sabato 19 novembre 2011
Manu vs. San Francisco - pt.2
Dopo questa raffica di tentazioni, tutte evitate, mi sento come Gesu’ nel deserto. Ancora una volta. Girando l’angolo, dopo essermi svuotato alla toilette, mi accorgo di un telefono pubblico, anzi due. Mi viene in mente di chiamare il mio amico Russell, con cui programmiamo di trovarci in questi due giorni. E’ la prima volta che chiamo da un telefono pubblico americano, premetto. Avete presente quel film di Bud Spencer & Terence Hill (so che li guardo solo io.. ignoranti che non siete altro, che film che vi perdete!) in cui Terence chiama Bud dal telefono pubblico e simula la voce registrata? Ecco, se avete presente la scena, e’ quel che e’ capitato a me. Infatti, alla fine del fatto, mi son letteralmente messo a ridere nel bel mezzo della piazza, pensandoci. Ad ogni modo, leggo le istruzioni, compongo il numero, e ascolto la voce. Inserire 75cents. Io, sbadatamente, capisco per 15 minuti. Cavolo, economici questi telefoni, mi dico. Intanto, parlo al mio amico, ci intratteniamo un po’. Dopo soli 3 minuti, di nuovo la voce arpia: “Inserire altri 75cents per continuare la conversazione”. Dannazione, impreco. Impreparato per far fronte alla bisogna, cerco le monetine atte all’uopo aprendo freneticamente il portafoglio. Trovo 50cents, che inserisco mentre dico al mio amico di non prenderla male qualora non dovesse piu’ sentirmi dall’altro capo della cornetta. Cosa che puntualmente avviene pochi istanti dopo. Fregato. Tutto per 25cents. Cosi’, tra qualche malcelata risata, vado in un negozio a farmi cambiare 3$ in spicci, di modo da non farmi trovare impreparato la prossima volta. Poi, mi reco all’appuntamento con la coreana. Arrivo, preparo le mie cose, e aspetto. Aspetto. Aspetto. Si in realta’ non piu’ di tanto, solo 10 minuti, ma non sapendo che fare e con la pioggia che ha fatto la sua comparsa al di fuori, sembrano di piu’! Alla fine la vedo arrivare, con uno sgargiante abito giallo, ed esco dalla mia CuboCar. Prima che abbia il tempo di aprir bocca, smorza i miei entusiasmi (peraltro ora gia’ contenuti) dicendomi che ha ripensato alla sua stessa offerta, in quanto non mi conosce, non sa chi sono, se si puo’ fidare di me, e che dunque non vuole piu’ affittarmi la camera. Espongo una faccia a meta’ tra il “Mi stai prendendo per il culo?” e il “Che grandissima testa di minchia che sei!”. Poi, ripresomi dalla news, le pianto su un discorso. In sostanza le dico che capisco la sua reazione – e difatti mi ero domandato come mai avesse avuto l’idea di propormi una stanza in casa sua – ma non capisco invece perche’ prima allora me l’avesse offerta e soltanto ora se ne fosse pentita. Le spiego che questo mi avrebbe messo parecchio in difficolta’. Lei pero’, non ne vuol sapere. Si scusa mille volte, e cerca di spiegarmi che prima era confusa, e che non puo’ fidarsi di uno sconosciuto. Mi saluta. Ma diavolo porco, ho capito tutto io, ma alle 5 e mezza me lo vieni a dire, e soprattutto, con la citta’ sotto assedio da imbecilli con loghi bianchi e rossi?! La mia pazienza sta raggiungendo un livello critico. Ora sento il sangue ribollermi nelle vene, e ricordo malvolentieri la gia’ citata puntata dei Simpson di Homer vs. NY. Le citta’ pare siano solite giocare tranelli del genere. La citta’, e i suoi abitanti. Stupidi come i posti dove vivono. Accecato dall’ira, cerco di calmarmi davanti ad una buona cenetta, ma si vede che non e’ giornata. In un posto che noi chiameremmo bar sport, nel senso che ci sono schermi ovunque che trasmettono qualsiasi sport e c’e’ cibo “da bar” – anche se da bar americano – prendo un ottimo ma risibile Philly Cheese Steak, pietanza che da un bel pezzo volevo togliermi lo sfizio di assaggiare. Il sandwich, fatto di carne tagliata a fettine sottili, formaggio fuso e cipolla, e’ molto buono ma appunto di dimensioni irrisorie, soprattutto se comparato ai miei standard degli ultimi dieci giorni. Per questo, mi viene ancor piu’ il nervoso, tant’e’ che lascio alla cameriera una mancia da miseria. Poveretta, paga lei per quei mentecatti che hanno deciso porzioni europee in un bar americano! Uscito dal locale, provo a vedere il lato positivo della questione: almeno mi sgorghero’ un po’. Ho una sensazione, da qualche giorno, di pienezza, affanno digestivo. Mi sento preso peggio di una pompa di Candeo Spurghi. Per questo, spero, lo spuntino di questa sera mi aiutera’ ad alleggerire il carico. Mi reco di fretta verso il centro informazioni turistiche dove ancora mi consigliano di andare a nord. Provo, usando la tattica “fatti compiangere”, a far si che chiamino qualche hotel in zona e prenotino una camera per me. Purtroppo, qui devo dirlo, spesso i TIC americani non sono cosi’ disponibili come quelli canadesi. Li chiamavano loro svariati motel, fino a trovare quello di gradimento del turista, e tutto senza costringere il cliente a pagare una qualsiasi somma. Incredibile. Quasi mi illusi, in Canada, che ovunque si usasse far cosi’. Mi sbagliavo, in modo grossolano (tanto per citare un esempio, in Scozia, VisitScotland.com – mi pare si chiami cosi’ l’ente che gestisce la maggior parte dei TIC – carica 4 pounds di spese qualora a seguito di una telefonata fatta dall’ufficio il turista decida di prenotare una camera. Son tanti eh!). Alla fine, purtroppo, nemmeno la mia tattica funziona, ed esco solo sapendo che in un hotel a sud di qui dovrebbe esserci la disponibilita’ di una singola. Prezzo? Ebbene, 150$. Zio africano. 150$ non li ho pagati nemmeno all’Hilton. E mi trovo a doverli pagare per una squallida notte in un (verosimilmente) squallido posto nell’altrettanto squallida bassa downtown di San Francisco. Dormirei su un letto di pigne in un bosco fangoso del Montana piuttosto. Invece, sentendomi male al solo pensiero di imboccare con l’oscurita’ gia’ scesa strade sconosciute, e dover nel frattempo cercare di motel in motel un posto dove poter dormire, decido di spendere questa valanga di soldi e di avviarmi, adirato, a quest’hotel. Prendo la macchina e vado, scendo per un miglio circa le famose, ondulate, ripidissime strade di San Francisco e arrivo alla via indicata. Trovare un parcheggio e’ impresa disperata qui come in centro a Padova la mattina di un qualsiasi giorno lavorativo, ma sembra che la mia un po’ impolverata fortuna stavolta mi fornisca un valido aiuto. Trovo un buco che in Italia sarebbe un parcheggio a tutti gli effetti, ma secondo il codice stradale non lo sarebbe affatto. Si tratta di 4 metri liberi prima di un incrocio. Che io sappia, si puo’ parcheggiare dopo almeno 5 metri, da un incrocio. Dunque, chiedo lumi ad un passante che mi dice qualcosa come “Ok, it wouldn’t be permitted but, you know.. you can get a chance!”, e se ne va via abbozzando un sorriso. In pratica, sai che parcheggi dove non potresti, ma alla fine si fa, sappi solo che potresti non ritrovarti piu’ la macchina se sei sfigato! Io voglio sentirmi fortunato, d’altronde non vedo cartelli che mi vietino esplicitamente il parcheggio, dunque sistemo li la mia vettura, estraggo i bagagli, e mi reco all’hotel. Sembra molto carino, di qui mi spiego anche l’illustre spesa. Purtroppo pero’, dopo svariate ricerche, vengo a sapere che non hanno alcuna prenotazione a mio nome. O merda, qui la cosa si sta facendo lunga. Pare abbia anche sbagliato hotel. Ammetto che, distrattamente, uscendo dal TIC non ho prestato particolare attenzione ad un piccolo particolare: il nome dell’hotel in cui ho prenotato! Ricordo chiaramente la via, ma ci saranno una ventina di hotel lungo la sua lunghezza! Gia’ mi vedo, abbattuto, demoralizzato, a passare le successive due ore ad ammazzare il tempo mangiando patate fritte e hamburgers, per poi accingermi a trascorrere la notte in macchina. Brrr. Mi viene in soccorso la nobile signora alla reception, che si offre di tenermi le valigie nell’arco di tempo in cui io avrei girato per chiedere agli hotel piu’ vicini. Accetto volentieri e, libero dal peso, volo di corsa a domandare all’hotel subito dopo, il maggior indiziato. Attraverso la strada, altri cento metri, e.. bingo! Eccolo qua, solo un block piu’ in la. L’hotel ha il nome e l’aspetto di un hotel francese della periferia esterna di Parigi. Un’altro meno da aggiungere alla lista gia’ lunga dei “meno” di giornata. Chiedo conferma, l’ottengo, e volo di nuovo fuori, sempre sotto una pioggia fine ma insistente, per riprendere i miei effetti presso l’altro hotel. Pongo finalmente la parola fine sulle mie peregrinazioni in citta’ per quest’oggi. Il signore alla reception, mentre mi accompagna alla stanza in ascensore, mi parla di Berlusconi e delle signorine che palpeggia. Volevo chiedergli se fossero amici intimi, giacche’ pareva sapere tutte queste cose per certe, ma mi limito ad una risata di circostanza e ad un cenno d’assenso. Entro in camera e mi lascio alle spalle tutto, tutti, per starmene con me stesso. A volte la solitudine e’ la miglior compagnia. Mentre sistemo il tavolino in bagno per poter comodamente scrivere le note di giornata mentre esplico gli altrettanto giornalieri bisogni corporei, rifletto su un paio di cose. La prima, e’ che sono veramente inviperito. Ho appena visto in tv che le previsioni meteo per domani non danno nulla di buono. Altra pioggia, cosa che manda all’aria i miei piani di girare la citta’ in bici. Mi domando come potro’ godere della tanto decantata citta’ di San Francisco. Spendendo uno stipendio in parcheggi? Perdendo ore nel traffico cittadino e nell’ingorgo di semafori e vie a senso unico? Girandola a piedi con uno zaino da 12 chili in spalla? Ah no, dai, che sciocco. Nelle cablecar, i world-famous “tram” elettrici tipici di SF dove la gente monta e si tiene aggrappata ai pali, piu’ in strada che dentro al mezzo. Si certo, prendero’ uno di quelli. Faro’ due blocks e poi smontero’. Si, perche’ la tratta non dura molto piu’ de due blocks. Gran fregatura, una cazzo di trappola per turisti, come le chiamo io. Sono veramente stanco, stanco di prendermela con qualsiasi cosa ci sia in citta’: i semafori, i parcheggi, gli spenna-turisti, le macchine, le cablecar, gli hotel costosi, i meeting di aziende inopportune. Realizzo che sono, assolutamente, nello stato d’animo di Homer quando si mette contro NY. Anzi, a difesa del mio in questo momento collega, di quando la citta’ di NY si mette contro Homer. Io non ho fatto nulla per essere contro la citta’: e’ lei che, appena io entro nel suo suolo, mi aggredisce cercando di mettere qualsiasi tipo di bastone fra le mie ruote! E qui, la mia seconda riflessione. La citta’ e’ un luogo dove il turista viene solitamente fregato. Con i prezzi alti, con il traffico, con i mezzi di trasporto, con il clima insalubre, con la gente che tenta di truffarti in qualsiasi modo. Bisogna sempre essere sul pezzo, in citta’. SOLO chi e’ organizzato se la gode. E con organizzazione, intendo organizzazione capillare. Mezzi, parcheggi, hotel, luoghi dove mangiare. Tutto. Mi vengono in mente due esempi: a Denver, quando dopo un ora in giro per strade sconosciute, mezzora a piedi dal parcheggio gratuito piu’ vicino al centro, e un ora per trovare un hotel (trovato poi ma malfamato di brutto), mi ritrovo amareggiato a mangiare da Arby’s. Morale: umore pessimo. Oppure, secondo esempio, a Las Vegas, dove arrivo al mio hotel, parcheggio, prendo la monorail e passeggio per le vie della citta’, per poi andare ad abbuffarmi nel posto prescelto, in una strada conosciuta. Umore: alle stelle. Purtroppo solo chi ha saputo organizzarsi bene riuscira’ a godersi la sua permanenza in una citta’ americana. E non solo in America, direi. La mia organizzazione a SF non e’ stata ottima, anche perche’ mi sarebbe stato difficile pianificare al meglio 2 giorni cosi’ lontani nel tempo e in una citta’ grande e a me sconosciuta. Questo sarebbe stato veramente troppo. Ma di qui a trovarmi annichilito dalla malignita’ cittadina, questo non l’avrei mai detto. O forse lo sapevo gia’, ma ho preferito provare a fugare questi timori. Sbagliando. Prima di coricarmi, sperando in una notte confortevole, giungo a questa conclusione, che vi invito ad annotare: amare od odiare una citta’ e’ all’80% una questione di organizzazione.
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