Eccetto quell’ora e mezza con Evan giu’ alle Luxmore caves,
non avevo mai fatto caving in vita mia. Non posso considerare caving la solita
gita del cazzo dove, con la scuola, ti portano a vedere le grotte piu’ schifose
del Triveneto e addirittura in quella grotta pezzente ci passi delle ore.
Quindi, con lo spirito di un novellino, ma con la voglia di Bear Grylls, mi
accingevo ad addentrarmi in un giorno a meta’ tra il sereno e il nuvoloso nelle
Waitomo caves. Non sono le piu’ grandi del paese, non sono le piu’ profonde, ma
hanno una cosa piuttosto famosa: l’abseiling in quello che viene chiamato “Lost
World”, come lo chiamarono i primi esploratori della zona, indietro al 1954.
L’abseiling e’ il calarsi - imbragati propriamente - da una fune, nel vuoto. Il
“Lost World”, LW d’ora in avanti, e’ l’entrata della cava (o una delle due,
essendo questa dotata fortunatamente di una fine), ed e’ spettacolare. Un buco
nella terra, una voragine larga circa una cinquantina di metri nel punto di
massima estensione, fuori completamente ricoperto da alberi e felci, che appena
sotto il livello del terreno lascia spazio alla cava, che scava la sua via
verso il fondo con pareti ripide e ricoperte di muschio e verdi licheni. Le
pareti della cava, dell’entrata, sono lunghe 100 metri. L’abseiling di
conseguenza, si protrae per la stessa lunghezza, fino a raggiungere il fondo
dove scorre il torrente. LW e’ famoso per la luce che filtra dalla superficie,
che vista dal basso fa tanto “mondo perduto” in effetti, con le pareti oscure,
il fascio di luce intenso, quasi palpabile, e la vegetazione che chiude la
vista a qualsiasi altra cosa. Verde, giallo, e nero, questi sono i colori
perfettamente discernibili dall’occhio umano. The Lost World. Non aspettavo
altro, mentre mi imbragavano, mentre con goffe movenze indossavo la tuta e mi
instivalavo. Mentre camminavo piu’ come una papera che come un essere umano,
per raggiugnere la piattaforma di “lancio”, pensavo alle prossime 6 ore che mi
aspettavano. “Let’s do it man!”
Gia’ dai primi momenti escludo di potermi salvare in caso di
pericolo: non capirei un beata fava di cio’ che mi urlerebbero le guide, due
piu’ o meno coetanei neozelandesi che parlano come i giovani, ovvero
tendenzialmente veloce e con slang. Capisco credo il 25% di quello che dicono. Ma
non importa. Mi assicuro alla fune, ascolto le istruzioni – faccio ridere
l’audience composto da altre 4 persone e faccio imbiancare le guide quando
chiedo piu’ o meno “Quindi se voglio andar giu’ piu’ veloce sgancio questo
vero?”(praticamente scegliendo di andare all’altro mondo) – e sono pronto a
calarmi. Non mi fa paura scendere nel vuoto. Mi godo semplicemente lo
spettacolo. Scendere e’ tecnicamente molto facile – basta tirare la corda in
su, mollarla se mi voglio fermare – e mentre mi calo assaporo le sensazioni che
provarono i primi esploratori di questi luoghi. Meraviglia, stupore,
annichilimento di fronte a cotanto spettacolo. Starei li sospeso con le palle
spiaccicate tra tuta e costume anche per prendere il te’. Ma devo scendere con
gli altri, non possiamo perdere troppo tempo qui. Siamo giu’ e siamo pronti al
pranzo: un sandwich, un buon muffin e una bar, ottima. Pronto ad inoltrarmi
ancora nel buio, dove scorre l’acqua, nell’ignoto. Ancora, non ho paura. Una
cosa positiva c’e’ nel fare questo genere di esperienze: alza la tua soglia
della paura, la soglia in cui il tuo corpo inizia a rilasciare adrenalina. Non
mi sento eccitato. Molta gente ai giorni nostri e’ eccitata quando vede una
mucca fuori da un recinto. O quando sale su un grattacielo. O quando monta in
aereo. A me un po’ dispiace, perche’ mi priva di sensazioni fantastiche che
altra gente ha, ma forse mi risparmia qualche macchia marrone sulle mutande
ogni tanto. Come non mi ha praticamente toccato lo skydiving, l’entrare in una
cava, dove una frana mi puo’ fottere a vita o dove una piena improvvisa puo’
far lo stesso, non mi impaurisce, non mi tocca. La vedo come una passeggiata
piu’ difficile, dove mi dovro’ sporcare di piu’. E se c’e’ da scalare, da
bagnarsi, da aver freddo, da tagliarsi qua e la.. facciamoci sotto, e’ solo
un’altra sfida!
Dentro la cava, e’ subito qualche decina di litri d’acqua
dentro gli stivalacci di gomma. Ovviamente, mentre sei con l’acqua al ginocchio
o peggio ancora, alla vita, non fa molta differenza. Il brutto e’ quando devi
camminare sulle rocce, o sulla ghiaia. Sembra come la pubblicita’ del Gatorade
di un po’ di tempo fa, l’asfalto che ti si attacca alle scarpe. Fatichi il
triplo per alzare il piede. Ma non e’ quello di cui mi preoccupo, cerco invece
di divertirmi il piu’ possibile. Come con le anguille, che vivono anche qua
sotto, nel torrente. Le richiamiamo con gli avanzi di qualche panino, e loro,
affamate, non tardano ad arrivare. Fameliche, ti mordono il dito se indugi
troppo. Mentre come giapponesi con i piccioni in piazza S.Marco ci divertiamo
con le anguille a cento metri e passa sotto la superficie, ci raccontano un
aneddoto. The Cow Hole. Il nome non dice abbastanza? In una piccola apertura
sul terreno sotto la quale passeremo poco piu’ avanti un giorno cadde una
sventurata mucca. Ovviamente, non torno’ indietro saltellando. Non torno’
indietro affatto. I primi che realizzarono la cosa furono due guide che,
assieme a dei clienti, scesero la cava qualche giorno dopo. Immaginate lo
spettacolo: siete in una cava per la prima volta, e vi trovate spiaccicata
davanti al muso una vacca morta da giorni. Non male eh?! Ebbene, dopo il
ritrovamento, qualche conato di vomito, etc, si decise di tirare su la
sfortunata. Ma non ve ne fu verso: legando le 4 gambe ad una fune e usando come
forza motrice un trattore, la mucca veniva su ma si inceppava su rocce e
vegetazione poco prima di uscire del tutto. Dopo diversi tentativi, si decise
cosi’: il trattore spinse a tutta, con l’effetto di recidere le gambe della
mucca dal resto del corpo, che cadde nel vuoto ancora, per l’ultima volta. Le
ANGUILLE, avrebbero fatto il resto. E cosi’, la carne della mucca servi’ altro
che ad ingrassare molte, fameliche anguille che ora se ne stanno ancora, piu’
grosse che mai, sul fondo del torrente, ad aspettare il prossimo pasto. Potrebbero
esser grosse, credeteci o no, come un braccio umano.
La prima “sfida” che ci si presenta e’ secondo me la piu’
difficile – che comunque in senso assoluto, difficile non e’. Siamo in una strettoia
da dove io, ovviamente il primo valoroso a provare, mi sporgo verso il basso e
mi tengo solo con i gomiti, posati sulle rocce ai miei fianchi. Sotto, una
pozza, dove il torrente si getta. Non e’ alto, al massimo sono 3 metri. Il
fatto e’ che subito davanti alla mia testa ci sono altre rocce, e non devo
lanciarmi, altrimenti mi frantumo il cranio. Devo semplicemente, ma non e’
cosi’ facile, mollare i gomiti, tirarli indentro, e farmi precipitare giu’, a
chiodo, dritto. Ma, ma, giustamente – troppo facile cosi’ – i nostri simpatici
amici kiwi mi dicono di spegnere la luce, e cosi’ fanno anche gli altri. Mi
butto nel buio, fidandomi, sperando di non muovermi in avanti per qualche
strano motivo. Classico urlaccio alla Tarzan mentre cado, un grosso SPLASH, ed
eccomi riemergere dale acqua scure. Oro, neanche un graffio. Si procede tra una
nuotatina qua e la, amo nuotare qua sotto credetemi, con la tuta non fa troppo
freddo, l’acqua e’ come quella di una Jacuzzi, sempre un po’ ossigenata, e la
scena fa tanto, tanto Gardaland, giostra dei pirati. Scenario che sembra
costruito col polistirolo. Poi, dopo qualche interruzione qua e la, arriva la
parte che ci dicono essere la piu’ difficile. Dobbiamo scalare una cascata alta
circa 3 metri, sotto una valanga d’acqua, partendo dala base, nuotando perche’
non si tocca il fondo stando in piedi. Se cadi, ritenti. Se cadi quando sei
quasi a posto, caschi male di sicuro, e ti fai male altrettanto sicuramente.
Ancora, mi butto per primo. La corrente pompa duro, e’ difficile solo prendere
l’appiglio. Fatto cio’, e’ tutto muscolo. Cerchi di tenerti, di guadagnare un
appiglio migliore, e una volta raggiuntolo, ponderi il da farsi mentre sei
sballottato qua e la dai flutti. La guida mi dice, fai cosi’, fai cola’, io non
lo bado e gli rispondo “Please, don’t help me!”. “Sweet man, that’s the way!”,
ottengo come risposta. Come a dire che sono tagliato per il lavoro haha. Parto,
un piede qua, uno la, la testa a Bear Grylls e ai suoi consigli (ma vafanculo),
e un due tre sono in cima. Well done, non difficile in realta’, capisco che per
molte persone puo’ essere eccitante comunque. Le ultime centinaia di metri sono
piu’ o meno tutte a camminare, io cerco di spegnere la luce per assaporare di
piu’ quel senso di lost, di perduto, di fioco, di spettralita’ che si respira
qua sotto. Bevo l’acqua che sgorga ogni tanto dal fianco della roccia,
purissima. Mi sdraio petto a terra per passare sotto rocce che mi costringono a
strisciare come non ho mai dovuto in vita mia. La sensazione di non poter
muovere il mento di un centimetro altrimenti la tua testa si blocca tra il
terreno e un masso di qualche quintale, e’ abbastanza opprimente sapete.
Infine, dopo una peregrinazione di qualche ora, ci sediamo su una roccia,
grossa, e ci dicono di stenderci a mo’ di pennichella. Lo facciamo, spegniamo
le luci, e come per magia, nell’oscurita’, spuntano migliaia di stelle. No
scusate, vermi. I famosi Glowworms. World famous credo. E’ uno degli spettacoli
piu’ incredibili a cui abbia mai assistito. E’ come un cielo stellato, ma in
miniatura, e piu’ azzurro. Piu’ distinto. Piu’ avvolgente, vicino. Ti sembra di
poter riconoscere delle costellazioni vermose. Tutto e’ vermoso. I glowworms
sono vermetti, larve per l’esattezza, con la testa fluorescente, una luce d’un
forte azzurro, che vivono per trasformarsi in farfalle, falene e procreare
prima di lasciarci la pelle. Come fanno un sacco di insetti d’altronde. Ma loro
sono fantastici, creano degli agglomerati, o degli insediamenti, o dei singoli
puntini, nella volta della cava, a qualche metro dalla tua testa, o lontano,
decine di metri prima o dopo di te, ad estendersi come un braccio, che si perde
nelle oscurita’ della cava. E’ pazzesco, restiamo credo 15 minuti in silenzio a
goderci lo spettacolo. Non m’importa piu’ della luce del sole, di altre stelle.
Anche i vermi vanno alla grande.
Una cosa che mi piace fare quando si tratta di osservare
stelle, nuvole, e vermi luminosi e cercare delle forme, qualcosa che mi ricordi
una figura note, un volto noto. Anche qui, perdo interi minuti scrutando la
volta celeste (e lo dico a ragione) per individuare qualcosa. A volte capitano
cose grandiose, in circostanze del genere. Ed ecco, la prima cosa che vedo, e’
una specie di aquila, di uccello rapace, ali spiegate, testa in avanti.
Maestoso. Girando la testa a sinistra, i miei occhi si fermano su una specie di
uomo mascherato, incappucciato, che brandisce una spada sopra la sua testa. Un
guerriero, un guerriero oscuro. Cazzo vuol dire?! Boh. Non so dargli un senso.
Infine, infine rimango colpito di brutto. Mentre vago nel vuoto non guardo, ma
vengo guardato, fissato da una faccia, la faccia di un leoncino. E’ Simba.
Ricordate, il Re Leone? Quando Rafiki la scimmia disegna sull’albero la faccia
di Simba? Ecco, io ho quella faccia in fronte a me, che mi fissa. E’
incredibile perche’ poco fa, giu’ nella cava, parlavamo di Re Leone, giusto
pochi minuti fa. E anche li’ avevo commentato “Non lo vedevo da anni, l’ho
rivisto giusto durante il volo da Melbourne diretto ad Auckland”. Un’altro
caso. O, che debba diventare anch’io un re? Magari, mi risparmierebbe la
preoccupazione di dormire in macchina piuttosto che in un hotel a 5 stelle.
Scherzi a parte, sono contento, quasi commosso. Un leone. Un aquila. Fatti di
vermi. Devo essere umile come un verme ma allo stesso tempo aquila, le ali, il
volo, le nuvole. Cloud Rider. Con lo spirito e la forza di un leone. Si, e’
questo il senso, ne sono sicuro.
Usciamo dalla cava dopo 4 km, umidi, decisamente bagnati, io
un po’ tagliato qua e la e ammaccato al ginocchio, ma tutto ok. Sono felice per
l’esperienza fatta. Mentre cammino nel sole calante sulle solite, infinite,
ondulanti verdi colline del Waitomo, mi immagino gia’ scalare le pareti di
Yosemite, dei boulders giu’ a Joshua Tree, fare rafting nel Colorado, esplorare
slot canyons nello Utah. Oggi non ho solo fatto caving per la prima volta,
seriamente. Oggi ho buttato giu’ un portone dentro il quale voglio
assolutamente entrare. Ho gia’ dimenticato come ho passato il mio tempo prima.
Calcio? Tennis? No il football lo tengo ancora ma.. voglio voltare pagina. C’e’
un mondo la’ fuori di cui sapevo poco, ora mi sento in dovere di approfondirlo.
Finora ho urlato di liberazione per aver raggiunto camminando la vetta di una
montagna. Ora voglio farlo scalando. Voglio sentire gli spruzzi delle cascate
sulla mia pelle. Voglio scendere ancora piu’ giu’, la sotto. E ho il tempo per
farlo, e’ questo il bello. Dio benedica il giorno in cui ho preso quella
decisione, di lasciarmi tutto alle spalle.
Piu’ tardi, in macchina, guido con le ultime luci del
giorno, diretto a sud. Dormiro’ in macchina, i sogni di liberta’ in questo
mondo costano quindi devo in qualche modo risparmiare su qualcosa. La bilancia
credo indichi che sul cibo devo ancora perfezionare la tecnica, quindi lo faro’
sul lodging. Non so dove parcheggiare la macchina pero’: il Mc in cui mi fermo
per il solito cono gelato-scrocco connessione da 0,60 cents ha telecamere 24h
su 24, quindi dubito sia il posto ideale. La main street del paese mi sa tanto
da gabbia all’alba del giorno seguente, troppo sgamabile. Opto per il bush. Ma
quando vedo che tipo di bush mi si prospettava – oscuro, senza una piazzola
decente – torno indietro. Giro su una laterale, tiro avanti finche’ non trovo
una chiesa. Bianca. Mi vedo al sicuro qui, potranno esserci i vicini piu’
schifosi del mondo, ma mi sento tranquillo qui. Protetto. Scommetto che qui
piu’ che in altri posti, qualcuno vegliera’ su di me stanotte. Parcheggio la
macchina, tiro fuori sacco a pelo e cuscino, e mi metto a dormire.
Non corro pericoli, stanotte, lo so. E per questo prego,
soprattutto stanotte, per dire grazie per un’altra, grandiosa, giornata.
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