domenica 6 novembre 2011

Tra orsi e sogni di pancackes - pt.2

Perche’ poi questo nome, General Highway? Ebbene, l’albero piu’ grosso del mondo, e il suo “fratellino”, sono stati rinominati ad eterna memoria di due celebri personaggi storici, entrambi generali dell’esercito nordista durante la Guerra di Secessione Americana. Gia’ eroi in vita, gia’ coronati con imperitura memoria, hanno avuto l’onore di esser associati agli alberi piu’ grossi del mondo. Si tratta di W.T.Sherman e P.H.Sheridan. A Sherman, colui che porto’ un colpo al cuore della Confederazione penetrando in Georgia e nelle Caroline, e’ stato dedicato il piu’ grande, il numero uno, the General Sherman tree. L’albero piu’ grosso del mondo, quello davanti al cui cartello, posato quasi sommessamente a terra, posano milioni di persone ogni anno. A Sheridan, il generale che fece terra bruciata della fertile valle dello Shenandoah, e’ andato il secondo. La strada che collega questi due maestosi alberi dunque, e’ detta General Highway. Scontato. Mi fermo al parcheggio per intraprendere la breve camminata allo Sherman. Guardingo, ma evidentemente rasserenato dalla presenza di tanti visitatori, guadagno il fondo valle e ammiro l’enormita’ dello spettacolo che mi si prospetta davanti. Questo e’ un albero, penso, che ha vissuto millenni. C’era quando i cavalieri medievali si sfidavano a singolar tenzone. C’era quando Gesu’ dettava i comandamenti. C’era quando gli egizi costruivano le prime piramidi. Pazzesco, quasi da non crederci. E chissa’ quanto ancora vivranno. In realta’, sentivo dire, alcuni di questi enormi alberi sono gia’ morti. Nel senso che non cresceranno ancora per molto, o non cresceranno proprio piu’. Solo che nemmeno cadranno per un bel pezzo. Ricordando un saggio modo di dire da patronato (Grette docet) “No gavemo vita da vivere!” (per vederli cadere). Mi aggiro col naso all’insu’ per qualche centinaio di metri. Se non ci fosse altra gente, credo mi sentirei o in paradiso o nell’aldila’ in genere. L’effetto creato dai pochi raggi di luce che penetrano gli spessi, alti strati di foglie, e’ veramente qualcosa di indescrivibile. Non so, come sbattere la testa su un muro, svenire, e.. questo e’ il posto dove potrei pensare di risvegliarmi. Senza parole, perche’ non ci sono parole per definire Madre Natura in questi casi (a volte un silenzio vale piu’ di mille parole, dicono) torno al parcheggio. Il fresco sulla pelle – sono ancora in maniche corte, uno dei pochi – mi fa rabbrividire. Contemporaneamente, ringrazio lassu’ per aver potuto vedere anche questo spettacolo. Gli alberi piu’ grossi al mondo. Credo di potermi ad ogni modo ritenere fortunato, e per questo sono profondamente grato. In parcheggio invece, prendo un’altra, triste decisione: saltare tutto il resto del parco. Purtroppo, dopo uno sguardo all’orologio, realizzo di essere in ritardo mannaro rispetto alla tabella di marcia, qualora volessi dormire a Fresno. E ci voglio dormire. Piu’ che altro anche perche’ prima non c’e’ granche’. Ah, e poi perche’ per domattina ho in programma un superevento culinario che non vorrei dover saltare! E’ la seconda difficile decisione della giornata, che mi dimostra quanto male avessi programmato questo giorno. Troppe cose da vedere, troppa strada. Quel che induce a commettere questo tipo di errori, almeno allo scrittore, e’ la filosofia del “Forse ci andrai una volta nella vita, perche’ perdersi posti tutto sommato vicini?”. Il fatto e’ che in America la parola “vicino” puo’ voler dire un centinaio di chilometri o piu’. Quindi, non minuti, ma ore di strada. E questo, ovviamente, scombussola i piani non di poco. Sono costretto a perdere il generale Sherman e tutti gli altri maestosi alberi che dimorano nei sequoia grooves piu’ remoti della foresta. Anche perche’, l’oscurita’ incalza. Sono circa le 5 del pomeriggio, e il sole calante, e la poca luminosita’ che raggiunge il suolo, contribuiscono a dare gia’ un’atmosfera serale al parco. Guido verso nord, per uscire dal parco, al trotto. Poi ad un certo punto, duecento metri davanti a me, nel bel mezzo di una curva a sinistra, vedo una macchina ferma sulla strada. Dal finestrino anteriore, lato passeggero, sbuca una donna con in mano una macchina fotografica, che scatta una foto e, forse allarmata dal mio incombere, rientra e ordina al conducente di partire. Mi attivo subito per cercare di capire cosa stessa fotografando. BUM. Vedo una macchia marrone decisamente grossa nell’immediato sottobosco, seguito a breve distanza da una piu’ piccola. Sono una madre e un cucciolo d’orso. Non ci vedo piu’. Inchiodo praticamente quasi in mezzo alla strada, aggiusto un attimo le ruote e, avendo cura di lasciar la macchina accesa, monto in tutta fretta il 300x sulla reflex ed apro la portiera. Esco. Ho le mani che tremano, tanta e’ l’emozione nel vedere per la prima volta, da cosi’ vicino – i plantigradi saranno a una dozzina di metri in linea d’aria – una madre orso e il suo cucciolo. Il loro pelo e’ marrone, tanto che l’occhio di uno sprovveduto nonche’ ignorante li scambierebbe per grizzly. Io SO che i grizzly in California non li vedono piu’ dalla fine del secolo scorso oramai (intendo il 1800) quindi mi sento piu’ al sicuro a stare ad una distanza cosi’ ravvicinata. E’ risaputo anche che spesse volte gli orsi neri, soprattutto da piccoli, mantengono una peluria marrone. Non so spiegarvi il motivo, possa io esser perdonato. Mando in Svizzera ogni discussione su peli e tonalita’ e penso a immortalare la scena. Piccolo particolare: non vedo piu’ la madre. Certo, la mia posizione non e’ facile: sono in mezzo alla strada, con la portiera semiaperta e una reflex da regolare. Cerco di fare alla svelta, non creandomi pare mentali comunque comprensibili. Setto un po’ a casaccio e scatto sul piccolo, foto che risulta piuttosto scura. Shit. Cambio di nuovo i settaggi per ottenere una foto piu’ luminosa, ma non e’ facile con l’oscurita’ del sottobosco, volendo evitare di ottenere solamente un soggetto mosso. Nel mentre, getto l’occhio davanti a me e ancora nessun segno della madre. Potrebbe essere dall’altra parte della macchina e io non me ne potrei accorgere, essendo posato con le braccia sul tettuccio per usarlo come “stabilizzatore”. Nel mentre in cui sto contemporaneamente spegnendo le mie quasi paure e accingendomi a scattare la seconda foto, sento un clacson che mi strombazza alle spalle. So di essere nel torto, e prima mimo un gesto di scuse, per subito dopo indicare l’evento prodigioso per cui ero fermo a creare quella situazione poco “stradalmente ortodossa”. Niente, lo stronzo non afferra e suona ancora, con insistenza. Allorche’, da buon italiano, mi giro gia’ col braccio alzato per mandarlo felicemente a fare in culo, quando realizzo con la coda dell’occhio che altro non e’ che un ranger. Puttana eva, ecco un’altra multa in arrivo. No, non puo’ andare cosi’. Fermo il mio braccio pernicioso e completo il gesto andando a far finta di aggiustarmi i capelli, e chiedo ancora scusa al ranger. Il quale pero’ non ne vuol sapere e, aperto il finestrino, mi dice in tono molto istituzionale: “Sir, this is a federal highway. There’s no reason to stop on a federal highway. Even a bear with a cub is not a good reason to stop. Please move on”. Oh fanculo, tutte a me. Mio malgrado, con i lacrimoni agli occhi, ritorno mestamente in macchina e riordino il casino, pronto a ripartire. Non vedro’ piu’ orsi fino alla fine del viaggio. La mia unica occasione, vanificata dall’assenza di piazzole di sosta e da un ranger stronzo. Merda. I primi istanti guido in cerca di un possibile spiazzo dove lasciare la macchina, per poi tentare la missione suicida raggiungendo gli orsi a piedi, lungo la strada. Ma di spiazzi, anfratti, buchi nemmeno l’ombra. Quindi, guido per svariati minuti con lo sguardo nel vuoto, la mente che vagava tra il ricordo dell’immagine dei due plantigradi e le parole del ranger. “This is a federal highway”. “Puo’ essere anche il marciapiede della Casa Bianca ma io per un orso mi fermo anche li’”, avrei voluto dirgli. Cosi’, tristemente, un cosi’ fortunato incontro si e’ trasformato in una delusione spaziale, con una sola, scura foto scattata e un rimbrotto da un ranger. In piu’, la paura di dover lasciare un’altra, consistente parte dello stipendio in tasca al governo federale. Questa poi la evito piu’ che volentieri. Ora, tanto vale accelerare al massimo. Facendo sempre attenzione alle curve – non capita raramente che orsi vengano investiti e uccisi per eccesso di velocita’ nei parchi – guido veloce verso l’uscita, dove giungo attorno alle 6 di sera. I colori iniziano a sfumare, e il paesaggio torna di nuovo fosco. Ciononostante, le colline della zona, ai piedi delle Sierras, sono magnifiche. Dolci e tondeggianti monti si ergono sulle pianure coltivate della California interna, e mi riportano alla mente le belle Highlands scozzesi. I massicci montuosi formano, con qualche isolato albero e delle altrettanto isolate fattorie sparse qui e li’, uno scenario bucolico ammaliante, suggestivo, amplificato dalla maestria di Madre Natura che tinge il tutto di colori che vanno dal giallino all’arancione del cielo, e dal verde scuro al violaceo sulla terra. Mi devo fermare lungo una curva, per contemplare questo scorcio cosi’ sereno, cosi’ gradevole da ammirare. Sono quei momenti in cui anche se hai una bomba in mano che sta per esplodere, la lasci perdere, te la tieni in mano e, con un sospiro liberatorio, gli occhi tranquilli, la lasci esplodere. Ti senti a posto. Questo e’ lo stato d’animo, la sensazione che sento mentre guido da Pahrump, all’uscita del parco fino a Fresno. Non ci sono posti dove stare – ed e’ un peccato, perche’ una notte in campagna me la sarei proprio fatta volentieri. Ma conservo un ricordo estremamente positivo di quella piccola porzione di California, discreta, agricola, dolce come i frutti che produce. Quando arrivo a poche miglia da Fresno, il cielo e’ di un rosso fuoco che mette i brividi. Spingo sull’acceleratore per accorciare la sofferenza del guidare di notte senza conoscere i posti. Devo anche trovare 2 posti: uno dove mangiare e uno dove dormire. Bella sfida. Prendo un’uscita quasi a casaccio dalla highway, seguendo quel che ricordavo essere l’indirizzo del mio appuntamento culinario del giorno seguente. Salvo poi rendermi conto che, sul quella strada, non c’e’ nulla. E’ un fottuto quartiere residenziale dove non c’e’ nemmeno l’ombra di un motel. Guido avanti e indietro, nell’oscurita’, per un quarto d’ora, fino a quando non decido di chiedere informazioni a due ragazzetti quasi coetanei che bazzicano un benzinaio. Li’ i benzinai sono molto piu’ interessanti dei nostri. Anzi, a dire il vero i nostri NON sono posti interessanti, i lor si. Puoi trovarci giornali, riviste, cibo di ogni fattura, anche appena riscaldato, bibite, robaccia di vario genere. Sono dei piccoli supermercati, dei mini-market. Affascinanti. I due tipi in questione sono li’ per acquistare del junk food, e alla mia domanda rispondono – ormai ci sono avvezzo e ci conto! – tirando fuori l’Iphone e indicandomi su GoogleMaps come si arriva a destinazione. Le loro manacce sporche di smorcia di bici mi indicano la via. Ringrazio, premurandomi di non stringer loro la mano, e provo a ricordarmi le indicazioni. Arrivo a destinazione un altro quarto d’ora dopo. Ma dove? Arrivo al posto che visitero’ domani a colazione. Speravo di arrivar qui e trovare motel su motel nelle vicinanze, ma ho fatto un clamoroso buco nell’acqua. E comincio a perdere la pazienza. Sale lo sconforto, misto a rabbia. Decido di fermarmi a meditare davanti ad una buona cenetta, e siccome ho un certo languorino andante verso la pizza, mi fermo dal fido Pizza Hut. Era da un paio di sere fa, da quando ho preso quella semi deludente pizza a Springdale, che conservavo negli angoli remoti del mio stomaco una voglia di pizza seria. Per me, sapete, pizza serie in America equivale a Meat Lover’s di Pizza Hut, nothing else. Cosi’, parcheggio la mia Cubo Car e guadagno la via della cassa. Il momento e’ aulico. Chiedo, memore delle precedenti esperienze quasi mortali con le pizze medium size in America, una Meat Lover’s small, addirittura senza bordi riempiti di formaggio fuso (la Meat Lovers di per se’ annovera fra i condimenti: salamino, prosciutto, carne di manzo, bacon e salsiccia). Il cassiere mi dice: allo stesso prezzo (8$, ndr) posso darti una pizza uguale ma medium size. E io, cosa gli rispondo?! Mi sento in dovere morale di dirgli si. Suvvia, siamo in uno dei paesi al mondo in cui si spreca di piu’, vorrei dire IL PAESE in cui si spreca di piu’, soprattutto in quanto a cibo. Posso io esimermi? Posso io evitare di avanzare 3 fette di pizza e di sentirmi pieno come raramente prima? Posso io invece accontentarmi di una misera pizza small e finirla senza problemi??! No gente, niente di tutto cio’. Do l’ok al cassiere e vado per la medium. Paese che vai, usanze che trovi dicono. E io non mi astengo dal praticare le tradizioni di questa terra, anche se stavolta e’ la poco nobile tradizione dello spreco di cibo. Che poi in realta’ non e’ che gli americani sprechino cibo, anzi, son molto migliori di noi da questo punto di vista. E’ che col cibo che mangia un americano medio in un anno vivrebbero diec’anni due bambini africani! Fatta la difficile scelta mi accomodo al tavolo e mi gusto la pizza davanti ad una partita di college football in tv. E’ un peccato che debba vedere la partita in tv, perche’ qui a Fresno, cittadina universitaria e casa dei Fresno State Bulldogs di football, si sta giocando in questi momenti una partita fra l’appena citata squadra locale e Ole Miss, squadra della University of Mississippi. Fuori i giovani (e anche i grandi) passeggiano per le strade vicino allo stadio e sono dentro e fuori ad incitare la loro squadra, ed io sono qui dentro si a mangiare una buona pizza, ma anche a rodermi dentro per il motel, e non posso assaporare questo bel clima universitario. Tipico americano, quello da film. Shit. Almeno, vedo realizzarsi un piccolo miracolo anche oggi. Un gentile, nobile cameriere a cui chiedo informazioni su motel fantasma in zona, mi aiuta. Pensate, dicendomi che e’ in pausa quindi non lo disturbo affatto, prima cerca in internet dal suo telefono un paio di posti, i piu’ vicini, e poi mi fa chiamare sempre dal suo telefono per riservare la stanza! Io quasi non ci credo. Non credo lo farei io per un turista. Si e no che saprei dargli informazioni corrette. Lui invece, gli americani invece, sono cosi’. Nobili. Commosso, lo ringrazio di cuore e mi avvio verso il posto dove ho riservato la stanza, lo University Inn che, come suggerisce il nome, si trova giusto di fronte alla CSUF, California State University, Fresno. Bel nome. SI-ES-IU-EF. Melodico. Poco dopo sono sul posto, carico di valige e ciarpame vario come uno sherpa, a pagare la notte prenotata. Non troppo poi, anche se non delle piu’ economiche. Arrivo in camera distrutto, stanco piu’ psichicamente che fisicamente, e mi abbandono al calduccio delle coperte anche se fuori non si muore dal freddo, anzi si sta in infradito. Pochi minuti dopo sto gia’ sognando pancackes.

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