad ogni modo, le Blue Pools sono incredibili. Credo di non aver mai visto un blu cosi’ blu. Potrei usare le foto che ho scattato per descrivere il colore blu. Anche se forse e’ piu’ un color acqua intenso. Ma cos’e’ il color acqua? Ma vafanculo.

Sul fondo del torrente, che sotto i miei piedi (sono sospeso su un ponte) forma una grossa pozza, stanno delle trote. Grosse trote. Ho una voglia matta di pescare in questo momento. Ma non ho ne’ canna ne’ filo. Invidio quelle trote perche’ vivono in un ambiente cosi’ puro, incontaminato, protetto. Se sapessero com’e’ la superificie, e come chi la abita vuole ad ogni costo distruggerla, credo scaverebbero una buca sul fondo del fiume per nascondersi. Ma la mia testa non ha di questi pensieri ora, penso solo a godermi questo spettacolo.

Guido verso Franz Josef lungo strade incredibili. Foreste primordiali che soffocano paeselli con case che si contano sulle dita di una mano. Fiumi impetuosi scavano larghi greti sassosi. Alla mia sinistra, nuvole si ammassano all’orizzonte: e’ l’oceano, poco distante, che le origina. Alla mia destra, passato il primo strato di vegetazione, si innalzano i monti, e le loro cime restano invisibili, dietro le nuvole, la nebbia. Quella nebbia tetra, misteriosa, eppur cosi’ affascinante. Arrivo a Franz Josef al mio ostello, ho voglia di pesce. Ceno con 5 filetti di pesce surgelato (ottima cottura, mi complimento con me stesso), una zuppa di pesce, pane e spinaci. Gran cena, sostanziosa e salutare, ci voleva. Oggi ho mangiato con 11 dollari, ovvero circa 6 euro. Non c’e’ male. Sistemo le mie foto, e mentre armeggio col telefono, mi arriva la notizia che sono stato ufficialmente assunto a Glenorchy, fino a meta’ marzo. Questa cosa comporta molte conseguenze, tra cui l’affrettare e modificare i miei piani turistici. Ma va molto, molto bene, le cose sono fattibili, sotto controllo, proseguono bene. L’umore e’ alle stelle.

Stasera vado a letto realizzato, contento, felice. Diro’ grazie una volta in piu’, prima di dormire.

lunedì 12 novembre 2012

domenica 11 novembre 2012

Mackinnon Pass

Mackinnon Pass, New Zealand. At 1154 mt, the highest point on the Milford Track.
Copyright Emanuele Canton, 2012.

Mt.Luxmore Summit & Caves. I'm Done.


E’ venerdi’, e’ il settimo giorno di fila che cammino, e arrivo al Luxmore Hut sulla Kepler track attorno alle 16.30. Troppo presto per decidere di fermarsi e prepararsi alla notte. Sarebbe terribilmente noioso, senza carte da gioco, senza un buon libro, ovviamente senza corrente o connessione ad internet, e con ben poca gente all’interno del rifugio al momento. Decido con il mio amico Evan di proseguire fino alla cima di Mount Luxmore, all’incirca 150-200 metri piu’ in alto, altri 2-2,5 km di salita e poi, relativa discesa. Le condizioni meteo non sono proprio invitanti – c’e’ un leggero venticello, nuvole ovunque, e il sole fatica a far passare i suoi raggi. Ma sapendo che per il giorno successivo son previste piogge e forti venti, si opta per salire, subito. Sono stanco, ma la cosa sembra fattibile, anche se non riesco a vedere la cima del monte. Lascio lo zaino al rifugio e parto. Cammino lungo un sentiero che pare coperto dalla montagna, al riparo dagli agenti atmosferici avversi. Cammino in posti che sembrano il set di alcune scene del Signore degli Anelli, posti dove in realta’ ho gia’ camminato, non qui ma dalle parti di Queenstown. Qui sembra Mordor: rocce nere che sembrano state bruciate da un incendio, come tronchi d’albero. Erba gialla tendente all’arancio. E poi, all’improvviso, un perfido vento sferzante. A volte in faccia, a volte alle spalle, ma perlopiu’ di lato. Un vento che quando non soffia ti fa pensare “Cammina cammina cammina!”, e che quando soffia puo’ a volte fare cambiare la destinazione dei tuoi passi, pare faccia di tutto per farti sprecare preziose energie. Continuo a salire, ora vedo la vetta: anche se so che non supera i 1450 metri, sembra siano 6000 ed irraggiungibili. Dopotutto, ho gia’ 4 ore e mezza di camminata con zaino sui 15 chili alle spalle. 15 chili che peraltro sembrano 25 – e ad essere sincero non ho mai pesato lo zaino finora. Tutto puo’ essere. Piu’ mi avvicino alla vetta, piu’ il vento si fortifica, diventa costante, e piu’ il sole scompare dietro le nuvole. Una volta raggiunto il cartello che indica il sentiero per la vetta del monte, il sole e’ scomparso del tutto, ed inizio a temere fortemente un’altro avversario: la pioggia. Vorrebbe dire aumentare il pericolo, e bagnare la borsa dove tengo la fotocamera. Mi inerpico sul sentiero finale, un tratto tutto roccia, infido a causa del vento, ripido. Si inizia a sentire un po’ di freddo: gli abiti sotto il parka sono sudati e ogni raffica graffia. Non vedo l’ora di arrivare in cima. La cerco con la vista dopo ogni roccia, ogni passo, ma sembra un miraggio, non la si raggiunge mai. Ma all’improvviso, eccola la, sormontata da una torretta per il rilevamento meteorologico. Lontana, ma c’e’, e’ gia’ qualcosa. Accelero. Nonostante la fatica, la caviglia sinistra dolorante, accelero. Sono fatto cosi’, quando vedo il traguardo, e’ come se energia nuova fluisse nel mio corpo. Arrivo in cima precedendo Evan, e lancio un urlo liberatorio. La giornata e’ stata faticosa, il vento mi sta maledettamente provando, e inizia a far freddo sul serio. Le mie mani sono rosse. Non c’e’ tempo per riposarsi qui, giusto un paio di minuti per qualche foto, e ce ne andiamo da questo postaccio. Puo’ diventare pericoloso, specialmente con la pioggia. Un passo falso a causa del vento su una roccia umida, una caviglia messa male, una bella botta su un ginocchio, e sei fregato. Inizio la discesa e, come prevedibile, il mio ginocchio meraviglia inizia a scricchiolare. Maledetto quel giorno che inizia a sentire questo schifoso dolorino, mi perseguita da quasi un anno ormai. E come non bastasse, sopra la caviglia sono come gonfio, fa male. Le punte degli alluci poi non le sento piu’, da quanta pressione hanno ricevuto per l’intero giorno. Il vento non da tregua. A volte sono costretto a fermarmi per lasciar passare le raffiche che ci investono, tanto alto e’ il rischio di mettere male i piedi a terra. Ma alla fine torniamo sul sentiero principale. Ancora presto per cantar vittoria. Ho le mani congelate e cerco di tenerle in movimento in qualche modo, sono bardato come Babbo Natale, berretto in testa e parka chiuso il piu’ possibile, ho male ovunque dalla vita in giu’ ma cammino il piu’ velocemente possibile per arrivare prima al rifugio e finirla con questo dolore. Arrivo, un ora dopo, distrutto. Mi getto su un letto che non e’ nemmeno il mio, lascio cadere a terra le scarpe, e fisso il soffitto ansimando per 5 minuti. Sono esausto. E’ stato strenuante. Una delle camminate piu’ challenging della mia vita, non tanto per il sentiero, quanto per il dolore, il vento. Devo mangiare, e riposare.

Il mattino dopo non mi sento granche’ meglio: ho dormito 10 ore e mezza, e questo a testimoniare la stanchezza accumulata, ma dopo qualche passo capisco subito che non sara’ una passeggiata nemmeno oggi. Il programma e’ leggero – Luxmore Caves per un po’ di esplorazione, e poi discesa verso la macchina – ma si rivelera’ piu’ ostico del previsto. Le cave sono a un tiro di schioppo, 5 minuti dal rifugio. Ce ne sono due, una piuttosto difficile da penetrare, l’altra facilitata da qualche scalino iniziale. Scegliamo questa, io ed Evan. Torce in testa, e via. Non sono mai stato all’interno di una cava in queste condizioni, ovvero camminando per conto mio, senza una visita guidata, e soprattutto, senza passerelle e comode scalinate. Questa  e’ una cava vera, di cui ho sentito dire si puo’ scendere per 3 ore od oltre. A proprio rischio e pericolo. Per questo abbiamo pile di riserva, giusto in caso. Mi inoltro verso il basso, verso il buio, l’oscurita’. E’ scivoloso ovviamente, un piccolo ruscello scorre in mezzo al passaggio. Dopo pochi metri, una quindicina, mi accorgo che scendere giu’ con lo zainetto per la macchina fotografica non sara’ una passeggiata – anzi, sara’ una condanna. Decido quindi di lasciare, nell’ordine, custodia piu’ reflex, portafoglio con carte di credito e contanti, passaporto, chiavi della macchina, su un masso a quindici metri dall’entrata della cava, li’, al buio. So che nella cava c’e’ gia’ una persona di sicuro, so che forse potrebbero entrarne altre. Lascio la mia vita corrente la. Realizzo veramente quel che ho fatto solo piu’ tardi, gia’ in profondita’. Incontro un giapponese che sale dal basso, gli dico quello che trovera’, e lui mi interrompe subito dicendomi “Non la prendero’, tranquillo!”. Non che mi senta rassicurato dalle sue parole, ma probabilmente mi sento talmente tranquillo, sicuro in questo paese (finora) che ho volontariamente e consciamente compiuto questo gesto. Continuo a scendere nelle viscere della terra, se spengo la luce e’ buio pesto. Non ci sono pipistrelli o strane creature, si sente solo il rumore dell’acqua che scende verso il basso. Per continuare la via bisogna sporcarsi le mani, congelarsele: strisciare stile militare sotto le rocce, stare attenti a quando ci si rialza, posare le mani sulle rocce gelate dall’acqua e su stalattiti e stalagmiti che certo calde non sono. Scendo per piu’ di mezzora, ad un certo punto, ci fermiamo. Rimango fermo su una roccia grande abbastanza per farmi da sedia, spengo la luce, e rimango in silenzio, al buio assoluto, a contemplare il momento. Sembra di essere morti. Sai che sei sottoterra, qualsiasi cosa potrebbe intrappolarti la sotto, persino la paura potrebbe giocare brutti scherzi. Ma tutto sommato, e’ solo un’altra grande esperienza da raccontare, e ringrazio il Signore per quello che sto vivendo, per avere anche questa possibilita’. Torno verso la superficie, cercando di ricordare la direzione da prendere nel paio di bivi incontrati lungo la discesa. Fortunatamente li azzecco entrambi, e, seppur con le mani congelate, un ginocchio malandato e il parka sporco, riguadagno la superficie terrestre, e la luce. Luce. Durante gli ultimi metri sottoterra mi impersono in un disperso li dentro, alla disperata ricerca della luce, della terra, dell’uscita da un posto cosi’ infernale per lui – in lotta per sopravvivere – ma anche cosi’ terribilmente affascinante per me, semplice turista in cerca di nuove emozioni.

Riprendo la mia via verso il parcheggio, 13,5 chilometri piu’ avanti, in realta’ indietro perche’ torno dalla parte da cui sono arrivato per raggiugnerlo. Penso sia una passeggiata, anche se la caviglia mi fa male sul serio. Si trasforma in un maledetto calvario. La discesa mina severamente le punte delle mie dita, e’ come tenere premuto un dito su un tavolo per diverso tempo: poi non lo senti piu’. La mia caviglia grida riposo assoluto, e’ come se un nervo malmesso mi arrecasse dolore ad ogni passo. Tutto sommato, con oggi sono 8 giorni di fila che cammino, di cui 6 con uno zaino di una quindicina di chili, chilo piu’ chilo meno. Dopo 3 mesi di nulla assoluto, potrei dirmi fortunato a reggermi ancora in piedi. E a dirla tutta, ho dato prova di grande condizione invece, compiendo regolarmente ogni camminata tra il 50 e il 75% del tempo suggerito. Sono contento, ma dannatamente malmesso, ho bisogno di riposare il mio corpo per almeno 3 giorni. Non vedo l’ora di raggiungere il parcheggio, ma la camminata diventa infinita. Sogno il rumore di macchine, ma continuo a sentire solo le onde che si infrangono sulle sponde del lago e a vedere solo alberi. Sto per cedere, anche se continuo a camminare veloce, voglio finirla il prima possibile.

E arrivo, alla fine. Passo il ponte, raggiungo le toilets, il parcheggio. Impreco per la felicita’. Raramente son stato cosi’ contento di posare il mio culo su una superficie morbida, in questo caso il sedile della macchina.

Voglio mangiare qualcosa, farmi una doccia e sedermi su un divano. Basta. Saro’ piu’ che contento cosi’, non mi serve altro. Dopotutto, sono uno che si accontenta di poco.