martedì 29 novembre 2011
Giocare a tetris (con le cose da mettere in valigia) - pt.2
Per scacciare i cattivi pensieri degli ennesimi dieci dollari buttati nel cesso, di una spiaggia presunta stupenda ma lontana dalle parole spese, mi faccio tentare. Da cosa?! Hehe.. Cammino di fronte al grill della spiaggia, quello dei “world famous” Jalama Burger. Ho in mente di provare l’impresa, di cimentarmi ufficialmente con il mio primo burger da 1 pound. Un pound corrisponde a circa 450 grammi. Non sembra molto vero? A dire il vero, non e’ molto sul serio! Cosa sono 450 grammi di cibo? Suvvia, poca roba! Un chilo e’ tanto, e suona possente, fa paura dirlo. E per lo stesso motivo, anche un pound suona come tanta roba. Quando in realta’ non lo e’. Cosi’ mi motivo per affrontare la sfida, di proporzioni accettabili ripensando a qualche allegra mangiata a base di hamburger di 600 grammi fatta in estate. 600 grammi di sola carne, pero’! Al bancone, faccio sfilare i pivellini (“Delle patate fritte grazie!”, “un Cheeseburger!”, “Un hamburger con bacon e doppio formaggio!”) e quando tocca a me dico “Uno Jalama Burger. Senza lettuce, pero’!”. Il padrone del posto, un vecchietto robusto e gioviale, come un po’ tutti i vecchietti americani, mi guarda strabuzzando gli occhi e mi dice “Are you sure?! It’s a big, BIG BURGER!”. Gli mostro di stare completamente al gioco. “Yes, I know, but not enough I guess!”. La sua espressione cambia e pare dirmi “Ok, ho capito che tipo sei”, e segna l’ordinazione. Mi augura buon appetito, ed io salgo le scale per sedermi al tavolo. Cinque minuti, ed ecco il burger. Stilisticamente e’ da 10+, come il famoso pollo della pubblicita’. Ci sono 3 patties di carne, 3 fette di 3 formaggi diversi, 3 strati di bacon, e salsa a volonta’. Ah, e la cipolla! Al gusto, passa la prova ad ampissimi voti. E’ una delizia, ed anche se non ho cosi’ fame (ricordate le ciambelle? Anche li’, per inciso, non avevo fame. Container di merda che non sono altro) lo ingurgito avidamente. Una volta finito – si, l’ho spazzolato tutto – passo al voto quantita’: 5. Scopro che 1 pound di panino e’ benissimo alla mia portata. Cosi’, la prossima volta, la sfida la lancero’ ad un panino di 2 pound. No un attimo, proviamo 1 pound e mezzo. Non vorrei dover digiunare per 2 settimane per avere qualche chance di sconfiggere quello da 2! Esco dal bar fra gli applausi degli avventori e torno alla macchina. Mi spiace, ma non voglio piu’ saperne di stare in questa fornace a girarmi i pollici. Guidero’ a sud, fino a quando non trovero’ un posticino discreto, dove potermi comodamente mettere in motel a riordinare le valigie. Mi correggo: riordinare presuppone ordine pregresso. Cio’ e’ falso per le mie valigie, quindi direi piu’ “creare”, le mie valigie. Ecco. Ripercorrendo la tortuosa strada collinare fatta all’andata, trovo diverse occasioni per fermarmi a fotografare svariati rapaci in volo. Uno, stupendo, vola a circa una quindicina-ventina di metri al massimo sopra la mia testa (mi e’ difficile calcolare questo tipo di distanze, ma ritengo la stima piuttosto verosimile). Per ghermirlo, parcheggio la macchina in una posizione diciamo “difficile”. Per rendere l’idea, immaginate la curva di un circuito di Indy Car americano: 180 gradi, inclinata sempre piu’ mano a mano che si sale verso l’esterno della pista. La curva dove parcheggio io pero’ non e’ fatta di cemento bensi’ di sabbia e la cosa rende la stabilita’ meno certa. Inoltre, lo spazio e’ comunque ristretto ed invado con parte della macchina la carreggiata. Un must, oramai. Colgo qualche ottimo scatto, tra gli sguardi stupiti dei passanti – si chiederanno che diavolo stara’ fotografando questo qua per essersi messo cosi’! Sulla scia di questa piccola, temporanea felicita’ penso a rimediare ad un’altro piccolo inconveniente: ho ancora la tenda semiaperta dall’ultima volta che l’ho utilizzata (una settimana fa!) e sarebbe opportuno metterla via degnamente. Lo faccio – scelgo delle location impeccabili – davanti al cancello d’entrata di un pascolo per bovini, a pochi metri da grosse macchie marroni scure su cui preferisco non concentrarmi. Purtroppo, mi discolpo fra me e me, e’ l’unico spiazzo abbastanza grande lungo la strada per ospitare la mia tenda. Non ho di certo intenzione di mettermi a chiuderla nel parcheggio del motel! Ci metto solo pochi minuti, mi libero della tenda, delle mosche accorse e dell’odore non da profmeria e riprendo la mia strada. E’ presto, potrei fermarmi da qualche parte. Consulto alla mia solita maniera – pericolosa, non avendo alcun aiuto esterno – la mappa mentre guido, ed individuo un possibile punto d’interesse in Santa Barbara. Qui le localita’ hanno sempre San o Santa davanti al nome: Santa Barbara, Santa Monica, San Diego, San Buenaventura, San Bernardino, Santa Paula, Santa Ana, San Fernando, Santa Maria, Santa Ynez, San Clemente, San Marcos, Santa Clarita tanto per citarne alcuni. Ci fai un rosario, con i nomi delle citta’ del Sud della California. E non li ho detti tutti, solo alcuni tra i piu’ rilevanti. Vai sicuro che se chiedi indicazioni e sagli santo, finisci due o trecento miglia piu’ in la’! Ad ogni modo, giungo a Santa Barbara dove mi trovo involontariamente a partecipare al solito, triste gioco delle uscite della highway: ci sono 8 uscite, quale vuoi? E io: che diamine ne so? Me ne sia data una a caso, invoco! Ma il lume della ragione agisce prima della mia dabbenaggine e questa volta aspetto giustamente di imbattermi nell’uscita “downtown”. Dopo un paio di buchi nell’acqua riesco anche a trovare spazio in un parcheggio gratuito per 2 ore. Fantastico, non avrei potuto chiedere di meglio. Per quanto mi concerne, Santa Barbara non e’ certo una miniera d’attrazioni o un posto che potrebbe colpirmi al punto di decidere di passar qui la notte. Mi sembra solo e soltanto un posto da fighetti cagoni e con le tasche piene di grana. In effetti, dopo qualche passo sulla Main, scopro che non mi sbagliavo affatto. La citta’ non e’ nemmeno cosi’ male, anzi, sembra carina, simpatica, sempre in movimento. Influenza spagnola nelle costruzioni, basse e di color giallo quasi ovunque, palme anch’esse quasi ovunque e belle piazzette con panche in legno, fontane, ombra. L’atmosfera e’ gradevolissima. Le persone pero’, turisti a parte, mi ricordano le parole dell’amico di giornata Brent, che mi defini’ la citta’ come “expensive”. E chi puo’ permettersi di vivere in una citta’ expensive?! Ovvio, chi ha la grana. The dough. E la gente che cammina, tanti giovani anche, lo fanno trasparire senza remore. Tirati come la corda di un arco – l’effetto sulle tipe non e’ affatto deprecabile, anzi! – ricreano l’atmosfera del sabato pomeriggio in centro, solo che qui e’ venerdi’ e sono circa le 15. Mi faccio un giro sulla Main, metto il naso nei tantissimi negozi di souvenir e ancor piu’ nei locali che offrono cibo (ancora?!) ma non altro. L’atmosfera, per quel che ho fatto in questi giorni e per come sono conciato (da turista che viene da una spiaggia) mi mette un po’ a disagio. Non fa per me, questa dose di mondanita’ pura iniettata cosi’ di colpo ad un country boy. Proprio no. Qualcuno si offre di soccorrermi in questo breve momento di sconforto: e’ sempre lui, Coldstone, che mi alletta con un Gotta Have It! alla vaniglia a cui io non oppongo resistenza, per non offendere. Al tavolo, seduto a divorare i 600 ml e oltre di milkshake, ripenso a tante cose: alle cose esteriori, alle false impressioni, alla pochezza di certa gente, alla consistenza o meno di certe filosofie di pensiero. Penso alla bellezza di molte ragazze che ho visto qui. In effetti, potrei quasi affermare di averne viste piu’ a Santa Barbara che in tutto il resto del viaggio. Ovvio che Zion non e’ famoso per ospitare contest sulla ragazza piu’ carina dello Utah, pero’.. un po’ fa specie. Penso alle parole del mio vecchio amico Gretto, ai discorsi su sfighe generazionai varie ed eventuali e.. eh si, gli do proprio ragione! Questa e’ una citta’ collegiale probabilmente – vedo tanti gruppetti di giovani che camminano zaino in spalla per le vie – ma credo proprio che avendo vissuto in certe altre parti del mondo, in certi altri momenti, ce la saremmo spassata molto di piu’! Buon Gretto, sfiga generazionale si, ma anche geografica!! Quando gli zuccheri iniziano ad addolcire i miei pensieri, e a contribuire a dissipare cupi ragionamenti, decido di tornare in movimento, finire il mio piccolo giro in citta’ e riprendere la macchina. Le contigenze d’orario mi fanno fermare a Ventura, localita’ qualunque in riva al mare che pero’ sembra avere una nutrita schiera di motels. Bestemmio per una quindicina di minuti per trovare l’uscita giusta. Quella delle uscite dalle highway, ve lo dico, e’ una piaga. Se non sei munito di esatti riferimenti, di un numero, di una mappa seria, sei fregato. Soprattutto se non hai la minima idea dell’obiettivo da raggiungere. Questa e’ proprio la mia situazione, e si vede: passo i quindici minuti ad uscire, rientrare, riuscire alla stessa uscita ma dall’altro lato della strada, rientrare, provare una seconda uscita, girare il quartiere e finalmente, esalando l’ultima imprecazione, trovare un motel. Sono talmente provato da questa sfida stradale che accetto la camera propostami al prezzo propostomi. Accetto, stavolta non senza mostrare palesemente il mio dissenso, un prezzo di 3$ per l’uso del wi-fi. Purtroppo ho intenzione di girovagare nell’internet qualora finissi a tempo di record con le mie valigie, dunque pago (per la prima e ultima volta, un wi-fi) e mi rintano in camera. Solo dopo aver fatto i soliti 4-5-6 viaggi della disperazione, tra macchina e camera, portando oggetti di qualsiasi fattura, peso e colore. Sono i miei innumerevoli effetti, che dovro’ far entrare in valigia. Comincio con una bella, tonificante doccia. Poi, accendo il pc, ci attacco l’ipod e metto su una colonna sonora adeguata. Per l’impresa dovrebbe essere qualcosa come la colonna sonora della serie Rocky Balboa, ma opto per cose un po’ piu’ soft. Detergenza ok, musica ok, abbigliamento ok.. manca solo una cosa: da bere. Sono privo di qualsiasi forma di liquido che non sia l’acqua che esce dal rubinetto. Ma, e qui mi gioco l’asso, ho un Denny’s giusto dalla parte opposta della strada. Non devo pensare molto per ritrovarmi in infradito ad attraversare la pericolosa strada di fronte. Sono incorreggibile: d’altronde, era quasi scontato che la mia avventura volgesse al termine li’ dove era iniziata quindici giorni prima. In un Denny’s, a gustarsi un hamburger da favola. Entrato, ordino una coca cola e astutamente la chiedo gia’ munita di refill (secondo bicchiere, gratuito). Il cameriere mi guarda un po’ strano e mi dice “Ok, te ne do due”. Captando odore di truffa specifico “Si, ma sotto forma di refill!”. Alla mia seconda obiezione, il cameriere scuote la testa come a dire “ Questo e’ ubriaco”, e alla fine digita qualcosa sulla macchina di cassa, mi porta due grossi bicchieri pieni di ghiaccio e cola, due cannucce e mi porge lo scontrino. Totale: 1.99$. Sono – non so perche’ – felicissimo. Torno al motel con due missili sottomarini pieni di fresca, dissetante coca cola per aiutarmi a smaltire le prossime ore di fatiche. E comincio il mio duro lavoro. Fra vestiti, biancheria sporca, libri, cianfrusaglie varie, cappelli, scarpe, mappe e qualsiasi altra cosa abbia trovato in macchina, quest’operazione mastodontica di pulizia dura quasi 3 ore. 3 ORE! Ok, so che ora starete ridendo di me ma.. io preferisco fare con calma, ponderare sulla strategia migliore. E infatti, riesco a portare a casa comodamente in valigia anche la mia vecchia Wenzy, la tenda che mi ha ospitato per 4 notti negli altopiani del Sud. Sono orgoglioso di tutto cio’, e vado a riposare contento, con il letto – almeno per una volta – sgombro da qualsiasi cosa. Domani sara’ il mio ultimo giorno negli USA. La tristezza dell’imminente ritorno si scontra con la gioia per l’aver vissuto questi giorni stupendi, indimenticabili. Iniziano gia’ a tornare alla mente ricordi di luoghi e persone che hanno caratterizzato questo mio straordinario soggiorno, che certo mai scordero’. Ma non ho ancora messo il punto su questo viaggio, devo ancora scrivere l’ultima parola. L’ultima, infatti, si chiamera’ “Los Angeles”, anche se cio’ un po’ mi preoccupa.
domenica 27 novembre 2011
Giocare a tetris (con le cose da mettere in valigia) - pt.1
Com’e’ che dicono, “vivi ogni giorno come fosse l’ultimo”. Spero proprio non sia il mio ultimo giorno in America, spero di viverne tanti altri in questa dura, difficile ma dannatamente bella terra. Quel che so per certo e’ che per ora, purtroppo, questo e’ l’ultimo giorno intero che ho da spendere in questo viaggio. Quando la mattina ci si alza con questa sensazione e’ sempre difficile iniziare la giornata con il piede giusto. Io poi, per mia natura, sono sempre volto al futuro, e in questo caso futuro vuol dire volo, Italia, casa, LAVORO. Oh men! Pensiero angosciante. Riprendere il solito ritmo, nella solita citta’, con la solita gente. Il solito lavoro. Piu’ che svegliarmi, stamattina, piombo in una specie di incubo fin troppo reale. Mi schiaffeggio per costringermi a concentrarmi sul dolore fisico, mi alzo violentemente dal letto e vado in bagno per rinfrescarmi le idee con un bel po’ d’acqua fresca. Rewind, riparto da capo. Inizio quindi la mia giornata vestendomi in modo quantomeno civile, riordino le mie cianfrusaglie, che stasera (gia’ tremo al pensiero) dovro’ vedere di far stare nelle mie due valigie, e scendo le scale. Come al solito, sembro un addetto di un impresa di traslochi. Mi manca solo quache mobile e il trucco e’ perfetto. Scendo le scale con zaino, valigie, cappelli, scarpe, infradito, maglie & magliette varie che non stanno nelle valigie. Magari, ecco, piu’ che un’impresa di traslochi, uno zingaro. Di quelli seri e convinti. Passo alla reception a salutare la mia amica indiana, la saluto invitandola a venirmi a trovare in Italia prima o poi – magari prima, che non mi dispiacerebbe lasciare il mio paese per mete migliori sinceramente! – e mi imbarco sul mio mezzo, che parte in direzione “colazione”. Direzione piuttosto grossolana che mi conduce, stamane, in un modesto posticino di quelli che a me ispirano moltissimo ma che in questa fattispecie mi delude un po’. E’ un piccolo “bar”, come lo chiameremmo noi, dove una giovane ragazza si occupa del front-office e del servizio ai clienti. Ci sono appena una quindicina di coperti. Prendo posto al bancone fronte-strada e ordino un cinnamon & raisins waffle con panna montata. Bevo il mio caffe’, pago la mia colazione senza infamia senza lode e mi dirigo verso qualche bella spiaggia. O almeno, provo a trovarne qualcuna di bella. Per adempiere a questo compito vado ad orecchio: mi fermo su spiagge i cui nomi mi ricordano film, nomi famosi, gia’ sentiti, orecchiabili. E’ con questa metodica che arrivo a Pismo Beach (chi cazzo la conosce?!). Parcheggio la macchina sul lungo mare, o lungo oceano che dir si voglia, e faccio due passi sulla sabbia. Nell’aria fresca del mattino, quando il sole batte ma non scalda ancora, vedo gia’ parecchi temerari che surfano. Vedo un’allegra combriccola di arzilli vecchietti che passeggia raccontandosi chissa’ cosa e osservando i citati surfisti. Vedo, infine, la macchina gialla e rossa della LifeGuard, la pattuglia delle spiagge che noi conosciamo perlopiu’ per la serie Baywatch. La scena che vedo io fa molto film, molto Baywatch. Salgo sul pontile che si allunga verso le acque e scatto qualche foto. Sono pero’ stracciato in quanto ad attrezzatura e professionalita’ da un collega – collega, diciamo che lui e’ serio io no – che sta fotografando alla mia destra. Ha un teleobiettivo enorme, di marca, e non posso esimermi dall’ammirarlo. Quando mi accorgo che egli mi sta fissando, gli faccio un cenno d’assenso, un “ok” col pollice volto all’insu’, sorriso sulle labbra. Vedendolo ricambiare, con espressione simpatica, mi avvicino per scambiare due parole. Il mio nuovo amico si chiama Brent, ha 61 anni ed e’ Californiano. Chiedendogli un po’ del suo pezzo d’artiglieria – per cui ha speso la bellezza di 11mila dollarozzi – vengo a sapere che e’ un appassionato di surf, per cui (?) passa spesso del tempo a fotografare amici e sconosciuti mentre solcano impavidi le onde dell’oceano. E’ talmente appassionato di surf che ha addirittura un sito, rinomato a quanto pare, dove pubblica le foto che scatta. L’unica cosa che a me non torna e’ che, per quanto appassionato sia, non mi racconti neppure di quanto e dove surfa lui! Il perche’ e’ presto svelato: lascia surfare gli altri. Saggio, l’amico. E’ un repubblicano, che pensa che Obama non abbia il polso della situazione anche se e’ stato sfortunato ad esser eletto in un periodo cosi’ difficile. Dice che forse, altrimenti, sarebbe una brava persona. Parliamo di Berlusconi (la classica domanda, “Che ne pensi di Berlusconi?”, come fosse una sorta di divinita’ del teatro comico conosciuto in tutto il mondo), delle ragazze italiane (mi chiede quanto siano carine da uno a dieci. Per quanto mi riguarda, do un 6/7 sulla media) e di cosa sto facendo io. A tal proposito, mi da del ragazzino. Del “kid”. Mi dice di viaggiare, girare il mondo, esplorare, saziare la sete che sento dentro di me. Per fermarsi, mettersi a posto, far su famiglia, per quello c’e’ sempre tempo! Pare che abbia girato il mondo Brent, dalle parole che mi rivolge. Invece, scopro che non ha ancora visto posti bellissimi della sua nazione. Un po’ avventatamente, forse quasi scortesemente, manifesto meraviglia in cio’. Mi capita sempre quando sento di un americano che non ha ancora visto il Grand Canyon, o Yosemite, o Yellowstone. O Bryce. Dando un occhio all’orologio e vedendo il tempo scorrere inesorabilmente, lo quasi ammonisco dicendogli di andare in quei posti, di non perderseli. Di lasciare un po’ da parte il surf e di partire con sua moglie alla scoperta del proprio paese. Credo che un po’ gliene sia venuta voglia, tutto sommato! Ci salutiamo calorosamente e, scaldato da una stretta di mano sincera e dal sole sempre piu’ alto nel cielo, riprendo la mia via verso Sud. A Lompoc, un paesotto poco piu’ avanti, sono colto da un sottilissimo languorino amplificato ad incontenibile buco sullo stomaco dalla mia insaziabile golosita’. Infatti, mi avvedo di un piccolo chiosco di DONUTS a lato della strada che, essendo semi deserta, mi consente di svoltare repentinamente e di imboccare la via della ciambella. Entro: locale gestito da un cinese, ma poco importa. Non sono razzista, in quanto a cibo. Se sono in America, va tutto bene. L’assortimento affonda i sensi. Stordisce. Affogo fra ciambelle di ogni forma e colore, vuote o ripiene, con o senza sprinkles. Dopo i classici 5 minuti a braccia conserte meditando sull’amletico dubbio gastronomico, faccio la mia scelta: ordino al cinese una ciambella classica glassata bianca con sprinkles e una di forma allungata, glassata al fudge e ripiena di quella morbida, deliziosa cremina bianca (che sara’ grassissima e fatta prevalentemente di burro, vorrei supporre). Spendo felicemente quei pochi dollari e divoro le mie ciambelle non appena rientrato in macchina. E cosi’, tra una ciambella e una curva, una curva e una ciambella, arrivo a Jalama Beach, posto che un avventore al chiosco mi aveva caldamente consigliato e di cui aveva avuto cura di ripetermi le indicazioni stradali per una decina di volte. La strada che mi ci porta e’ poco frequentata, dispersa tra enormi piantagioni dove lavorano i classici, poveri messicani pagati forse 4-5$ l’ora, ma anche fra infiniti vigneti che fanno assomigliare questo paesaggio collinare alle nostre colline toscane. Solo che – e nessuno potra’ contraddirmi – l’orizzonte visivo e’ UN PO’ piu’ ampio. Giusto un po’. Virando bruscamente a destra e a sinistra la strada scava il suo percorso fino a raggiungere la spiaggia, passando qualche pascolo e qualche nido di rapaciazzi. Seguo la costa per un miglio ed eccomi arrivato. La sorpresa: la spiaggia, come dovevo imparare a conoscere prima, e’ un parco. E come tutti i parchi, statali, provinciali, comunali o rionali che siano, esigono un pedaggio per lasciarti entrare. Qui a Jalama Beach vogliono 10$. Gli esosi, vogliono vedermi mendicare per Los Angeles per mangiare! Eppure, attratto dalla promessa di spiagge favolose, e soprattutto di hamburger enormi (WORLD FAMOUS, mi sparano!) pago ed entro. Solo dopo realizzo, con un DOUH! alla Homer, che hamburger uguale altra spesa. Ormai il danno e’ fatto, ed entro in modalita’ “guadagna il massimo da questi 10$”. Mi cammuffo da bagnante – pantaloncini, canotta, cappello di paglia, occhiali da sole, infradito – ed inizio a camminare lungo la costa, sulla sabbia. Passo una bella addormentata sulla battigia, non una grande figura per quanto mi riguarda, e mi fermo a guardare l’orizzonte intero. Forse qui non hanno ben chiaro nella testa cosa sia una "bellissima spiaggia". Sara’ che si sbagliano loro, o sara’ che avendo girato un po’ fuori di casa ne ho viste molte altre di spiagge, ma i conti non mi tornano. Sinceramente, ho visto posti ben migliori in Scozia, ad esempio. Ripenso alla mia teoria secondo cui lassu’, se d’estate ci fosse qualche grado in piu’ e l’acqua non avesse pezzi di ghiaccio galleggianti, i turisti non andrebbero a Sharm, ma li’. Sharm fallirebbe, non se la filerebbe piu’ nessuno, a parte qualche conturbante signora single non piu’ sulla cresta dell’onda ma incorreggibile nella sua ricerca di qualche povero giovanotto da tormentare. Scozia, Irlanda, o perche’ no, Norvegia, Finlandia, diventerebbero le mete preferite dagli amanti della balneazione. Peccato che stando cosi’ le cose, nessuno di loro abbia voglia di buscarsi la malattia a meta’ estate. Dovranno aspettare solo qualche lustro pero’, continuare ad inquinare e degradare il pianeta come stiamo gia’ facendo, ed ecco che con l’aiuto di mr. Riscaldamento Globale nel giro di una ventina d’anni o poco piu’ potranno fare comodamente il bagno a Bettyhill, Scozia, durante le ferie di luglio. E senza tuta da sommozzatore!! Chiusa la mia quotidiana vena critica, focalizzo la mia attenzione al trarre il massimo dalla spiaggia in cui mi trovo. E’ molto lunga, sembra infinita, e abbastanza larga che al gestore di un lido a Sottomarina (Venezia) farebbe venire le bave alla bocca. Gli accessi praticamente non esistono: c’e’ solo quella piccola, ridotta imboccatura da cui sono entrato io, collegata al parcheggio. Poi, ci sono solo distese di alte scogliere che proteggono la spiaggia come fosse il castello di un antico re. Scogliere che, manco a dirlo, ospitano una nutrita schiera di uccelli marini, per cui mi ritrovo presto a camminare sorvolato da gabbiani prima, pellicani poi, e volatili non ben identificati in ultima istanza. Sembra una voliera a cielo aperto! Trovato uno scoglio abbastanza piatto da ospitare le mie onorevoli chiappe senza arrecar loro danno, mi ci appollaio e provo a prendere il sole. Impossibile: subito un paio di fameliche mosche si precipitano sul mio corpo senza scopo apparente se non quello di infastidirmi. Rinuncio al sole. Provo a dedicarmi alla fotografia: poca cosa, visto che l’unico soggetto interessante che trovo da immortalare e’ la risacca che, con tempo di esposizione lunghi, crea strani effetti. La mia vena pero’ si esaurisce presto e cosi’ anche la mia voglia di rimanere seduto su un sasso ad arrostirmi senza far nulla. Faccio per tornare allo zaino, deposto all’ombra della scogliera, quando maldestramente poso il piede su un’aguzza radice che si trova in mezzo alla sabbia. Credo non sia nulla, e vado avanti. Pochi secondi dopo pero’, sento un forte bruciore. Guardando in basso, vedo l’alluce destro di una tinta rossa che non ricordavo, cosa che mi fa esclamare “Cazzo!”. Mi son ferito – dai, tagliato, non esageriamo i termini! – al dito, evidentemente quella radice e’ stata piu’ perniciosa del previsto. Non volendo giocare ai castelli di sabbia su ferita, provo a pulirmi alla buona e a chiuderla. Tiro fuori dal mio zaino BearGrylls-equipped un po’ di cotone ed un cerotto, con i quali riesco a chiudere il taglio. Per il momento. L’area e’ piu’ grande del previsto. Non contento, anzi direi proprio incazzato, decido di tornare verso la macchina.
venerdì 25 novembre 2011
"..Cruising down Big Sur.." - pt.2
Rimango parecchi minuti a contemplare l’immensita’ che ho davanti, la forza delle onde che su questa larga spiaggia che osservo si trascinano a riva fino ad esaurirsi in una lunga cortina spumosa. Mi vengono in mente quelle volte in cui, alla tv, sento parlare di onde alte 10-15, addirittura 20 metri che distruggono tutto cio’ che incontrano. Gli tsunami, no? Io ascolto queste notizie piuttosto scettico, incredulo al pensiero che un onda marina possa essere alta come il palazzo in cui abito. Ebbene, solo ora capisco. Ora che mi trovo, in una giornata piatta, soleggiata e in assenza di vento – c’e’ solo l’immancabile brezza oceanica che mai potra’ assentarsi – a vedere onde di un paio di metri, capisco che quando le forze della natura si scatenano, non dev’essercene per nessuno. Come San Tommaso, ora ho visto e credo. In altre occasioni, per inciso, spero di poter credere anche senza dover per forza vedere, caro Tommaso! Tornando a Big Sur, continuo a meravigliarmi della natura che mi circonda. Se alla mia destra ho lo sconfinato oceano Pacifico e i suoi flutti, alla mia sinistra ho verdi colline che a volte son macchiate da qualche sporadico arbusto, da una piccola foresta, o dalla casa di qualche fortunato che – comprensibilmente – ha voluto muoversi fin qui per passare la vecchiaia in un posto decisamente delizioso. La strada si snoda lungo la costa fra dirupi, canyon e ponti che si sposano perfettamente con l’ambiente naturale, senza rovinarlo o degradarlo. I fiori, che spesso si incontrano anche in questa stagione, sono gialli, rossi, arancioni e bianchi, e contribuiscono nel loro piccolo a colorare ancor piu’ la scena. Guidare e’ un vero piacere. Senza fretta, senza l’assillo di dover per forza essere in un certo posto ad una determinata ora. Per quanto mi riguarda, potrei anche trovarmi a passar la notte nel bel mezzo della regione, in macchina, senza cibo. Tutto sommato, non sarebbe poi cosi’ brutto. Forse addirittura ne trarrei beneficio! Un luogo dove pero’ non posso (o non voglio) avventurarmi e’ la strada che dalla 1 svolta ad est verso Paso Robles, una strada tortuosa che si inerpica verso l’interno dei monti centrali e porta alla cittadina di Paso Robles appunto. Devono esserci dei gran begli scorci da quelle parti, e forse la natura risulterebbe ancor piu’ selvaggia, piu’ “The Last World”. Pero’, io che sono quello dei “rischi calcolati”, non mi accingo a dirigermi verso mete sconosciute, potenzialmente irraggiungibili e soprattutto all’imbrunire perche’ potrei rischiare di trovarmi in mezzo ai coyote e ai puma nel cuore della notte. Continuo sulla 1. Una cosa che mi si palesa altrettanto rapidamente e’ l’abbondanza di fauna. Avvisto, giusto sotto una curva che compie la strada, una piccola baia letteralmente ricoperta di elefanti marini. Mi avventuro in mezzo alla sabbia per fare qualche bella foto. Sono veramente tanti! Tutti assiepati su 5 metri di sabbia, a dormire, sonnecchiare, o giocare animatamente. Alcuni sono in acqua a procacciarsi del cibo. Quando sbadigliano, si intravedono i grossi denti che questi all’apparenza innocui animali sembrano non possedere. Piu’ in la’, dove l’oceano di apre, alcuni pellicani sorvolano le proprie prede acquatiche. Improvvisamente, eccoli tuffarsi “a chiodo”, aerodinamici, ali chiuse, verso il pesce che hanno individuato. In un attimo, l’uccello e’ in acqua con un pesce nel becco. Anche qui, non so perche’, ma e’ quasi ammaliante fissare questi uccelli mentre perlustrano le acque alla ricerca di un pesce, compiendo una sorta di dietro-front ogni 10-15 secondi, tornando indietro fino a quando l’obiettivo non e’ nel mirino. A quel punto, scatta l’attacco. Io vorrei provare invece a scattare una foto ma la lontananza del bersaglio e la complicita’ della luce ormai calante renderebbero l’impresa ardua. Mi concentro solo sulle bellezze che mi circondano. Scendendo verso sud, incontro sulla mia strada il paesino di Big Sur, un ammasso comunque modesto di motels e B&B, grazioso, non eccentrico ne’ eccessivo. Sempre sulla strada, incrocio dei campgrounds magnifici: erba verdissima e tagliata come fosse un campo da calcio, piazzole linde, panche bianche come quelle di una residenza presidenziale. In piu’, la bellezza inqualificabile dell’oceano dove tramonta il sole. Un sogno. Rimpiango di aver gia’ venduto il sacco a pelo e di non avere piu’ tarps. Le notti qui, a sensazione, devono essere piuttosto umide. Un’altra cosa che mi colpisce e’ l’abbondanza di quelli che io chiamo (ormai e’ un marchio di fabbrica), “rapaciazzi”. E’ pieno di rapaci ovunque: sugli alberi, in volo, per terra, sulle staccionate. Ovunque si giri lo sguardo si intravede qualcosa di piumato e piuttosto grosso. E poi, non solo rapaci, anche tanti altri pennuti di specie non identificabili, data la mia scarsa conoscenza in materia. E’ da tanto tempo che desidero acquistare una field guide o, ancor meglio, un libro della Audubon Society per erudirmi in merito ai volatili americani, ma non ho mai voglia di sborsare 25-28$ per un libro che, lo so, guarderei solo a colazione per le immagini colorate. Come un bambino. Come facevo da bambino: solo che all’epoca leggevo Topolino (cosa che peraltro faccio ancheadesso, saltuariamente). A proposito di rapaciazzi invece, volevo spezzare una lancia contro l’Irlanda, mia scorsa meta di viaggio. Ricordo benissimo le guide consultate che la dipingevano come un “paradiso del birdwatching”. Non faro’ il nome della guida per evitare di gettarvi discredito. Ma per Diana, l’Irlanda e’ tutt’altro che un paradiso del birdwatching! Vedere un rapace da quelle parti e’ come vedere un cammello alle Hawaii! Non ho una foto di tali creature tra 700 scatti presi in dieci giorni, a riprova. Questo, il Big Sur, puo’ dirsi un paradiso, soprattutto per quel che io chiamerei “rapaciaz-watching”. Here it’s amazing. Purtroppo, non ho tempo da perdere in appostamenti, scatti e quant’altro, e sapendo che gli ultimi sprazzi di luce mi varranno solo una bella foto del tramonto sul mare, lascio perdere i pennuti e cerco un bello spot dove godermi il sole che si inabissa sull’oceano. Lo trovo poco piu’ avanti sulla strada, in una piazzola dove mi fermo dopo che un poliziotto (e daje! Non vedo l’ora che finisca questo viaggio solo perche’ ne ho abbastanza di sentirmi un fuorilegge per qualsiasi cosa faccio!) mi aveva intimato di spostare la macchina in un baleno altrimenti mi avrebbe fatto una multa. La contravvenzione? Avevo lasciato la macchina per due minuti contromano MA a lato della strada, stavolta senza invadere la carreggiata. Bah, ormai ho rinunciato a guidare come si deve, tanto qualsiasi cosa faccio pare non vada bene. Mi sento braccato dalla legge. Mi conforta solo il caldo colore del tramonto oceanico. E’ l’imbrunire, e sono ancora beatamente in maniche corte. Immortalo un soggetto un po’ atipico, un gabbiano particolarmente a suo agio con i servizi fotografici a quanto pare, con il sole che, alle sue spalle, scende sotto le nuvole all’orizzonte. Mi giro verso sinistra e, magicamente, l’arcobaleno. La scena e’ idilliaca, di quelle che trovi dipinte solo in quadri esposti nei musei piu’ blasonati. Da una parte il blu dell’oceano, chiazzato di bianco dalla spuma delle onde. Dall’altra, il marrone scuro della nuda roccia e quello un po’ piu’ chiaro della terra, frastagliata, irregolare. Nel mezzo, non convenzionale, quasi verticale, un forte e ben definito arcobaleno, che quasi non arriva a lambire le acque. Un’immagine quasi irripetibile, di quelle che madre natura ci fa ammirare per pochi secondi soltanto, effimere. Un effetto tipo anteprima, come se stesse a dirti “Guarda un attimo qui, ma non dirlo a nessuno!”. Mi sento ancora una volta fortunato, graziato, dunque contento. Ho i brividi che mi corrono lungo la schiena mentre, con mano poco ferma per l’emozione, immortalo la scena. O almeno, ci provo, perche’ la maestria di madre natura non e’ immortalabile nemmeno da l piu’ bravo dei fotografi, tenetevelo bene in mente! Come un lupo di mare, piedi ben fissi su uno scoglio, scruto un’ultima volta l’arcobaleno che si dissolve all’orizzonte, inarco le labbra e annuisco col capo in segno di approvazione, e, realizzato, torno in macchina per l’ultimo, felice pezzo di strada. Questi momenti non si comprano. Quel che puoi comprare, al massimo, e’ un passaggio in aereo verso posti dove essi possono essere vissuti. Questo e’ quel che io credo di fare, adesso. E non mi stanchero’ mai di ripeterlo, non esiste a parer mio un modo migliore di spendere il denaro. Non esiste. La beneficenza e’ un’altra cosa, e in quanto a nobilta’ la cosa non si discute. Ma in quanto a comprare qualcosa, ecco, non c’e’ eguale. Una macchina non ti soddisfera’ mai altrettanto! Mi accontento della mia CuboCar per continuare lungo la 1 e scendere fino a Cambria, localita’ incastonata fra le colline che io trovo amabile. Assolutamente imperdibile. A prima vista, e credo anche a seconda, finisce dritta nella mia momentanea top 10 delle small towns in cui vorrei vivere. Cambria, California. Un villaggio di 6000 abitanti che sorge lungo la strada, protetta dalle colline e da fitti boschi che fanno sentire un po’ sicuri, danno una sensazione paragonabile al “calduccio” delle coperte in inverno. Poco distante, la spiaggia, bianca, assolata. Coyote e cervi visitano il paese, ogni tanto. La Main Street e’ tutta un negozio, una bottega, la casa del medico. I parcheggi sono fronte strada. Nessun WalMart, MostroMart o MegaShop qui. Nessun segno di megalomanie stile WestCoast, nessuna robaccia per turisti. Un semplice borgo vecchio stile, cosa che non posso fare a meno di amare. Ci guido attraverso per venti secondi, ma mi sembra di averci passato gli ultimi 6 mesi, a Cambria. Ci tornero’, spero. Un’altro posticino carino e’ la citta’ seguente, Morro Bay. La citta’ – 14.000 abitanti circa – prende il nome dalla grossa, possente roccia che si staglia sulla spiaggia di fronte, Morro Rock, appunto. Una roccia alta 177 metri che sa tanto da isola sperduta, stile Jurassic Park (troppe cose Jurassic style quest’oggi), e che all’alba e al tramonto e’ semplicemente bellissima. Sara’, forse, solo un rifugio per uccelli, coperto di feci d’uccello e penne d’uccello, ma visto dalla spiaggia al calar del sole e’ stupenda. Noto, e non serve che mi dia molte spiegazioni del fenomeno, che il 95% delle case piu’ prossime alla spiaggia ha una terrazza panoramica, con varie sdraio annesse. Con un panorama cosi’, credo che nessun abitante della citta’ voglia negarsi il piacere di rientrare da lavoro, accomodarsi sulla sua sdraio, un drink in mano, magar un bel libro, e godersi lo spettacolo del tramonto sull’oceano e la Morro Rock. Non sapete quanto invidio quelle persone. So che e’ una brutta cosa, l’invidia, ma vogliate perdonarmi, voi tutti. Quando passerete da quelle parti, forse capirete cio’ che intendo dire. Passo oltre Morro Bay, la sua roccia, le sue case con ampie finestre panoramiche e terrazze armate di sdraio, la sua via principale ampia e ornata di motel, e faccio le ultime miglia fino a San Luis Obispo. Non c’e’ nulla di carino qui, al contrario delle cittadine precedenti. E’ piu’ grossa, piu’ caotica, meno scenografica. Anzi il mare non si vede neanche di striscio. Se qualcuno si domandera’ perche’ abbia voluto fermarmi qua, ebbene, la ragione e’ presto detta: spero di trovare posti a dormire piu’ facilmente e a prezzi piu’ economici. Anche se trovare un motel qui in giro sembra un’impresa di non poco conto. C’e’ una festa giu’ in paese e molte strade mi sono precluse. Quelle che guido io sono ovviamente prive di alcuna struttura ricettiva. Non vedo le solite insegne luminose di motel e hotel (sto iniziando a pensare che di notte le spengano per complicarmi il compito, stronzi bastardi). Deciso a tornare indietro e ripercorrere tutta la Main dall’inizio alla fine, mi imbatto in un motel a lato della strada con un’insegna verdognola. Non ci penso due volte e giro bruscamente, guadagnando il parcheggio. Alla reception trovo una giovane ragazza indiana di nome Karamjit, con cui anche se son parecchio stanco parlo un po’. Le parlo del mio viaggio che aime’, sta finendo, di come sto viaggiando da solo, di quanto mi sia finora divertito. Le chiedo la password per usare internet e alla fine, ci scambiamo il contatto Facebook. “Dammi 5 minuti che salgo in camera, mi connetto, e ti confermo l’amicizia”, le dico! E cosi’ faccio. Dopo una giornata quantomai mutevole, ricca di imprevisti, di bellezze, di momenti gloriosi, sono pronto a coricarmi per il mio penultimo riposo americano. Sono contento di aver incontrato Karamjit: nonostante il tempo che abbiamo passato assieme si possa quantificare in 10 minuti – e nonostante non mi abbia fatto sconti sulla camera! (scherzo!) – questa semplice conversazione mi ha reso di ottimo umore. Queste sono le persone che servono mentre viaggi da solo, quelle che anche se sei stanco, o triste, o nostalgico, ti fanno tornare sereno con una bella risata o con un po’ di sana, semplice buona compagnia. Queste sono quelle persone che cito come esempio alle persone che mi chiedono “Ma non ti annoi a viaggiare da solo?”. No, in realta’, ho tanti amici diversi, giorno dopo giorno. E piu’ divertente che mai! Vado a dormire oggi, 6 ottobre, con il Big Sur nel cuore.
mercoledì 23 novembre 2011
Last call: razza umana
Interrompo il mio diario di viaggi per una sola, significativa nota suggeritami dalla visione del TG di questa sera. Cosa voglio dire? Semplice: che il mondo sta ufficialmente andando a puttane. Ha iniziato ufficialmente la discesa verso un punto di non ritorno. Ci siamo voluti male per troppo tempo, abbiamo fatto male per troppo tempo, ed ora iniziamo a sentirne gli effetti. Ma andiamo con calma.
Secondo i Maya il mondo dovrebbe finire il 21 dicembre 2012. Non finire, secondo alcuni, ma quantomeno subire profondi, begativi mutamenti che potrebbero come no mettere a repentaglio l'esistenza della vita umana. Guerre? Meteoriti? Invasioni aliene? Scarichi dei cessi che esplodono e inondano il mondo di merda? Puo' darsi.
Io a riguardo ho la mia teoria. All'inizio era balzana, ora la vedo corroborata giorno dopo giorno dalle notizie che sento al TG.
ECONOMIA: tracollo dei mercati, sfiducia degli investitori, crollo delle quotazioni di qualsiasi titolo, difficolta' per qualsiasi azienda, meno soldi, meno ricchezza (per la gente media), piu' ingiustizia. Scenario tragico, questo. Credetemi, lavoro in banca e ho modo di tastare parecchi polsi per quanto riguarda il pensiero sulla situazione economica attuale. La gente ha paura, e non solo i pensionati. Io stesso, ho paura. Lavoro da due anni e vedo i miei pochi risparmi evaporare giorno dopo giorno. Perdere cifre a 4 zeri a 24 anni.. cazzo, non e' bello. Ti mette una strizza da paura, e' roba da farti nascere male e finire peggio la giornata. Devi essere forte per sorridere durante il giorno, e grazie a Dio spesso lo sono. L'economia - per ragioni che non capisco a fondo e che non provo a dibattere in questa sede - sta andando in malora, il dio denaro ha schiavizzato troppa gente ed ora sta pretendendo il suo avido compenso in termini di rovina finanziaria di molte persone. L'economia, e' una causa e un motivo per cui il mondo potrebbe finire.
GUERRA: dai cazzo, pensate alla fame dei popoli africani. Pensate a tutta quella gente che sotto il culo ha oro, diamanti e chissa' cos'altro ma mangia merda una volta alla settimana. Mentre il vicino potente si prende tutta la grana e si costruisce le ville in Thailandia, i campi da golf in Scozia e le spa private a Miami. Quell gente - in Africa come in Asia, in Europa e in Sud America - prima o poi si rompera' le palle. Prima o poi - lo stiamo vedendo in Nord Africa - si stanchera' di tiranni, conquistatori e prepotenti e spacchera' culi a destra e a sinistra. E allora, saranno cavoli. E il bello e' che non potremo nemmeno avere il coraggio di contraddirli, perche' fondamentalmente saranno nel giusto. Le guerre, per fame, ricchezza o potere che siano, sono causa e motivo per cui il mondo potrebbe finire.
AMBIENTE: perche' diavolo alla tv sento gente allarmata che parla di riscaldamento globale? Anzi, perche' diavolo sento gente che si lamenta che d'estate fa troppo caldo, d'inverno troppo freddo, in autunno piove troppo e in primavera.. e' troppo primavera?! Perche'?? Perche' siamo una razza - si, noi esseri umani - di teste di cazzo. Siamo noi che distruggiamo il pianeta, che ci siamo impegnati alacremente per decenni a portarlo alla disfatta, ed abbiamo anche il coraggio di lamentarci. Ah, giusto. Forse la gente non collega le cose. Chiaro. Poveri cretini. Chissa', magari quel giorno di pioggia fissa come una cagata di una mucca e che provoca alluvioni, frane e morti, e' il segno di qualcosa?! Forse no. Ma magari il fatto che capiti anche due giorni dopo a poca distanza puo' voler dire qualcosa?! Naa. Dunque, anche il fatto che queste piogge che sembrano semplici.. piogge, non monsoni, portino morte e distruzione a nord, al centro, a sud, indistintamente, questo potrebbe essere un segno che qualcosa non va?! ASSOLUTAMENTE NO! Ma chi ci pensa! NESSUNO! Ma allora, emeriti cretini che non siamo altro, vogliamo prendere un po' di dati, anche solo riguardanti la nostra povera, malferma Italia, e vedere che le catastrofi ambientali si sono moltiplicate anno dopo anno negli ultimi decenni?! Che sia il caso di darci una mossa?! Che sia il caso di inquinare meno, distruggere meno, fare meno gli irresponsabili?! NO. Perche' vediamo solo quel che ci fa comodo vedere, e continuiamo a fare quel che ci fa comodo di fare. Sappiao benissimo trovare altri colpevoli, diversivi, pagliativi piu' o meno adeguati. Ma come si dice, "il lupo perde il pelo ma non il vizio". Occhio pero', che se questo e' l'andazzo il lupo rischia di perdere anche la vita, stavolta. L'ambiente, l'ambiente e' causa e motivo per cui il mondo potrebbe fallire.
Ne ho dette abbastanza? Tre. Il numero perfetto: economia, guerra, ambiente. Tre materie, tre macrosfere che rischiano potenzialmente di far esplodere il mondo. In senso metaforico, per ora. Si, perche' non si sa mai che qualche meteora non decida di fare un viaggetto sul nostro pianeta. Ma questo, forse, e' da escludere.
I Maya hanno predetto questa fine del mondo. Loro poi, qualcuna ne hanno gia' azzeccata. E allora, cari esseri umani, noi che crediamo alle cose piu' stupide e facciamo le cose piu' stupide, proviamo a credere anche a loro. Noi che crediamo ai politici e ai loro programmi elettorali, che siamo colti da compassione per i cagnolini abbandonati ma facciamo morire di fame milioni di bambini africani, che crediamo a Nostradamus e ai Maya ma non al signore Gesu', che pensiamo che le alluvioni siano demerito delle amministrazioni locali (a volte, un fondo di verita' c'e') ma non pensiamo che in realta' tutto il mondo incontra catastrofi sempre piu' grandi a causa della nostra sciatteria.. Ebbene, cari esseri umani, proviamo a credere sul serio a questi Maya. L'ANNO PROSSIMO FINIRA' IL MONDO! SUL SERIO!
Chissa' che finalmente, tutti, davvero, iniziamo a riparare alle nostre malefatte, ad essere tutti piu' buoni, piu' diligenti e piu' assennati. Come i propositi di un bambino in una lettera a Babbo Natale.
Altrimenti, nemmeno lui potra' salvarci, stavolta.
Secondo i Maya il mondo dovrebbe finire il 21 dicembre 2012. Non finire, secondo alcuni, ma quantomeno subire profondi, begativi mutamenti che potrebbero come no mettere a repentaglio l'esistenza della vita umana. Guerre? Meteoriti? Invasioni aliene? Scarichi dei cessi che esplodono e inondano il mondo di merda? Puo' darsi.
Io a riguardo ho la mia teoria. All'inizio era balzana, ora la vedo corroborata giorno dopo giorno dalle notizie che sento al TG.
ECONOMIA: tracollo dei mercati, sfiducia degli investitori, crollo delle quotazioni di qualsiasi titolo, difficolta' per qualsiasi azienda, meno soldi, meno ricchezza (per la gente media), piu' ingiustizia. Scenario tragico, questo. Credetemi, lavoro in banca e ho modo di tastare parecchi polsi per quanto riguarda il pensiero sulla situazione economica attuale. La gente ha paura, e non solo i pensionati. Io stesso, ho paura. Lavoro da due anni e vedo i miei pochi risparmi evaporare giorno dopo giorno. Perdere cifre a 4 zeri a 24 anni.. cazzo, non e' bello. Ti mette una strizza da paura, e' roba da farti nascere male e finire peggio la giornata. Devi essere forte per sorridere durante il giorno, e grazie a Dio spesso lo sono. L'economia - per ragioni che non capisco a fondo e che non provo a dibattere in questa sede - sta andando in malora, il dio denaro ha schiavizzato troppa gente ed ora sta pretendendo il suo avido compenso in termini di rovina finanziaria di molte persone. L'economia, e' una causa e un motivo per cui il mondo potrebbe finire.
GUERRA: dai cazzo, pensate alla fame dei popoli africani. Pensate a tutta quella gente che sotto il culo ha oro, diamanti e chissa' cos'altro ma mangia merda una volta alla settimana. Mentre il vicino potente si prende tutta la grana e si costruisce le ville in Thailandia, i campi da golf in Scozia e le spa private a Miami. Quell gente - in Africa come in Asia, in Europa e in Sud America - prima o poi si rompera' le palle. Prima o poi - lo stiamo vedendo in Nord Africa - si stanchera' di tiranni, conquistatori e prepotenti e spacchera' culi a destra e a sinistra. E allora, saranno cavoli. E il bello e' che non potremo nemmeno avere il coraggio di contraddirli, perche' fondamentalmente saranno nel giusto. Le guerre, per fame, ricchezza o potere che siano, sono causa e motivo per cui il mondo potrebbe finire.
AMBIENTE: perche' diavolo alla tv sento gente allarmata che parla di riscaldamento globale? Anzi, perche' diavolo sento gente che si lamenta che d'estate fa troppo caldo, d'inverno troppo freddo, in autunno piove troppo e in primavera.. e' troppo primavera?! Perche'?? Perche' siamo una razza - si, noi esseri umani - di teste di cazzo. Siamo noi che distruggiamo il pianeta, che ci siamo impegnati alacremente per decenni a portarlo alla disfatta, ed abbiamo anche il coraggio di lamentarci. Ah, giusto. Forse la gente non collega le cose. Chiaro. Poveri cretini. Chissa', magari quel giorno di pioggia fissa come una cagata di una mucca e che provoca alluvioni, frane e morti, e' il segno di qualcosa?! Forse no. Ma magari il fatto che capiti anche due giorni dopo a poca distanza puo' voler dire qualcosa?! Naa. Dunque, anche il fatto che queste piogge che sembrano semplici.. piogge, non monsoni, portino morte e distruzione a nord, al centro, a sud, indistintamente, questo potrebbe essere un segno che qualcosa non va?! ASSOLUTAMENTE NO! Ma chi ci pensa! NESSUNO! Ma allora, emeriti cretini che non siamo altro, vogliamo prendere un po' di dati, anche solo riguardanti la nostra povera, malferma Italia, e vedere che le catastrofi ambientali si sono moltiplicate anno dopo anno negli ultimi decenni?! Che sia il caso di darci una mossa?! Che sia il caso di inquinare meno, distruggere meno, fare meno gli irresponsabili?! NO. Perche' vediamo solo quel che ci fa comodo vedere, e continuiamo a fare quel che ci fa comodo di fare. Sappiao benissimo trovare altri colpevoli, diversivi, pagliativi piu' o meno adeguati. Ma come si dice, "il lupo perde il pelo ma non il vizio". Occhio pero', che se questo e' l'andazzo il lupo rischia di perdere anche la vita, stavolta. L'ambiente, l'ambiente e' causa e motivo per cui il mondo potrebbe fallire.
Ne ho dette abbastanza? Tre. Il numero perfetto: economia, guerra, ambiente. Tre materie, tre macrosfere che rischiano potenzialmente di far esplodere il mondo. In senso metaforico, per ora. Si, perche' non si sa mai che qualche meteora non decida di fare un viaggetto sul nostro pianeta. Ma questo, forse, e' da escludere.
I Maya hanno predetto questa fine del mondo. Loro poi, qualcuna ne hanno gia' azzeccata. E allora, cari esseri umani, noi che crediamo alle cose piu' stupide e facciamo le cose piu' stupide, proviamo a credere anche a loro. Noi che crediamo ai politici e ai loro programmi elettorali, che siamo colti da compassione per i cagnolini abbandonati ma facciamo morire di fame milioni di bambini africani, che crediamo a Nostradamus e ai Maya ma non al signore Gesu', che pensiamo che le alluvioni siano demerito delle amministrazioni locali (a volte, un fondo di verita' c'e') ma non pensiamo che in realta' tutto il mondo incontra catastrofi sempre piu' grandi a causa della nostra sciatteria.. Ebbene, cari esseri umani, proviamo a credere sul serio a questi Maya. L'ANNO PROSSIMO FINIRA' IL MONDO! SUL SERIO!
Chissa' che finalmente, tutti, davvero, iniziamo a riparare alle nostre malefatte, ad essere tutti piu' buoni, piu' diligenti e piu' assennati. Come i propositi di un bambino in una lettera a Babbo Natale.
Altrimenti, nemmeno lui potra' salvarci, stavolta.
"..Cruising down Big Sur.." - pt.1
Sono negli Stati Uniti d’America, dunque appena suona la sveglia, mi alzo e finisco la lattina di coca cola acquistata ieri notte in corridoio durante un tremendo attacco di sete. Stupida zuppa di molluschi, sarai anche buona ma fai venire piu’ sete della piu’ piccante delle pizze. Poi svegliarsi alle 7 e bere coca cola, ve lo posso assicurare, non e’ il massimo. E detto da me, abituato a qualsiasi (o quasi) brutalita’ culinaria, la cosa rende. Questo risveglio frizzante anche se un po’ sgasato mi appronta per la giornata, e dopo aver riordinato tutto sono deciso ad uscire fuori dall’hotel, effetti essenziali alla mano, per fare colazione. Faccio per aprire la porta, cappellino in testa e occhiali da sole gia’ infilati – auspicante una lunga giornata di sole per la mia avventura on the road giu’ nel Big Sur – ma anziche’ i raggi del sole trovo ad accogliermi na acqua che Dio a manda. Passatemi l’espressione dialettale, ma necessaria. Colto di sorpresa, mi avvio mestamente dietro l’angolo, quartiere malfamato, ed entro in un bieco localino messicano che ha appena aperto. Anzi, ad onor del vero sta aprendo, perche’ lo colgo mentre sta sistemando gli ultimi tavoli e accendendo le luci. Inaguro la sua spoglia giornata lavorativa. Per colazione desidero una tortillas con mexican beans, egg and cheddar cheese, piu’ breakfast potatoes come contorno. Da bere, ispirato dal clima, una cioccolata calda. Posto pietoso, colazione appena sufficiente, giornata che se inizia cosi’ passera’ agli annali come una delle peggiori delle mie vacanze. Mentre esco dal locale, come nel cartone di Robin Hood quando arrestano il povero Frate Tuck, scende una pioggia battente. Stavolta sopra il cappellino alzo anche il cappuccio della felpa e, come un criminale dei peggiori ghetti di Chicago, torno scuro verso l’hotel. In poco tempo sono pronto per partire, per lasciare questa citta’ avara e puntare altrove. Carico le valigie in macchina e parto, maledicendo per un ultima volta San Francisco. Di sicuro non la recensiro’ e pubblicizzero’ come la citta’ amabile, carina e pittoresca che tutti pensano e descrivono. Il fatto e’, purtroppo, che non e’ ancora finita. Mi viene dato un altro motivo per odiare questo posto: le sue stramaledette strade che vietano di svoltare in uno dei due sensi di marcia. Lungo una delle tante vie del reticolato cittadino in cui mi ritrovo a guidare, molto vicino al’entrata della freeway che devo prendere, mi trovo sommerso da cartelli “NO TURNS” che mi impediscono di prenderla. E avanti uno, due, tre, quattro incroci.. nessuno che mi faccia svoltare a sinistra, il lato dove devo girare ed il lato, fatalita’, proibito. Mi domando: come diavolo faccio ad entrare in autostrada? Mi ci devo teletrasportare forse? Sono forse i cittadini di San Francisco muniti della tecnologia – il teletrasporto – che tutto il mondo vorrebbe possedere? Ne dubito, ed intravedo una soluzione grazie ad una macchina che mi sta di fronte. Infischiandosene bellamente del divieto posto sopra la corsia piu’ verso sinistra, mette la freccia e svolta. Oppresso, stanco, incazzato gia’ all 8 del mattino, lo imito in barba alle possibili conseguenze. Potrei far cambiare idea anche ad un vigile, ora come ora. Salgo sulla 101 e guido verso Sud, direction Los Angeles. La 101, One-O-One, come dicono qui. Quella della canzone “California”, che canta “..driving down the One-O-One..”, proprio come faccio io. Oh, mi piace troppo fare qualcosa che ogni tanto mi capita di canticchiare! E’ una bella sensazione! E con questo stato d’animo idiota, continuo a macinare miglia. Purtroppo, visto il tempo crudele, non posso far altro che volare basso in quanto ad obiettivi di giornata, e cio’ che di piu’ alto posso pormi e’ di visitare il famoso acquario di Monterey. Famos, si, almeno per chi si interessa abbastanza di Stati Uniti e segue NatGeo channel. Diciamo che non e’ molto noto al di fuori della propria nazione. Forse ne capisco il perche’, mentre lo visito. Nonostante il biglietto esoso – 29$, sui quali ottengo un gentile sconto “in fiducia” di 2$ quando dico di essere studente ma senza mostrare alcun documento! – l’acquario non regala molto. O almeno, non regala molto d piu’ degli acquari che ho gia’ visto, ad esempio, a Vancouver o a Denver. Vado sempre a vedere degli acquari, quando posso! I pesci sono una mia passione. Se devo essere onesto, vi diro’, Vancouver rimane ancora il migliore, fra i tre. Monterey e’ comunque notevole, ha tutti i grossi pesci che un grosso acquario deve annoverare, ed addirittura proclama una vasca con il mitico squalo bianco. Appena vedo il cartello vado in brodo di giuggiole. Non vedevo l’ora di vederne uno dal vivo. Vengo pero’ presto smontato, quando nella penombra creata di fronte alla vasca intravedo la creatura nuotare lentamente in acqua. Sara’ un’esemplare di due metri se tutto va bene. Che fregatura, non lo chiamerei neanche squalo bianco. Tutto questo puzza da fregatura, tecnicamente regolare ma comunque fregatura. Cioe’, c’e’ un pesce luna affianco allo squalo che e’ piu’ grande di lui tra un po’! Lascio perdere, e procedo innanzi. Passo veloce le varie stanze, al solito non filo di striscio nessuna delle didascalie esplicative sotto ogni vasca, facendo il turista ignorante e solo osservante. Esco ed al posto della pioggia trovo una bella aria frizzante ed un sole promettente. Felice, esploro quella che sembra una bella stradina vivace, Cannery Rd. Mi imbatto, lungo questa strada che vive sulle spalle degli afflussi turistici al’acquario, in una vecchia conoscenza di Denver, il “Bubba Gump Shrimp Co.”, catena dove mi sono abbuffato di gamberi lo scorso anno. Visito qualche negozio di souvenirs e infine, con calma olimpica, prendo un cinnamon roll con un’invitante glassa bianca, appena sfornato. Mi viene servito quasi fumante, su un piatto fondo di cartone, con forchetta e coltello. Il cinnamon, bello spesso e consistente, e’ DE-LI-ZIO-SO. Spesso ho argomentato contro queste creazioni dolciarie dal sapore troppo deciso dato dalla canella. Invece, devo ricredermi. E’ stupendo, e me lo godo boccone dopo boccone seduto su una panca esposta al sole. Altro che Red Bull ti mette le ali. Potrebbe scoppiare una bomba a cento metri da me e nemmeno me ne accorgerei, tanto sono concentrato su e deliziato da cio’ che sto mangiando. Ripresomi dallo shock – anzi, finito il roll – mi alzo e in macchina guido per Monterey. Sembra una citta’ assolutamente piacevole, vivibile. Le sue dimensioni ridotte, credo attorno ai 37mila abitanti, l’assenza di grattacieli, l’influenza marcatamente spagnola, ne fanno un centro marittimo molto gradevole, di quelli senza eccessi. C’e’ l’oceano e tutto cio’ che comporta (spiagge, surf, pesca, aria fresca), ma anche tanti spazi verdi verso l’interno ed un’urbanistica senza gli obbrobri architettonici delle grandi citta’. L’atmosfera sembra quasi quella familiare delle cittadine del West. Mi piace, mi piace. E’ un peccato non aver tempo a sufficienza per potersi dire “Ora mi faccio due passi qui attorno”, e godersi la citta’ con i giusti tempi. Mi ritaglio del tempo, invece, non appena vedo un Denny’s. L’appetito non e’ grande, tant’e’ che ho da poco terminato il mio dolce spuntino, ma ragazzi, vedere un Denny’s e’ come vedere.. no, ho in mente una battutaccia sporca che per non rovinare il mio appeal britannico omettero’ di scrivere. Comunque, vedere un Denny’s per me vuol dire che sono gia’ dentro. E cosi’ e’ anche stavolta, non fa eccezione. Passato un balordo che si aggira con aria losca per il parcheggio, in cerca di qualche spicciolo o meglio di qualcuno che si fumi un cannone con lui, entro ed ordino una cosa che avevo assolutamente voglia di assaggiare di nuovo. Una mia vecchia conoscenza, dei tempi gloriosi di Page, AZ (sembrano passati millenni invece era solo una decina di giorni fa! Magia del viaggio). Parlo del Mozzarella Sticks Sandwich. Ne prendo uno, giusto per levarmi quel fastidioso, leggerissimo languorino, ma gia’ che son seduto non vedo perche’ non prendere anche un aperitivo, ovvero delle patatine fritte con bacon e formaggio fuso. Sono ormai, tristemente, ufficialmente, un maiale all’ingrasso. Un pollo ruspante lasciato libero di pascolare in America sotto la tentazione di ogni golosita’. Prima o poi il fattore (colui che lavora nella fattoria) mi accoppera’ e si godra’ le mie ricche carni alla vigilia di Natale. Maledizione. Degusto il mio banchetto, assieme alla solita, generosa lemonade mentre leggo i valori nutrizionali di ognuno dei piatti dei Denny’s, tratti da un menu’ apposito che non avevo mai visto prima. Mi pare citi la parola HEALTHY in copertina. Ma dove? Forse davanti c’era scritto anche THAT’S NOT ma non ci metterei la mano sul fuoco. Chissa’. Fattosta’ che non vi diro’ nulla a proposito, primo perche’ il menu’ e’ interamente scaricabile dal sito del franchising, secondo perche’ vi verrebbe la pelle d’oca e mi dareste un’aspettativa di vita piuttosto bassa! Su quest’ultima, spero vi sbaglierete! Colto da improvvisa, lancinante pienezza di stomaco, lascio il locale, passo di nuovo il balordo, faccio un po’ di benzina e parto, stavolta senza piu’ stop fino a San Luis Obispo, una cittadina di media grandezza senza infamia senza lode, che per me segnera’ la fine del Big Sur. Eccolo qui, il Big Sur. Questo e’ cio’ che sto andando a vedere. Ne ho sentito parlare molto bene: selvaggio, pittoresco, scenico, amabile, incarna l’anima selvaggia della California pur non tralasciandone tratti caratteristici come sabbia, oceano e surf. Il Big Sur e’ una regione prevalentemente montuosa, dove l’interno e’ selvaggio tanto da ospitare (ancor’oggi) al suo interno i puma e le aquile che da queste parti stavano invece seguendo il cammino dell’orso grizzly, visto per l’ultima volta ben piu’ di un secolo fa. La vicinanza dell’oceano e delle sue correnti fa si che bassissime nuvole semi-perenni offoschino di continuo le cime dei rilievi montuosi della regione, non molto alti ma estremamente belli e rigogliosi in quanto a vegetazione. La strada che permette di assaporare al meglio questi posti e’ la California 1, un simbolo, lo fa pensare anche il nome. La numero uno. Serpeggia fra spiagge da film, scogliere a picco sull’oceano, altipiani rigogliosi e foreste incantate. Insomma, pare proprio sia uno spettacolo imperdibile, e conscio di cio’ imbocco la 1, speranzoso. Sono solo – che dico “solo”, decisamente! – triste per il fatto che il tempo non sia dalla mia. Il poco sole comparso in precedenza e’ tornato dietro ad un fitto strato di nubi, addirittura seguito da qualche leggera pioggia. Mi viene male al pensiero di guidare una regione mozzafiato come questa circondato da banchi di nubi e con la continua seccatura della pioggia. Il morale scende a picco. Sono combattuto quando mi fermo alla prima piazzola che incontro sulla via. Scendo per ammirare un paesaggio che definisco “primordiale”, in quanto composto da una fitta foresta di alberi tetri, scuri, con quella specie di muschio, lichene, color verde chiaro, che penzola da qualsiasi ramo. Questi alberi, che fanno molto atmosfera Jurassic Park, o per stare ai giorni nostri, mi ricordano molto il Nord Ovest (l’Olympic National Forest), crescono su ripide scogliere di colori che vanno dal rosso all’ocra, per gettarsi sull’oceano che ora e’ ancora scuro, minaccioso, possente. Continuo a guidare, sono appena all’inizio, prima o poi se Dio vuole un po’ di sole mi aiutera’. Non tarda troppo ad avverarsi questo mio sogno. Mr. Sun si rivela in tutta la sua possenza, per non lasciarmi piu’ fino alla fine della giornata, fino al calar delle tenebre. Le nuvole d’ora in poi, nemmeno tante a dire il vero, serviranno solo a rendere il cielo ancor piu’ scenografico nelle mie fotografie. Ed ora che inizio finalmente a godermi la guida, ora che con il sorriso stampato in volto ascolto e canticchio qualche bella canzone country, posso capire a fondo la bellezza di questa splendida regione. Voglio provare – anche se e’ la missione e’ difficile – a descrivere un po’ di questa bellezza. Anzitutto, l’oceano. Con le sue onde, bianche, spumose e apparentemente enormi anche se spira solo una leggera brezza. Appunto, la brezza, che rende l’aria piacevolmente fresca e profumata, un profumo che risveglia il mio spirito marinaro. Il mio pensiero vola quindi a qualche astratta considerazione suggeritami dal mio fissare l’acqua, per qualche minuto. Penso che l’oceano, questa tremenda forza della natura, sia una cosa alquanto temibile. Puo’ distruggere, persino uccidere, creare catastrofi. Spesso pero’, per fortuna, ammalia le persone, le fa innamorare di se’ al punto che alcuni decidono di dedicargli la propria vita. Io sono inspiegabilmente attratto dall’acqua, dal mare, e dall’oceano ancor piu’. Sottolineo la parola “inspiegabile”, non c’e’ un motivo preciso per cui uno e’ attratto da esso. Non e’ perche’ a qualcuno piace il colore dell’acqua che si finisce per spendere una vita tra i flutti. Pur affascinato dall’acqua, sono anche il primo a temerla. Di conseguenza, a rispettarla. E alla fin fine, credo che il nocciolo della questione sia questo, il rispetto. Come noi otteniamo amicizia e benevolenza da una persona che ammiriamo e rispettiamo, cosi’ funziona con il mare – e con la natura in genere. Potremmo mai ottenere benevolenza da qualcuno che noi per primi non rispettiamo, tralasciamo o addirittura ignoriamo? Non credo, a meno che non ci troviamo di fronte a dei veri e propri santi. Purtroppo pero’ le forze della natura non sono “sante” e nemmeno “benefattrici”, e se non le rispettiamo e allo stesso tempo temiamo, non ci restituiranno mai nulla. Forse anzi, ci toglieranno qualcosa.
lunedì 21 novembre 2011
The thing is gettin' unbelievable
The thing is getting unbelievable (cosi’ riporta il diario originario dell’autore). Ricordate la puntata dei Simpson, Homer contro la citta’ di NY, che avevo citato in precedenza? Ebbene, credevo di averlo fatto in modo genuino, simpatico, cosi’ per addolcire un po’ l’acidita’ di stomaco montata gia’ nella prima giornata a San Francisco. E invece mi ritrovo a pensare che devo essermi tirato dietro una nera (trad. SFORTUNA) da paura, di quelle mai viste prima zio cowboy. Il perche’ e’ presto detto. Esco di casa, anzi, d’albergo, alle ore 8, dopo una frugale colazione consumata nel piano interrato dell’hotel semifrancese. Della colazione non voglio ricordare nulla, perche’ rispetto ai comuni standard americani piu’ che una colazione e’ stata uno stuzzichino. E la cameriera mi ha anche semiforzato a lasciarle una mancia. Micragnosa fino all’osso. Le ho lasciato un dollaro giusto per darle il contentino, alla faccia sua! Ricordo invece di esser sceso con la mia brand-new tshirt dei Green Bay Packers (squadra di football americano, campione in carica di NFL) e di aver incontrato una signora che mi dice “Oh, Packers fan?” e io “Well, actually I’m an Italian Saints fan!” (I Saints sono un’altra squadra di football). E la signora scoppia a ridere. Le spiego che in realta’ sono anche simpatizzante di Green Bay, dopo aver letto un bel libro sulla storia del franchising. Lei, invece, ribatte dicendomi di essere una tifosa dei Chicago Bears. Quest’ultimi, per chi non lo sapesse, sono rivali dei Packers tanto quanto il Milan e’ rivale dell’Inter. Chiaramente, vedermi con la maglietta dei Packs non e’ stata la cosa piu’ bella che avesse potuto chiedere per iniziare la giornata! Ad ogni modo, ci scherziamo su, e addirittura si prende da sola un po’ in giro per tifare una squadra che non vince da parecchi anni. Infine, mi augura una buona giornata, dicendomi che potro’ comunque portare la tshirt con orgoglio, fino al prossimo Super Bowl. E per come stanno andando le cose in questa nuova stagione di NFL, direi forse anche fino a quello successivo! Football a parte, altro non ho di cui ricordare in merito alla colazione. Dunque, rieccomi, a saldare il conto alla reception e, con le mie due fide valigie, incamminarmi verso l’uscita. Apro la porta, ed eccomi in strada. Volgo il mio sguardo a destra, direzione nord-est, in cerca della mia macchina. Prima pero’ mi avvedo di una cosa, un piccolo particolare importante: non c’e’ una sola macchina lungo tutto il marciapiede, sia quello dove mi trovo che quello opposto. Ricordo di aver lasciato la macchina, ieri sera, schiacciata tra un’altra vettura e l’incombere di un incorcio, ogni buco lungo entrambi i lati della strada clamorosamente occupato. Non mi par di ricordare di aver assunto alcolici o usato stupefacenti la notte scorsa, quindi scarto l’ipotesi di ricordar male. Scruto l’orizzonte, lustrandomi gli occhi da quella sorta di patina mattutina che offusca la vista, ma il risultato e’ sempre quello: no cars. Allora, mi rivolgo a me’ stesso con una frase che e’ poi passata alla storia: “Va ben che e’ mattina presto, ma da qui a non vedere una macchina ce ne passa eh ragazzo!”. Giungo alla conclusione che sto guardando dalla parte sbagliata – anche se non son del tutto sicuro di cio’. Ma anche verso ovest, lo scenario e’ lo stesso, altrettanto desolante: una strada vuota come le pianure del Manitoba del sud. Devo risolvere questo inquietante dilemma mattutino. Stanno iniziando a farsi strada in me terribili, foschi dubbi. Per provare a fugarli, o alla peggio a confermarli, attraverso la strada in cerca di un simbolo che ricordo disegnato sulla strada, a pochi centimetri dal luogo dove ho lasciato l’auto la sera prima. Purtroppo, dannazione eterna, lo trovo li’, a confermare i miei dubbi e a gettarmi in un altro, scontato, baratro finanziario e psicologico. Evidentemente, la mia macchina dev’essere stata rimossa. O rubata. Credo poco pero’ al furto di un’intera macchina nel centro di SF, anche perche’ probabilmente farebbe risultare questa mia vacanza come l’ultima volta in cui misi piede negli Stati Uniti d’America. A questo punto, parte la consueta raffica di imprecazioni contro ignoti. Contro me stesso, contro la citta’, contro l societa’ che rimuove le macchine, contro la segnaletica, contro le solite divinita’ estranee al mio credo. Inoltre, per cercare di darmi una spiegazione plausibile della rimozione dell’auto, indago i dintorni in cerca di un cartello stradale chiarificatore. Lo trovo esattamente sopra la mia testa, in un posto dove uno potrebbe obiettarti “Se non lo vedi o sei un pirla o stai dormendo”, ma tu potresti rispondere “Era proprio sopra di me, come facevo a vederlo?!”. Ormai non conta piu’, e leggendolo vedo che pone un divieto di sosta giornaliero tra le 6 e le 8 del mattino. Sono appunto le 8, e se tutto va bene qualche stronzo adesso iniziera’ a riempire i lati della strada. Alla faccia mia. Maledetta segnaletica stradale posizionata in alto e dietro ad arbusti e maledetta fascia oraria. Non possono pulirla alle 10 la strada??! Per cosi’ dare il tempo ai poveri turisti stanchi di abbandonare il proprio rifugio notturno senza doversi dissanguare presso la societa’ di rimozione??! Ma porca.. Questa citta’ mi vuole morto, mi vuole imprecante, incazzoso. Non ho mai maledetto cosi’ tanto la vita di citta’ come in questi momenti. Mi faccio coraggio e approfitto di un policeman nei paraggi per chiedergli delucidazioni sul da farsi. Devo recarmi a sud presso l’autorimessa, pagare la megamulta e ritirare il mezzo. Lascio le valige in hotel – dove mi ammoniscono che dovro’ pagare un bel po’ (EVVAII) – e prendo un taxi. E’ la prima volta che ne prendo uno, e sinceramente spero proprio sia anche l’ultima. L’indiano (indiano dell’India intendo!) che lo guida parla malissimo e guida addirittura peggio. Credo abbia preso la patente a Napoli, ma porto piu’ a fondo la questione. Mi spaventerei credo. E poi, 10,5$ per 10 minuti mi sembrano un po’ tanti. Non so quali siano le tariffe usuali dei taxisti, ma se sono ovunque cosi’ credo debba pensare seriamente ad entrare nel business. Se lo faccio poi in una citta’ americana, potrei diventare milionario. Pazzo, ma milionario. Entro in ufficio, spiego alla signorina il fattaccio, e gia’, subito, mi gira il POS per pagare. Come per prepararsi ad una sparatoria, apro il portafoglio e metto mano alla carta di credito. Lei mi fissa negli occhi. Io faccio altrettanto. Una goccia di sudore, freddo, mi scende dalla tempia destra. Trepidazione. Lei spara. 394 DOLLARI! Io, troppo lento, vengo colpito a morte. La carta di credito mi cade a terra, ed io la seguo (drammatizzazione). Rinvenuto, con la bocca aperta come colpita da paralisi, realizzo l’ammontare della somma ed impreco davanti alla signorina. Infilo la carta nel POS e autorizzo il pagamento. Sono dolori. Penso a quanto dovro’ lavorare per pagare questa sanzione. Aggiungo i giorni gia’ calcolati per pagare l’altra multa. Mi vien da vomitare. Ma almeno potro’ farlo nella MIA macchina ora. Monto, mando a fan cuore gli addetti della societa’ e mi reco presso il mio nuovo hotel, quello per la notte odierna. Appena smonto pero’, faccio per recuperare i bagagli ma trovo il bagagliaio vuoto. Oh cazzo. E le valigie, mr. Idiota? Stanno ancora al vecchio hotel!! Ma daai! (Babbuino che non sei altro). E di nuovo, piu’ incazzato che mai, rasentando la commedia, torno indietro e recupero i bagagli. Alnuovo hotel la prima cosa che chiedo e’ se sono dotati di un parcheggio. L’unica cosa che hanno e’ una convenzione con un park poco distante per cui mi domaderanno 19$ per 24 ore. Non e’ cosi’ economico, ma e’ sempre meglio di 394 bombe, concludo. Cosi’, senza perder tempo lascio giu’ le valigie e mi reco al parcheggio, per lasciar li la macchina e poter finalmente iniziare la parte produttiva della giornata. Un’altra brutta sorpresa pero’: pare che senza un pass rilasciato dall’hotel non possa entrare e fruire della convenzione. Ora mi girano i coglioni di brutto. Cioe’, se volete che passi la giornata a girare per downtown con il buco del culo aperto ed il portafoglio pure, basta dirlo! Almeno non perdo tempo e benzina guidando su e giu’. Sbraito contro il parcheggiatore e gli dico che qui, cosi’, mi ci ha mandato l’hotel, ma il brutto ceffo mi fa tornare da dove sono venuto. Incazzato nero, affronto a muso duro i ragazzi dell’hotel, che rivoltano il tutto via telefono al parcheggiatore. Non so come si siano accordati, ma mi fanno tornare indietro e finalmente riesco ad ottenere il pass ed a lasciar giu’ la mia maledetta macchina. Credo qualcuno le abbia lanciato una maledizione, ogni volta che ci monto capita qualche merda! Finalmente, sono le 10.20 del mattino, posso dedicarmi all’esplorazione di questa infida citta’. Finora, via di imprecare, girare intorno e pagare, non ho fatto uno stracazzo. Volo verso il Wharf, chiamo la moglie del mio amico – credo che in due giorni avro’ speso 5-6$ solo in telefoni pubblici marsi – e sono pronto a prendere una bici a noleggio. Sin dai giorni gloriosi in cui giravo Vancouver in bici, ho imparato che in citta’ proprio questo e’ il mezzo migliore per muoversi. A parte Londra, dove la metro funziona a meraviglia, o Hong Kong, dove rischieresti di morire investito dopo 5 secondi, le citta’ si girano cosi’. Prendo la mia bici a noleggio e mi avvio di buona lena verso il Golden Gate. Mi fosse girata troppo bene finora, il cielo gia’ plumbeo inizia a rovesciare della pioggia, non troppo forte ma piuttosto fitta. Al mio arrivo sono un po’ umidiccio, sia per la pioggia sia per il sudore. Sono famosi i sali-scendi della downtown di SF, ma anche i sobborghi non scherzano. Per arrivare sul Golden Gate devo correre (con il mio zaino in spalla) una pista ciclabile piuttosto impervia, e con il mio allenamento ciclistico in condizioni deprecabili, fatico non poco. Quantomeno, arrivo sotto un sole che squarcia le nuvole. Pedalo fino a meta’ ponte, e mi godo lo spettacolo. A sinistra, l’oceano aperto, immenso, enorme, che fa sorgere nella mia mente immagini marittime, da lupi di mare, storie di navigazione e antiche aspirazioni marine. L’oceano su di me ha un’attrazione rara, non so perche’. A destra invece, le ultime propaggini della citta’, il porto, Alcatraz. Davanti a me invece, le colline che segnano l’ingresso nel Golden Gate Park. Il ponte invece, di per se’, e’ un normale ponte. Quel che cambia magari e’ il famoso colore rosso acceso che lo contraddistingue. Gli alti sostegni che si stagliano nel cielo azzurro dei giorni sereni e sono visibili fin dal porto. Per il resto, e’ solo un’infrastruttura che fa guadare uno stretto lembo d’oceano. Visto da sotto ad esempio, dal livello del mare, rende molto di piu’. Continuo il mio tour ciclistico della citta’ sotto il sole ormai fisso nel cielo, cosa che mi conforta, che rallegra lo spirito abbattuto dagli ultimi eventi. Girare in bici rende molto piu’ liberi, facilita gli spostamenti e soprattutto ti evita di venire inculato ad ogni minima occasione. Al massimo ti inculano la bici, ecco (ma io sono stato previdente e al modico prezzo di 2$ ho pagato anche l’asscurazione contro lo scippo del mezzo!). Mentre pedalo la mia via verso il Wharf, la citta’ finalmente, incredibilmente, mi fa un regalo che mi ripaga delle precedenti arrabbiature ed imprecazioni. Mi imbatto in uno dei miei posti favoriti in America: una gelateria Coldstone. Forse non ve ne ho mai parlato, ed e’ giunto il momento in cui devo farlo. Spero nessun concorrente di questa amabile catena legga codesto blog perche’ rischierei pesanti ritorsioni, ma perdonatemi, voi del mondo del gelato, perche’ fino ad ora non sono ancora riuscito a trovare un concorrente che regga la competizione dei miei paladini del gelato. Per me, Coldstone e’ IL POSTO dove mangiare un gelato negli Stati Uniti. Sono comunque aperto, a scopo dimostrativo, a rendermi cavia per test gratuiti di gelati altrui. Non posso sottrarmi a questo dovere commerciale. Per ora comunque, mi limito a tessere le lodi dei miei preferiti, i quali – spero leggano questo blog – dovrebbero elargirmi, per le parole che spendo, una fornitura annuale gratuita di gelato. Ci lavorero’ su. Coldstone e’ quindi una catena, ed ha dei punti vendita assolutamente allettanti. Il cliente viene accolto da giovani commesse carine e simpatiche che anche se non hai particolarmente voglia di gelato, te la fai venire per pura cortesia. Ci sono mega cartelloni in cui sono elencate tutte le creazioni della casa, dalle coppe gelato agli shakes, dagli smoothies alle torte. Secondo una mia stima, un turista che non parla come lingua nativa l’inglese potrebbe impiegare una decina di minuti per leggere tutto quanto scritto. E’ comunque un dolce leggere. Che alla fine porta ad una scelta altrettanto dolce, che varia a seconda di misura, condimenti, recipienti. Una coppa gelato ad esempio puo’ essere adagiata in un recipiente di cialda con cioccolato e cocco ai bordi, oppure con cioccolato e granella, o ancora cioccolato bianco. Il gelato invece, puo’ essere guarnito con una varieta’ di condimenti che il cliente nemmeno ha il tempo di vedere nella sua interezza. Dai Mars spezzettati con delle “cazzuole da muratore” come le chiamo io, ai Bounty al cocco che seguono lo stesso iter, oppure dalle classiche Smarties alla granella, dalle sprinkles ai Gummy Bears. Si, gli orsetti gommosi sul gelato. Questa la cito sempre, fa troppa impressione! Chissa’ come sono, sinceramente non ho mai avuto l’ardire glucosico di sperimentarli! Io pero’, quando entro in un Coldstone, a meno che non sia terribilmente affamato (dunque, coppa gelato medium size – che e’ sufficiente a farti saltare il pasto successivo) opto sempre per lo stesso item, risultando anche un po’ monotono. Il fatto che e’ paurosamente buono, dolce, creante assuefazione. Vado, anche stavolta, per un Very Vanilla Shake, “Gotta Have it!” size. Il nome dice tutto. Very Vanilla vuol dire che il gelato e’ alla French Vanilla, e al tutto viene aggiunto anche del caramello concentrato. Poi, la taglia. Non esiste small, medium o large. Qui, l’extra large si chiama GOTTA HAVE IT! Ed io vado sempre per quello. Credo, 600 e oltre ml di puro, dolcissimo godimento! Da paura. Me lo godo in velocita’ – perche’ non riesco a resistere sorseggiandolo, lo bevo avidamente! – e mentre lo finisco faccio due passi nei negozi vicini. Riesco a comprare un paio di occhiali da sole presso dei cinesi, che per 10$ risultano essere belli e decisamente polarizzanti (Nota: Col senno di poi, le campagne dietro casa mia agli inizi di Novembre mi sembrano il Vermont a meta’ Ottobre!). Gettato l’ingombrante bicchiere, entro nella catena di cappelli sportivi dove a Vegas comprai il mio cappello dei New Orleans Saints. Avendo le mani piu’ bucate di un uomo crocefisso, dopo un attento esame compro un altro cappellino, stavolta degli Indianapolis Colts, che subito metto in testa per riprendere il mio giro in bici. Ora, con cappellino, occhiali da sole, maglietta NFL e zaino in spalla, sembro un perfetto americano in viaggio! Mi sento bene. Pedalo fino al Wharf e di li giu’ verso downtown. Vedo la Chinatown, dove i passanti sono tutti, e dico TUTTI eccetto qualche turista, orientali, e poi mi reco verso Union Square, il centro commericale della citta’. Qui si trovano i negozi di tutti i marchi piu’ in. Come uno straccione, entro da Abercrombie sapendo che potrebbe essere una delle ultime volte che lo faccio con certe capacita’ economiche. Invece, gli resisto ed evito di aggravare ulteriormente il mio bilancio in rosso come un tulipano. Visito Adidas e Nike, ascolto la musica di un barbone potentissimo che con bottiglie, pentole e vasellame si e’ creato una batteria formidabile, e mi avvio verso il difficile, impervio ritorno IN SALITA sulle vie di SF. Ci arriverete anche da soli, ma ve lo sottolineo anch’io. Le strade del centro sono davvero pendenti, ripide. Secondo i miei calcoli, la pendenza di alcune si aggira intorno al 35%, che e’ davvero tanto! E fa sudare come pochi! Stremato, smonto dal mio mezzo e decido di proseguire a piedi, trainando la bici. Ed e’ li che, mentre riposo un attimo ad un semaforo, colgo di sfuggita una manifestazione che si sta snodando lungo il block adiacente (Non lo sapevo ancora, ma sono i famosi “Indignados” di cui sentiro’ parecchio parlare nei giorni a venire). Non e’ una manifestazione enorme, stile NY, ma basta per attirare l’attenzione e rendere l’idea di quel che sta accadendo nel mondo. I manifestanti espongono svariati cartelli, i piu’ ricorrenti dei quali sono “Tassate Wall Street”, “Fate pagare le banche”, “Obama R U listening?”. Quello che mi piace di piu’ invece e’ lo slogan “Tassate i ricchi, loro se lo possono permettere”. Mi trova assolutamente favorevole. La gente qui si sta lamentando semplicemente di una cosa: esasperata dalla crisi economica globale in atto, coglie l’occasione per lamentare come troppa poca gente abbia in mano troppa parte della ricchezza mondiale. Maledettamente giusto. Damn. Rimango immobile all’incrocio per 5 lunghissimi minuti, braccia appoggiate al manubrio della bici, piedi a terra. Penso a quanto vorrei anch’io che il mondo fosse piu’ equo, che ci fosse meno poverta’, che tutti fossimo piu’ abbienti. Penso a quanto sto scialacquando io in 15 giorni di vacanza. Eh si. Ora piove. Me ne torno verso l’hotel, k-way alla mano, dopo aver restituito la bici. Sono appena le 16, e di fronte a 3 ore di tempo decido inaspettatamente di usare il mio nuovo acquisto, il mio pc. Lo apro e ne vado subito fiero. Mi connetto ad internet, al mondo reale, dove puoi venire a sapere cosa accade ovunque, anche nel tuo paese. Questo pero’ non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Decido solo di aprire la mail, dove trovo la bellezza di 67 emails accumulate in appena 14 giorni. Non male. Le spulcio una ad una, non una bella notizia in 67 email ma fa niente, e vado a farmi la doccia. La doccia piu’ strana e scomoda che abbia mai trovato in giro per il mondo, peraltro. Infine, esco alle 19, in una serata abbastanza limpida ma anche ventosa, pronto ad incontrare il mio amico californiano Russell. Purtroppo leggo da un sms che non riuscira’ a raggiungermi, quindi vago per qualche negozio e poi mi siedo al tavolo di un ristorantino di pesce al Pier 39. Mi gusto la tipica Clam Chowder servita su Sourdough bread bowl, ovvero una zuppa di molluschi (perlopiu’ granchio a dire il vero) servita dentro un pane a forma di zucca, semiaperto in alto onde consentire al cucchiaio di ghermire il pasto. Ottima, veramente. Il contorno di gamberoni al chili dolce poi, delizioso! Contento, sazio, ma vestito troppo leggermente per sopportare altre lunghe esposizioni al vento oceanico, mi alzo da tavola diretto verso casa. Un breve passeggiata e ci sono, pronto ad una notte di riposo. Dopo una giornata strana, vissuta tra troppi stati d’animo, sentimenti, sensazioni. A volte dicono di dormirci su, e cosi’ faro’.
sabato 19 novembre 2011
Manu vs. San Francisco - pt.2
Dopo questa raffica di tentazioni, tutte evitate, mi sento come Gesu’ nel deserto. Ancora una volta. Girando l’angolo, dopo essermi svuotato alla toilette, mi accorgo di un telefono pubblico, anzi due. Mi viene in mente di chiamare il mio amico Russell, con cui programmiamo di trovarci in questi due giorni. E’ la prima volta che chiamo da un telefono pubblico americano, premetto. Avete presente quel film di Bud Spencer & Terence Hill (so che li guardo solo io.. ignoranti che non siete altro, che film che vi perdete!) in cui Terence chiama Bud dal telefono pubblico e simula la voce registrata? Ecco, se avete presente la scena, e’ quel che e’ capitato a me. Infatti, alla fine del fatto, mi son letteralmente messo a ridere nel bel mezzo della piazza, pensandoci. Ad ogni modo, leggo le istruzioni, compongo il numero, e ascolto la voce. Inserire 75cents. Io, sbadatamente, capisco per 15 minuti. Cavolo, economici questi telefoni, mi dico. Intanto, parlo al mio amico, ci intratteniamo un po’. Dopo soli 3 minuti, di nuovo la voce arpia: “Inserire altri 75cents per continuare la conversazione”. Dannazione, impreco. Impreparato per far fronte alla bisogna, cerco le monetine atte all’uopo aprendo freneticamente il portafoglio. Trovo 50cents, che inserisco mentre dico al mio amico di non prenderla male qualora non dovesse piu’ sentirmi dall’altro capo della cornetta. Cosa che puntualmente avviene pochi istanti dopo. Fregato. Tutto per 25cents. Cosi’, tra qualche malcelata risata, vado in un negozio a farmi cambiare 3$ in spicci, di modo da non farmi trovare impreparato la prossima volta. Poi, mi reco all’appuntamento con la coreana. Arrivo, preparo le mie cose, e aspetto. Aspetto. Aspetto. Si in realta’ non piu’ di tanto, solo 10 minuti, ma non sapendo che fare e con la pioggia che ha fatto la sua comparsa al di fuori, sembrano di piu’! Alla fine la vedo arrivare, con uno sgargiante abito giallo, ed esco dalla mia CuboCar. Prima che abbia il tempo di aprir bocca, smorza i miei entusiasmi (peraltro ora gia’ contenuti) dicendomi che ha ripensato alla sua stessa offerta, in quanto non mi conosce, non sa chi sono, se si puo’ fidare di me, e che dunque non vuole piu’ affittarmi la camera. Espongo una faccia a meta’ tra il “Mi stai prendendo per il culo?” e il “Che grandissima testa di minchia che sei!”. Poi, ripresomi dalla news, le pianto su un discorso. In sostanza le dico che capisco la sua reazione – e difatti mi ero domandato come mai avesse avuto l’idea di propormi una stanza in casa sua – ma non capisco invece perche’ prima allora me l’avesse offerta e soltanto ora se ne fosse pentita. Le spiego che questo mi avrebbe messo parecchio in difficolta’. Lei pero’, non ne vuol sapere. Si scusa mille volte, e cerca di spiegarmi che prima era confusa, e che non puo’ fidarsi di uno sconosciuto. Mi saluta. Ma diavolo porco, ho capito tutto io, ma alle 5 e mezza me lo vieni a dire, e soprattutto, con la citta’ sotto assedio da imbecilli con loghi bianchi e rossi?! La mia pazienza sta raggiungendo un livello critico. Ora sento il sangue ribollermi nelle vene, e ricordo malvolentieri la gia’ citata puntata dei Simpson di Homer vs. NY. Le citta’ pare siano solite giocare tranelli del genere. La citta’, e i suoi abitanti. Stupidi come i posti dove vivono. Accecato dall’ira, cerco di calmarmi davanti ad una buona cenetta, ma si vede che non e’ giornata. In un posto che noi chiameremmo bar sport, nel senso che ci sono schermi ovunque che trasmettono qualsiasi sport e c’e’ cibo “da bar” – anche se da bar americano – prendo un ottimo ma risibile Philly Cheese Steak, pietanza che da un bel pezzo volevo togliermi lo sfizio di assaggiare. Il sandwich, fatto di carne tagliata a fettine sottili, formaggio fuso e cipolla, e’ molto buono ma appunto di dimensioni irrisorie, soprattutto se comparato ai miei standard degli ultimi dieci giorni. Per questo, mi viene ancor piu’ il nervoso, tant’e’ che lascio alla cameriera una mancia da miseria. Poveretta, paga lei per quei mentecatti che hanno deciso porzioni europee in un bar americano! Uscito dal locale, provo a vedere il lato positivo della questione: almeno mi sgorghero’ un po’. Ho una sensazione, da qualche giorno, di pienezza, affanno digestivo. Mi sento preso peggio di una pompa di Candeo Spurghi. Per questo, spero, lo spuntino di questa sera mi aiutera’ ad alleggerire il carico. Mi reco di fretta verso il centro informazioni turistiche dove ancora mi consigliano di andare a nord. Provo, usando la tattica “fatti compiangere”, a far si che chiamino qualche hotel in zona e prenotino una camera per me. Purtroppo, qui devo dirlo, spesso i TIC americani non sono cosi’ disponibili come quelli canadesi. Li chiamavano loro svariati motel, fino a trovare quello di gradimento del turista, e tutto senza costringere il cliente a pagare una qualsiasi somma. Incredibile. Quasi mi illusi, in Canada, che ovunque si usasse far cosi’. Mi sbagliavo, in modo grossolano (tanto per citare un esempio, in Scozia, VisitScotland.com – mi pare si chiami cosi’ l’ente che gestisce la maggior parte dei TIC – carica 4 pounds di spese qualora a seguito di una telefonata fatta dall’ufficio il turista decida di prenotare una camera. Son tanti eh!). Alla fine, purtroppo, nemmeno la mia tattica funziona, ed esco solo sapendo che in un hotel a sud di qui dovrebbe esserci la disponibilita’ di una singola. Prezzo? Ebbene, 150$. Zio africano. 150$ non li ho pagati nemmeno all’Hilton. E mi trovo a doverli pagare per una squallida notte in un (verosimilmente) squallido posto nell’altrettanto squallida bassa downtown di San Francisco. Dormirei su un letto di pigne in un bosco fangoso del Montana piuttosto. Invece, sentendomi male al solo pensiero di imboccare con l’oscurita’ gia’ scesa strade sconosciute, e dover nel frattempo cercare di motel in motel un posto dove poter dormire, decido di spendere questa valanga di soldi e di avviarmi, adirato, a quest’hotel. Prendo la macchina e vado, scendo per un miglio circa le famose, ondulate, ripidissime strade di San Francisco e arrivo alla via indicata. Trovare un parcheggio e’ impresa disperata qui come in centro a Padova la mattina di un qualsiasi giorno lavorativo, ma sembra che la mia un po’ impolverata fortuna stavolta mi fornisca un valido aiuto. Trovo un buco che in Italia sarebbe un parcheggio a tutti gli effetti, ma secondo il codice stradale non lo sarebbe affatto. Si tratta di 4 metri liberi prima di un incrocio. Che io sappia, si puo’ parcheggiare dopo almeno 5 metri, da un incrocio. Dunque, chiedo lumi ad un passante che mi dice qualcosa come “Ok, it wouldn’t be permitted but, you know.. you can get a chance!”, e se ne va via abbozzando un sorriso. In pratica, sai che parcheggi dove non potresti, ma alla fine si fa, sappi solo che potresti non ritrovarti piu’ la macchina se sei sfigato! Io voglio sentirmi fortunato, d’altronde non vedo cartelli che mi vietino esplicitamente il parcheggio, dunque sistemo li la mia vettura, estraggo i bagagli, e mi reco all’hotel. Sembra molto carino, di qui mi spiego anche l’illustre spesa. Purtroppo pero’, dopo svariate ricerche, vengo a sapere che non hanno alcuna prenotazione a mio nome. O merda, qui la cosa si sta facendo lunga. Pare abbia anche sbagliato hotel. Ammetto che, distrattamente, uscendo dal TIC non ho prestato particolare attenzione ad un piccolo particolare: il nome dell’hotel in cui ho prenotato! Ricordo chiaramente la via, ma ci saranno una ventina di hotel lungo la sua lunghezza! Gia’ mi vedo, abbattuto, demoralizzato, a passare le successive due ore ad ammazzare il tempo mangiando patate fritte e hamburgers, per poi accingermi a trascorrere la notte in macchina. Brrr. Mi viene in soccorso la nobile signora alla reception, che si offre di tenermi le valigie nell’arco di tempo in cui io avrei girato per chiedere agli hotel piu’ vicini. Accetto volentieri e, libero dal peso, volo di corsa a domandare all’hotel subito dopo, il maggior indiziato. Attraverso la strada, altri cento metri, e.. bingo! Eccolo qua, solo un block piu’ in la. L’hotel ha il nome e l’aspetto di un hotel francese della periferia esterna di Parigi. Un’altro meno da aggiungere alla lista gia’ lunga dei “meno” di giornata. Chiedo conferma, l’ottengo, e volo di nuovo fuori, sempre sotto una pioggia fine ma insistente, per riprendere i miei effetti presso l’altro hotel. Pongo finalmente la parola fine sulle mie peregrinazioni in citta’ per quest’oggi. Il signore alla reception, mentre mi accompagna alla stanza in ascensore, mi parla di Berlusconi e delle signorine che palpeggia. Volevo chiedergli se fossero amici intimi, giacche’ pareva sapere tutte queste cose per certe, ma mi limito ad una risata di circostanza e ad un cenno d’assenso. Entro in camera e mi lascio alle spalle tutto, tutti, per starmene con me stesso. A volte la solitudine e’ la miglior compagnia. Mentre sistemo il tavolino in bagno per poter comodamente scrivere le note di giornata mentre esplico gli altrettanto giornalieri bisogni corporei, rifletto su un paio di cose. La prima, e’ che sono veramente inviperito. Ho appena visto in tv che le previsioni meteo per domani non danno nulla di buono. Altra pioggia, cosa che manda all’aria i miei piani di girare la citta’ in bici. Mi domando come potro’ godere della tanto decantata citta’ di San Francisco. Spendendo uno stipendio in parcheggi? Perdendo ore nel traffico cittadino e nell’ingorgo di semafori e vie a senso unico? Girandola a piedi con uno zaino da 12 chili in spalla? Ah no, dai, che sciocco. Nelle cablecar, i world-famous “tram” elettrici tipici di SF dove la gente monta e si tiene aggrappata ai pali, piu’ in strada che dentro al mezzo. Si certo, prendero’ uno di quelli. Faro’ due blocks e poi smontero’. Si, perche’ la tratta non dura molto piu’ de due blocks. Gran fregatura, una cazzo di trappola per turisti, come le chiamo io. Sono veramente stanco, stanco di prendermela con qualsiasi cosa ci sia in citta’: i semafori, i parcheggi, gli spenna-turisti, le macchine, le cablecar, gli hotel costosi, i meeting di aziende inopportune. Realizzo che sono, assolutamente, nello stato d’animo di Homer quando si mette contro NY. Anzi, a difesa del mio in questo momento collega, di quando la citta’ di NY si mette contro Homer. Io non ho fatto nulla per essere contro la citta’: e’ lei che, appena io entro nel suo suolo, mi aggredisce cercando di mettere qualsiasi tipo di bastone fra le mie ruote! E qui, la mia seconda riflessione. La citta’ e’ un luogo dove il turista viene solitamente fregato. Con i prezzi alti, con il traffico, con i mezzi di trasporto, con il clima insalubre, con la gente che tenta di truffarti in qualsiasi modo. Bisogna sempre essere sul pezzo, in citta’. SOLO chi e’ organizzato se la gode. E con organizzazione, intendo organizzazione capillare. Mezzi, parcheggi, hotel, luoghi dove mangiare. Tutto. Mi vengono in mente due esempi: a Denver, quando dopo un ora in giro per strade sconosciute, mezzora a piedi dal parcheggio gratuito piu’ vicino al centro, e un ora per trovare un hotel (trovato poi ma malfamato di brutto), mi ritrovo amareggiato a mangiare da Arby’s. Morale: umore pessimo. Oppure, secondo esempio, a Las Vegas, dove arrivo al mio hotel, parcheggio, prendo la monorail e passeggio per le vie della citta’, per poi andare ad abbuffarmi nel posto prescelto, in una strada conosciuta. Umore: alle stelle. Purtroppo solo chi ha saputo organizzarsi bene riuscira’ a godersi la sua permanenza in una citta’ americana. E non solo in America, direi. La mia organizzazione a SF non e’ stata ottima, anche perche’ mi sarebbe stato difficile pianificare al meglio 2 giorni cosi’ lontani nel tempo e in una citta’ grande e a me sconosciuta. Questo sarebbe stato veramente troppo. Ma di qui a trovarmi annichilito dalla malignita’ cittadina, questo non l’avrei mai detto. O forse lo sapevo gia’, ma ho preferito provare a fugare questi timori. Sbagliando. Prima di coricarmi, sperando in una notte confortevole, giungo a questa conclusione, che vi invito ad annotare: amare od odiare una citta’ e’ all’80% una questione di organizzazione.
giovedì 17 novembre 2011
Manu vs. San Francisco - pt.1
Questa mattina lascio il parco di Yosemite. Con lui, lascio un cielo piuttosto sereno ma andante verso il nuvoloso. E, soprattutto, una sala buffet FAVOLOSA. La portero’ nel cuore, ho idea. Ne tessero’ le lodi. Stamane ad esempio, vi ho fatto la seguente colazione: un ottimo bicchierone di cocoa milk (ho scoperto che cocoa non e’ cocco come io pensavo, bensi’ l’abbreviazione di chocolate), uno di orange juice, poi un pancacke con maple syrup, 2 paste al cinnamon & cheese cream, frutta a volonta’, bacon stripes, 1 sausage patty con gravy, 2 french toast e un gustoso tacos con formaggio, bacon bites e sausage bites. Sono satollo. Ho passato due giorni a digiunare durante le ore dove il sole illumina la terra, e ad ingozzarmi durante le ore di oscurita’. Sono un ciccione. Piu’ che altro, nei buffet, la cosa che ti spinge a dare il massimo e’ il fatto che ormai hai pagato, dunque tanto vale mangiare quanto piu’ si riesce. Un po’ come se da Mediaworld ti dessero qualsiasi cosa con un fisso di 100 euro: voglio vedere se la gente non andrebbe li’ con i camion rimorchi a noleggio! Notizia positiva del giorno, inoltre, e’ l’aver sapientemente evitato i bocia. Sono arrivato mezzora prima del branco selvaggio, quindi ho potuto dedicarmi con cura alla scelta degli alimenti senza dover compiere atti criminosi a danno di minorenni. Ottimo. Prima di andarmene definitivamente, compio un atto caritatevole: separandomi dal mio fido sacco a pelo, entrato in mio possesso appena una dozzina di giorni fa, decido di donarlo al villaggio, di modo che nel caso qualche sprovveduto campeggiatore dovesse averne bisogno, qualcuno sapra’ fornirglielo. Ricevo molti ringraziamenti per il mio gesto, e me ne vado, contento come avessi aiutato una vecchietta ad attraversare la strada (cosa che accade solo nelle storie del Topolino). In macchina, le indicazioni che seguo sono quelle per San Francisco. Il mio viaggio volge alle ultime giornate, ed esse vedranno solo un susseguirsi di citta’, divertimento, movida, anziche’ boschi, deserti e animali come fatto finora. Metto una ventina di dollari nel serbatoio, in uno sperduto villaggetto al di fuori del parco (le pompe di benzina, stupende, sembrano un cimelio di inizio 20esimo secolo!) e mi lancio sulla strada. Impiego circa 4 ore e mezza per giungere a SF. Passo il ponte sulla Oakland Bay – dove mi bombano 4$ per il passaggio (se ogni ponte bomba tutti sti soldi ad ogni macchina, devo prendere in considerazione l’idea di costruirmi un ponte e fare il gestore di ponte come lavoro. Diventerei milionario!) – e stranamente, cartina alla mano nel groviglio di intersezioni della downtown, arrivo subito alla meta che desideravo: il Fisherman’s Wharf. Il Wharf e’ la zona portuale piu’ carina di SF, dove il turista puo’ trovare tutto cio’ che normalmente lo attira: cibo, negozi, tour guidati. Il Pier 39, la zona piu’ centrale del Wharf, e’ un ponte dove sono assiepati come cozze su uno scoglio decine di negozi e ristoranti, per soddisfare ogni esigenza. Il mio scopo per ora e’ quello di trovare un parcheggio e di dedicarmi ad un’esplorazione fancazzistica della zona. Diciamo per un paio d’ore. Poi, passero’ alla mission-accomodation. Aggirandomi nei dintorni del porto, noto un grosso parcheggio con scritto, in carattere ENORME, 2 hours free. Come un allocco, mi ci precipito dentro. Scopro ormai troppo tardi, quando ormai ho un paio di macchine in coda dietro di me, delle scritte in carattere MINUSCOLO che dicono, sotto le 2 hours free, che esse sono valide solo per un certo tipo di pass – pass che ovviamente io non possiedo. Impreco amaramente contro questi maledetti cortigiani e pago i 7$ del parcheggio. Ora, non e’ che abbia pagato 200$, ma le mie lamentele sono una cosa piu’ forte di me. Nel senso: e’ atavico in me il cercare di evitare il piu’ possibile di pagare soldi per parcheggiare. Mi sembra una cosa inconcepibile. Devo dare dei soldi a qualcuno per lasciare ferma una macchina in un suolo che e’ tanto mio quanto tuo?? Non sta al mondo! Ho evitato di pagare soldi per dei parcheggi in centri scozzesi, irlandesi, del colorado, south dakota, utah, italiani ovviamente, e non volevo certo arrendermi ai parcheggi di San Francisco, anche se le grandi citta’ hanno piu’ armi per fregarti. E stavolta, me tapino, hanno vinto loro ed io ho perso miseramente. “C’ho i pugni nelle mani”, direi citando il famoso Rocchio, per descrivere il mio stato d’animo surriscaldato. E mi viene in mente un altra puntata dei Simpson, fonte perenne di ispirazione. Il riferimento e’ all’episodio di Homer contro New York. Ricordate il caro vecchio Homer, irritato al sol sentir nominare la citta’? Memore di scippi, insulti, truffe varie? Bene, io sono su quell’umore li’. Mi sento in collera con le grandi citta’ di tutto il mondo, perche’ alla fine tutto il mondo e’ paese, e non e’ solo SF che mi causa questi attacchi di bile. Mi svago un po’ lungo il Pier 39 – che scopro essere l’unica attrazione non culinaria lungo il Wharf – per un’oretta, decidendo di non intrattenermi oltre per non peggiorare la mia situazione finanziaria versando soldi ai parcheggiatori. Il pier, scopro con stupore, molto piacevole. E’ una trappola per turisti, al solito, ma e’ cammuffata bene, sotto un’etichetta di raffinatezza e perbenaggine. Non e’ uno schifo tipo che so, Deadwood in South Dakota (dal punto di vista dei casino, casino, casino!) o John O’Groats in Scozia (che a parte il nome figo e melodioso – potrei chiamarci mio figlio cosi’ – non e’ affatto una bella citta’), quanto una cosetta ben fatta stile Las Vegas. Ci cammino volentieri, e scopro vari, allettanti negozi tipo un NFL shop immenso, anche se secondo me tarocco. Padroni orientali e assenza di loghi di marche sportive per me equivalgono a merce falsa! Poi, chiosci di cibo di ogni genere, dai corn dog (hot dog fritti dentro una spessa pastella di grano alta mezzo centimetro) alle frittelle, dalle crepes al pesce fritto. Tutta roba super genuina, noterete. Infine, meraviglia delle meraviglie, un negozio di cioccolata che si autocelebra il piu’ grande (o vecchio) del mondo, non ricordo bene. So che si autocelebrano in qualche modo. Non so a che punto siano i rivali, se siano messi meglio o peggio, so solo che entrare in quel negozio fa venire il sangue da naso. Uccide la fauna batterica intestinale. Entri e ti ritrovi immerso in quintali di cioccolato di ogni forma, colore e gradazione. Ogni creazione e’ fatta sia con cioccolato al latte che fondente. C’e’ cioccolato in scatola, a pezzi, sotto forma di gustosi cioccolatini, c’e’ fudge di ogni sorta, e poi altri orpelli e gingilli tutti di cioccolato. Vorrei dire che anche il registratore di cassa e’ di cioccolato, fondente al 99% forse. L’unica cosa che mi trattiene – Thank you Lord – dall’accendere un mutuo per acquistare tutta la merce del negozio e’ che mi sembra essere un po’ costosetto. Non posso farlo, devo resistere, e cosi’ faccio. Mi metto una mano sugli occhi e, a tentoni, cerco l’uscita. La guadagno non senza difficolta’, dopo aver buttato giu’ qualche colonna di cioccolato e aver toccato le zinne di qualche avvenente fanciulla (NB. descrizione iperbolica costruita dall’autore). Tornato all’aria aperta, piuttosto fresca, mi metto a pensare a quanti orientali ci siano da ste parti. In effetti, pensandoci bene, avendo una delle Chinatown piu’ grandi del mondo c’e’ poco di cui meravigliarsi. Ma entrare nei negozi del Pier 39, e vedere in ognuno di essi un muso giallo, dai gestori ai commessi, fa un certo che. Sembra una testa di ponte sulla citta’ di San Francisco! Intanto l’ora che mi sono concesso e’ agli sgoccioli, quindi vado a riprendere il mio mezzo e lo muovo nei dintorni, fiducioso di trovare un albergo a pochi soldi. Non so quello che mi aspetta. L’inizio pare positivo, in quanto trovo un albergo rassomigliante uno stile italiano (dettato da non so chi!) con un nome italiano ma dove nessuno dei gestori e’ italiano. Mah. Purtroppo, hanno una camera solo per domani notte. Non posso far altro che fermarla e continuare la mia ricerca. Non potro’ godere della tranquillita’ psicologica di poter disfare la valigia per una notte. Approfittando della grande scoperta – parcheggio gratis per 2 ore, alla faccia di quegli stolti sul Wharf – mi aggiro a piedi nei block vicini. Entro, credo, in 4 hotel e in ognuno di essi, dal piu’ miserabile al piu’ elegante, mi sento dire che non hanno una sola, schifosa camera in quanto in citta’ c’e’ un meeting di Oracle e tutte le strutture alberghiere sono al completo, specialmente in downtown. Parte la consueta sfilza di imprecazioni, che stavolta pero’ ha un destinatario preciso: Oracle. Stupida azienda del cazzo, non comprero’ MAI un loro prodotto. E spero di non avere loro tecnologie nei miei strumenti informatici altrimenti li getto giu’ dalla terrazza. Difatti era da un paio d’ore che vedevo svariate persone con tesserini rossi e bianchi aggirarsi per la citta’, e mi domandavo giusto il motivo di tutto cio’. Ora lo so, e mi fa incazzare. Deluso, arrabbiato, studio un piano di riserva mentre aspetto che il semaforo mi permetta di attraversare la strada. Decido che potrebbe valer la pena di guidare oltre il Golden Gate, nella parte nord di Fisco, dove pare le strutture dovrebbero essere molto meno affollate e i prezzi non assurdi. In piu’, domattina potro’ godermi l’alba – tempo permettendo – dalle colline sopra la citta’. Faccio per aprire le porte della macchina, ma prima decido di informarmi sulla distanza da percorrere presso una coreana sulla quarantina passata che sta portando a spasso il cane. Mi domanda subito da dove vengo, e alla mia risposta – Italia – si fa piu’ interessata. Inizia a dirmi di quando e’ stata dalle nostre parti, di quanto gli piace l’Italia, mi chiede della mia citta’. A me sinceramente non ne puo’ fregar di meno di intrattenere questa conversazione, sto solo pensando al come tirar fuori un posto dove dormire stanotte. E mi sa che il cappello magico oggi non ce l’ho. Invece – sorpresa – proprio la signora mi fornisce la soluzione. Dopo 5 minuti 5 da che avevamo iniziato a parlare, mi propone di dormire a casa sua per la notte, al costo di 60$. Io non so perche’ ma non ci penso due volte e accetto. Non penso che potrei finire sotto le grinfie di un’arrapata signora coreana in prossimita’ della menopausa, con una voglia matta di godersi gli ultimi atti di una vita sessuale attiva con un baldo giovanotto italiano. Non penso che potrei finire invece sotto le grinfie di un eventuale marito, certamente membro della peggior banda mafiosa coreana. Non penso proprio, a nulla, se non a dirle di ritrovarci tra un paio d’ore allo stesso posto per rincasare assieme, stavolta con i bagagli. La saluto. Appena mi giro, abbozzo un sorriso e gli occhi mi si velano di lacrime. Avete presente quell’umidiccio che si forma sugli occhi quando siete cosi’ contenti, ma cosi’ contenti che vi vien da piangere? Ecco, quello. Allargo le mani al cielo e mi dico “Se me ne servisse un’ennesima prova, Dio esiste”. La tipa sembra un po’ scraniata, ripete le cose cento volte, fa un effetto tipo “Mi son drogata 10 minuti fa”, ma non importa. Quel che importa e’ che stanotte paghero’ relativamente pochi soldi per dormire in un posto a 5 minuti a piedi dal Wharf. Fantastico! La notizia mi rende di ottimo umore, e dopo aver mandato a fare in culo un’altra volta Oracle e i suoi addetti, riprendo il mio giro turistico. Torno al Pier 39 dove avevo in precedenza abbandonato la serie infinita di negozi presenti. Ora, indugio con piu’ calma su ognuno di essi. Mentre cammino pero’, quello che potrei chiamare “Il grillo Ministro delle Finanze” della mia coscenza mi si para su una spalla e mi fa notare quanti miliardi non abbia gia’ speso in questa vacanza, soprattutto in cibo. Ah, e la multa di importo ancora sconosciuto. Per quanto mi riguarda, potrebbe ammontare anche all’importo di una finanziaria del Belize. Comunque, riconosco la saggezza del mio collaboratore, e decido di porre un freno alla mia vena spendereccia (alla faccia di chi mi conosce come taccagno: a voi dico, seguitemi in vacanza, poi vediamo chi e’ il taccagno! Dico io, che cazzo c’e’ di bello dove spendere i soldi a Padova?!). Nell’ordine, rinuncio a: nuovi apparel NFL, un corn dog, un frozen yogurt, un pezzo di cioccolato, una stupenda maglietta con due orsi che si inculano sopra la bandiera della California con la scritta “CALIFUCKINFORNIA” (stupenda, ma 19$ piu’ tasse per una maglia cosi’ mi sembrano un po’ tanti!).
Iscriviti a:
Post (Atom)