domenica 11 novembre 2012

Mt.Luxmore Summit & Caves. I'm Done.


E’ venerdi’, e’ il settimo giorno di fila che cammino, e arrivo al Luxmore Hut sulla Kepler track attorno alle 16.30. Troppo presto per decidere di fermarsi e prepararsi alla notte. Sarebbe terribilmente noioso, senza carte da gioco, senza un buon libro, ovviamente senza corrente o connessione ad internet, e con ben poca gente all’interno del rifugio al momento. Decido con il mio amico Evan di proseguire fino alla cima di Mount Luxmore, all’incirca 150-200 metri piu’ in alto, altri 2-2,5 km di salita e poi, relativa discesa. Le condizioni meteo non sono proprio invitanti – c’e’ un leggero venticello, nuvole ovunque, e il sole fatica a far passare i suoi raggi. Ma sapendo che per il giorno successivo son previste piogge e forti venti, si opta per salire, subito. Sono stanco, ma la cosa sembra fattibile, anche se non riesco a vedere la cima del monte. Lascio lo zaino al rifugio e parto. Cammino lungo un sentiero che pare coperto dalla montagna, al riparo dagli agenti atmosferici avversi. Cammino in posti che sembrano il set di alcune scene del Signore degli Anelli, posti dove in realta’ ho gia’ camminato, non qui ma dalle parti di Queenstown. Qui sembra Mordor: rocce nere che sembrano state bruciate da un incendio, come tronchi d’albero. Erba gialla tendente all’arancio. E poi, all’improvviso, un perfido vento sferzante. A volte in faccia, a volte alle spalle, ma perlopiu’ di lato. Un vento che quando non soffia ti fa pensare “Cammina cammina cammina!”, e che quando soffia puo’ a volte fare cambiare la destinazione dei tuoi passi, pare faccia di tutto per farti sprecare preziose energie. Continuo a salire, ora vedo la vetta: anche se so che non supera i 1450 metri, sembra siano 6000 ed irraggiungibili. Dopotutto, ho gia’ 4 ore e mezza di camminata con zaino sui 15 chili alle spalle. 15 chili che peraltro sembrano 25 – e ad essere sincero non ho mai pesato lo zaino finora. Tutto puo’ essere. Piu’ mi avvicino alla vetta, piu’ il vento si fortifica, diventa costante, e piu’ il sole scompare dietro le nuvole. Una volta raggiunto il cartello che indica il sentiero per la vetta del monte, il sole e’ scomparso del tutto, ed inizio a temere fortemente un’altro avversario: la pioggia. Vorrebbe dire aumentare il pericolo, e bagnare la borsa dove tengo la fotocamera. Mi inerpico sul sentiero finale, un tratto tutto roccia, infido a causa del vento, ripido. Si inizia a sentire un po’ di freddo: gli abiti sotto il parka sono sudati e ogni raffica graffia. Non vedo l’ora di arrivare in cima. La cerco con la vista dopo ogni roccia, ogni passo, ma sembra un miraggio, non la si raggiunge mai. Ma all’improvviso, eccola la, sormontata da una torretta per il rilevamento meteorologico. Lontana, ma c’e’, e’ gia’ qualcosa. Accelero. Nonostante la fatica, la caviglia sinistra dolorante, accelero. Sono fatto cosi’, quando vedo il traguardo, e’ come se energia nuova fluisse nel mio corpo. Arrivo in cima precedendo Evan, e lancio un urlo liberatorio. La giornata e’ stata faticosa, il vento mi sta maledettamente provando, e inizia a far freddo sul serio. Le mie mani sono rosse. Non c’e’ tempo per riposarsi qui, giusto un paio di minuti per qualche foto, e ce ne andiamo da questo postaccio. Puo’ diventare pericoloso, specialmente con la pioggia. Un passo falso a causa del vento su una roccia umida, una caviglia messa male, una bella botta su un ginocchio, e sei fregato. Inizio la discesa e, come prevedibile, il mio ginocchio meraviglia inizia a scricchiolare. Maledetto quel giorno che inizia a sentire questo schifoso dolorino, mi perseguita da quasi un anno ormai. E come non bastasse, sopra la caviglia sono come gonfio, fa male. Le punte degli alluci poi non le sento piu’, da quanta pressione hanno ricevuto per l’intero giorno. Il vento non da tregua. A volte sono costretto a fermarmi per lasciar passare le raffiche che ci investono, tanto alto e’ il rischio di mettere male i piedi a terra. Ma alla fine torniamo sul sentiero principale. Ancora presto per cantar vittoria. Ho le mani congelate e cerco di tenerle in movimento in qualche modo, sono bardato come Babbo Natale, berretto in testa e parka chiuso il piu’ possibile, ho male ovunque dalla vita in giu’ ma cammino il piu’ velocemente possibile per arrivare prima al rifugio e finirla con questo dolore. Arrivo, un ora dopo, distrutto. Mi getto su un letto che non e’ nemmeno il mio, lascio cadere a terra le scarpe, e fisso il soffitto ansimando per 5 minuti. Sono esausto. E’ stato strenuante. Una delle camminate piu’ challenging della mia vita, non tanto per il sentiero, quanto per il dolore, il vento. Devo mangiare, e riposare.

Il mattino dopo non mi sento granche’ meglio: ho dormito 10 ore e mezza, e questo a testimoniare la stanchezza accumulata, ma dopo qualche passo capisco subito che non sara’ una passeggiata nemmeno oggi. Il programma e’ leggero – Luxmore Caves per un po’ di esplorazione, e poi discesa verso la macchina – ma si rivelera’ piu’ ostico del previsto. Le cave sono a un tiro di schioppo, 5 minuti dal rifugio. Ce ne sono due, una piuttosto difficile da penetrare, l’altra facilitata da qualche scalino iniziale. Scegliamo questa, io ed Evan. Torce in testa, e via. Non sono mai stato all’interno di una cava in queste condizioni, ovvero camminando per conto mio, senza una visita guidata, e soprattutto, senza passerelle e comode scalinate. Questa  e’ una cava vera, di cui ho sentito dire si puo’ scendere per 3 ore od oltre. A proprio rischio e pericolo. Per questo abbiamo pile di riserva, giusto in caso. Mi inoltro verso il basso, verso il buio, l’oscurita’. E’ scivoloso ovviamente, un piccolo ruscello scorre in mezzo al passaggio. Dopo pochi metri, una quindicina, mi accorgo che scendere giu’ con lo zainetto per la macchina fotografica non sara’ una passeggiata – anzi, sara’ una condanna. Decido quindi di lasciare, nell’ordine, custodia piu’ reflex, portafoglio con carte di credito e contanti, passaporto, chiavi della macchina, su un masso a quindici metri dall’entrata della cava, li’, al buio. So che nella cava c’e’ gia’ una persona di sicuro, so che forse potrebbero entrarne altre. Lascio la mia vita corrente la. Realizzo veramente quel che ho fatto solo piu’ tardi, gia’ in profondita’. Incontro un giapponese che sale dal basso, gli dico quello che trovera’, e lui mi interrompe subito dicendomi “Non la prendero’, tranquillo!”. Non che mi senta rassicurato dalle sue parole, ma probabilmente mi sento talmente tranquillo, sicuro in questo paese (finora) che ho volontariamente e consciamente compiuto questo gesto. Continuo a scendere nelle viscere della terra, se spengo la luce e’ buio pesto. Non ci sono pipistrelli o strane creature, si sente solo il rumore dell’acqua che scende verso il basso. Per continuare la via bisogna sporcarsi le mani, congelarsele: strisciare stile militare sotto le rocce, stare attenti a quando ci si rialza, posare le mani sulle rocce gelate dall’acqua e su stalattiti e stalagmiti che certo calde non sono. Scendo per piu’ di mezzora, ad un certo punto, ci fermiamo. Rimango fermo su una roccia grande abbastanza per farmi da sedia, spengo la luce, e rimango in silenzio, al buio assoluto, a contemplare il momento. Sembra di essere morti. Sai che sei sottoterra, qualsiasi cosa potrebbe intrappolarti la sotto, persino la paura potrebbe giocare brutti scherzi. Ma tutto sommato, e’ solo un’altra grande esperienza da raccontare, e ringrazio il Signore per quello che sto vivendo, per avere anche questa possibilita’. Torno verso la superficie, cercando di ricordare la direzione da prendere nel paio di bivi incontrati lungo la discesa. Fortunatamente li azzecco entrambi, e, seppur con le mani congelate, un ginocchio malandato e il parka sporco, riguadagno la superficie terrestre, e la luce. Luce. Durante gli ultimi metri sottoterra mi impersono in un disperso li dentro, alla disperata ricerca della luce, della terra, dell’uscita da un posto cosi’ infernale per lui – in lotta per sopravvivere – ma anche cosi’ terribilmente affascinante per me, semplice turista in cerca di nuove emozioni.

Riprendo la mia via verso il parcheggio, 13,5 chilometri piu’ avanti, in realta’ indietro perche’ torno dalla parte da cui sono arrivato per raggiugnerlo. Penso sia una passeggiata, anche se la caviglia mi fa male sul serio. Si trasforma in un maledetto calvario. La discesa mina severamente le punte delle mie dita, e’ come tenere premuto un dito su un tavolo per diverso tempo: poi non lo senti piu’. La mia caviglia grida riposo assoluto, e’ come se un nervo malmesso mi arrecasse dolore ad ogni passo. Tutto sommato, con oggi sono 8 giorni di fila che cammino, di cui 6 con uno zaino di una quindicina di chili, chilo piu’ chilo meno. Dopo 3 mesi di nulla assoluto, potrei dirmi fortunato a reggermi ancora in piedi. E a dirla tutta, ho dato prova di grande condizione invece, compiendo regolarmente ogni camminata tra il 50 e il 75% del tempo suggerito. Sono contento, ma dannatamente malmesso, ho bisogno di riposare il mio corpo per almeno 3 giorni. Non vedo l’ora di raggiungere il parcheggio, ma la camminata diventa infinita. Sogno il rumore di macchine, ma continuo a sentire solo le onde che si infrangono sulle sponde del lago e a vedere solo alberi. Sto per cedere, anche se continuo a camminare veloce, voglio finirla il prima possibile.

E arrivo, alla fine. Passo il ponte, raggiungo le toilets, il parcheggio. Impreco per la felicita’. Raramente son stato cosi’ contento di posare il mio culo su una superficie morbida, in questo caso il sedile della macchina.

Voglio mangiare qualcosa, farmi una doccia e sedermi su un divano. Basta. Saro’ piu’ che contento cosi’, non mi serve altro. Dopotutto, sono uno che si accontenta di poco.

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