domenica 13 novembre 2011

But for the Grace of God - pt.1

Premessa che non ho mai fatto: I parchi nazionali americani devono essere un’ emerita merda durante la stagione estiva. E’ una riflessione che mi e’ capitato spesso di fare durante questi giorni e che, a dire il vero, avevo fatto anche lo scorso anno. Un pensiero del genere mi salta in mente quando cerco un parcheggio, di solito. Vedere Yellowstone il 5 settembre, o Arches il 18 settembre, o Yosemite il 2 ottobre, gremiti di gente che riempie ogni parcheggio con camper, moto o auto, mi da l’idea di che razza di macello debba esserci in questi angoli di paradiso in estate. Quano la gente e’ in vacanza, e decide di esplorare la natura dietro casa, sciami d’auto e RV infestano le strade dei parchi, rendendo gia’ solo la circolazione una specie di safari, e il trovare un parcheggio per fotografare un viewpoint o partire per una pista, una specie di lotta all’ultimo sangue. Ricordo appunto al parco di Arches, lo scorso anno, una scena del genere: trailhead per andare a vedere due o tre archi in sequenza, auto che riempiono il parcheggio principale, situato a meta’ di una strada ad anello, e altre auto parcheggiate lungo tutta la suddetta strada, persino in doppia fila! Scene da Napoli, Italia. Ma ero ad Arches, Utah. Pensare che un posto abitato da animali selvatici, piante rare, insomma ecosistemi tutto sommato fragili, vengano invasi da un esercito del genere.. mamma mia, mette i brividi. E a me personalmente mette anche un nervoso non indifferente, soprattutto quando cerco di smontare dalla macchina e non riesco a trovare un buco dove lasciarla. Per poi magari trovarlo, iniziare a camminare, e trovarmi dentro un flusso di gente che sembra essere in processione verso la reliquia di non so quale santo. Da imprecare tutta la giornata. In quei momenti pensi al piano B: backroads, backwoods e tutti gli altri posti che iniziano con back. Andare ad infognarsi in qualche posto piu’ tranquillo, isolato, magari meno bello ma piu’ intimo, rilassante. Magari. Purtroppo di Grand Canyon ve n’e’ uno solo e il turista che vi ci capita d’estate oltre al caldo insopportabile deve beccarsi anche orde fameliche di turisti come lui. Compiango la gente che e’ obbligata a vedere questi posti magnifici durante l’estate. Compiango soprattutto quelli che si recano nei parchi piu’ famosi, piu’ in. Alaska a parte, li gli spazi sono cosi’ grandi e i posti ancora cosi’ selvaggi che pare il fenomeno non sia cosi’ marcato, gli altri National Parks soffrono troppo questo problema. Credo che in alcuni posti, migrino anche le bestie d’estate. Prego solo affinche’ tutto cio’ non affligga anche le mie peregrinazioni nel mondo. Non vorrei perdere troppo tempo a mandare a cagare dei camper che mi occupano due posti auto, mentre sono in vacanza. Questa notte, tornando a me, ho dormito egregiamente. La tent cabin si e’ rivelata piuttosto comoda, il letto era ottimo ed ho goduto di un bel tepore con il mio sacco a pelo iper pesante. So che e’ stata la sua penultima notte in mia compagnia, perche’ domani dovro’ disfarmene causa incompatibilita’ con le dimensioni delle mie valigie, ma so anche che e’ stato un grande alleato e sono riconoscente nei suoi confronti. Intanto mi sveglio, intirizzito dopo il contatto con l’aria fredda e, soprattutto, le infradito gelide, e muovo i miei passi verso una colazione sicura. Fuori e’ ancora buio, e io arrivo alle 7 a fare colazione alla Yosemite Lodge, il primo posto disponibile al mattino dove mettere qualcosa sotto i denti. Non sono tutti cosi’ mattutini qui. La colazione e’ scarsa, prendo un cinnamon roll e un breakfast burrito che non sarebbe malaccio, non fosse semifreddo. Lascio il tavolo a pancia piena ma non ancora riscaldato a dovere. In macchina, imbocco la via verso Tuolumne Meadows. La strada mi prende piu’ tempo del previsto, anche se non mi fermo spesso. Si corre piano qui, e le tempistiche si diluiscono di conseguenza. Passo anche attraverso un incendio, che parecchie squadre di firefighters stanno cercando di combattere. Passando attraverso una strada colma di nubi fumose, auguro buona fortuna ai pompieri, sperando riescano a circoscrivere l’incendio quanto prima. Vanno distrutti troppi boschi ogni anno cosi’. Piu’ avanti, arrivo nella vallata, nel “prato” di Tuolumne. Ben diverso dalle immagini viste da casa – quelle verdi e colme di fiori, la mia vista piuttosto brulla e dominata da un color ocra – attira molto meno la mia attenzione. Mi attendevo ben altro, e maledico quella volta in cui spesi tempo ad osservare da internet i posti che sarei andato a vedere. A volte, possono illudere. D’altro canto, son cosciente del fatto che le stagioni cambiano, e portano con se’ cambiamenti cromatici. L’erba passa a gialla, le foglie dei non-sempreverdi a loro volta a giallo, marrone, arancione, rosso. E ho visto troppo spesso questi colori in questa nazione, per non rimpiangere un prato verde, dei fiori multicolori e perche’ no, qualche macchia di neve qua e la. Arrivo comunque a Lembert Dome, prima meta escursionistica del giorno, solo alle 8.50. Originariamente prevista per il tramonto, questa passeggiata e’ stata portata ad inizio giornata per un semplice motivo: l’esperienza di ieri. Non e’ un itinerario battuto da molte persone, e fare il sentiero quasi da soli, alle ultime luci del giorno, solo per avere una veduta dell’area al tramonto, non avrebbe senso. Dover tornare poi per un’ora al buio, un rischio inutile. Meglio compiere l’itinerario con il sole che illumina i miei passi. E cosi’ faccio. Mi accorgo poi che non e’ cosi’ semplice come pensavo. Il dome e’ alto, raggiungibile passando per un’intricata foresta e il sentiero non e’ granche’ segnalato. Occorrera’ pazienza e sangue freddo. Mi metto in marcia. Ricordo che in parcheggio vi erano 4 macchine. Sul sentiero, non incontro NESSUNO. A puttane le mie speranze di conoscere qualcuno lungo la pista e salire insieme, in compagnia. Sara’ destino. Il pensiero di essere in bear country, anche se con tutti i ma e i se del caso (sono sempre e solo orsi neri, ma pur sempre orsi cazzo!) mi mette in allerta. A questo punto uno, uno che ha un po’ di paura, a cui l’adrenalina e’ salita rapidamente, uno che semplicemente non vuol correre alcun rischio, se ne starebbe dov’e’ e continuerebbe il tour in macchina, camminando in posti con un po’ di gente almeno. Io no. Ho troppa voglia di raggiungere la cima del dome, immergermi in un altra vista panoramica sul parco, sudare un po’ e sconfiggere il freddo del primo mattino con un po’ di fatica. Vado avanti, circondato da una fitta foresta dove non si sente rumore alcuno se non i miei passi, i sassi che rotolano giu’, e qualche verso d’animale selvatico ogni tanto. A volte il posto e’ inquietante. La mente puo’ giocare brutti scherzi in momenti del genere, ed e’ facile immaginare un orso comparire sul sentiero da dietro un arbusto. E’ facile pensare ad un sasso che le tue scarpe hanno mosso come ad un sasso mosso invece da un animale in agguato, che ti si sta avvicinando. Il segreto e’ saper controllare la mente. Non e’ un’impresa di chissa’ qual portata, quella che sto facendo, si tratta solo di una camminata in un bosco. Ma si inizia sempre dalle cose facili! Controllare la mente per me vuol dire anche, piu’ facilmente, distrarla. Vado avanti parlando ad alta voce in dialetto con me’ stesso, battendo inoltre due pietre l’una contro l’altra per far rumore, come avessi a che fare con i grizzly (anche se, in realta’, e’ stato provato che un valido deterrente acustico contro i grizzly e’ un suono acuto, perforante, ad alta frequenza). Voi mi prenderete per il culo, e per un esterno che legge queste parole, puo’ essere plausibile. Il fatto e’ che, fidatevi di cio’ che vi dico, camminare in una foresta da soli – sottolineo COMPLETAMENTE SOLI – nel territorio degli orsi, dopo aver letto il libro “Bear Attacks – Causes and Avoidance” (Herrero), beh ci vuole un po’ di fegato. Al di la delle rassicurazioni dei ranger, ci vuole si un po’ di fegato. Con questa tecnica supero l’oscura foresta, e mi sento meglio, piu’ sicuro. Mi congratulo con me stesso per il coraggio profuso. Ora pero’ mi attende un altro ostacolo. Sono ai piedi del dome, ultima parte del percorso. Si dovrebbe arrivare sulla cima, ma non vedo sentieri. La superficie della roccia e’ liscia, quasi bianca, e ovviamente non ci sono solchi, segni lasciati dagli escursionisti. Provo a salire dalla parte impervia del dome, scalandolo. La cosa sarebbe anche fattibile in salita, pur con le difficolta’ connesse all’avere un grosso zaino in spalla. In discesa pero’, sarebbe da pazzi, completamente esposti e costretti a scendere senza visione di cio’ che si ha sotto i piedi. A questo punto mi viene in mente mia madre – mi arringherebbe sulla non necessarieta’ di mettersi in pericolo per cosi’ poco – e sto quasi per desistere, anche se sconsolato. Poi pero’, mi accorgo che il dome gira. Logico vero? Aggiro la parte impervia e scopro una liscia, comoda via che conduce in cima. Mi mando affanculo da solo e salgo lestamente la via. Arrivato sulla cima, da solo, senza nessuno nelle vicinanze, lancio un grido liberatorio alla Bear Grylls, braccia in alto in sengo di gioia. L’appagante sapere di essere il primo a conquistare la cima di Lembert Dome oggi, 3 Ottobre 2011. Faccio un po’ di storia. Sono soddisfatto di me stesso, ho visto che quando voglio, riesco. Mi siedo sulla nuda roccia e, tranquillo, ammiro il panorama di ampie foreste che si accomodano sui fianchi di sterminate catene montuose. Ovunque. Solo di fronte a me, per uno spazio comunque ristretto, Tuolumne Meadows interrompe lo scandirsi di montagne e domes. Questi panorami lasciano sempre un senso di pienezza, di compiacimento: energia pura per il ritorno. Scendo canticchiando il ripido percorso dall’altro lato della montagna, annoto anche un piccolo ruzzolone sul terreno infingardo e rientro al parcheggio. Avanti, sulla strada, decido di depennare Tenaya Lake dall’elenco delle camminate da fare: il lago non e’ cosi’ spettacolare e si trova proprio a bordo strada. Non ho idea di come si snodi il percorso di circa 4 chilometri che avevo in mente di fare. Proseguendo, passo Olmsted Point, dove avevo in mente quantomeno di scattare una foto. Rinuncio al progetto a causa della ventosita’ del posto. Vedo i berretti delle sparute persone presenti che oscillano come bandiere al vento, anche le giacche che sballano in continuazione. Meglio soprassedere. Cosi’, visto il tempo guadagnato e quello ancora a disposizione, mi dirigo subito verso Mono Lake, all’uscita est del parco. Questo posto, di per se’ nulla di inimmaginabile o fantastico, e neppur cosi’ tanto famoso, racchiude in realta’ un paio di perle. Bisogna seguire la strada che esce da Yosemite direzione est verso Lee Vining, un piccolo borgo sulle sponde del lago. Si passa il poco rassicurante Tioga Pass, dove tutte le strutture ricettive sono gia’ chiuse – anche a meta’ settembre – e il vento ulula paurosamente. Nonostante il sole, il vento soltanto puo’ causare pericoli, in quanto i pendii rocciosi sono maledettamente friabili e grossi pezzi di roccia e sassi possono cadere ripetutamente sulla strada. Mi fermo giusto per sentire la temperatura. Non si sta cosi’ male – anche se sono in felpa – ma il vento fa percepire almeno 6-7 gradi in meno. Meglio avanzare. Arrivato a Lee Vining – posto dove sinceramente non vivrei mai, tra un lago salato e aspre piane semidesertiche – viro a destra verso South Tufa, che secondo le mie mappe e’ uno dei posti piu’ belli dove ammirare cio’ che Mono Lake ha da offire. Il lago e’ rinomato per le formazioni alcaline chiaramente visibili lungo alcuni tratti della sua superficie. Queste “stalagmiti” alcaline sono dovute a millenni di evaporazione dell’acqua del bacino originario del lago, ed ora rimangono, con la loro forma strana, irregolare, ruvida, a testimoniare che il lago era decisamente piu’ grande in passato, e che ora chi decidesse di bere un sorso d’acqua a Mono Lake non passerebbe un bel quarto d’ora dopo! Dunque, la prima, caratteristica immagine del lago e’ appunto data dalle sue formazioni saline (Ps. La concentrazione salina del lago, mancando uno sbocco d’acqua dolce, e’ parecchio elevata, piu’ del doppio di quella normalmente misurata per l’acqua oceanica). La seconda, meno nota, e’ opinabile o meno a seconda dei credo della gente. Un famoso video – famoso e noto soprattutto a chi guarda i documentari di Sky oppure cose tipo Studio Aperto e trasmissioni del genere – documenta una coppia di turisti in vacanza a Mono Lake. Nel video, dopo una breve inquadratura ad una signora, l’operatore passa ad una panoramica del lago per imbattersi in una grossa figura scura, pelosa, che si aggira tra le formazioni alcaline sulla sponda del lago. Dura solo pochi secondi, ed ecco che poi la misteriosa figura marrone scompare dietro di esse. Era un Sasquatch, o Bigfoot, a seconda di come lo si voglia chiamare. Cosi’ dicono gli “esperti” (esperti di cosa?!), e molte persone che hanno visto il video o hanno visto il sasquatch in altre parti del Nord America. Pare che esistano molti testimoni oculari di avvistamenti di queste creature, dai dintorni di Mono Lake ai monti del nord della California, dallo stato di Washington all’isola di Vancouver in Canada. Le foreste soprattutto, pare siano la casa di queste bestie, dalla forma apparentemente umana ma mediamente piu’ alti, robusti, ricoperti di pelo e dall’aspetto quindi un po’ scimmiesco. Io un po’ ci credo, nel senso che trovo strano che una videocamera dei primi anni del 1990 si inventi una macchia marrone di forma umana per svariati secondi in un video, oppure che un idiota noleggi un costume da scimmia per fare il sasquatch in un video amatoriale. A che scopo? Mah. Voglio essere possibilista, anche perche’ non saprei spiegare in altro modo che della gente apparentemente seria investa la propria vita a studiare una creatura nemmeno esistente. Anzi, a studiare dei pagliacci vestiti da scimmia che girano video amatoriali. E poi, diciamocelo, e’ bello, affascinante, supporre che esista qualcosa di ancora ignoto, nel 21esimo secolo. Qualche animale sconosciuto, qualche bestia di cui non sappiamo nulla o che non abbiamo quasi mai visto. A me la prospettiva attira da pazzi! Lasciando stare queste immaginifiche speculazioni, parcheggio nello spazio adibito – quasi vuoto – mi levo la felpa e mi dedico all’esplorazione del luogo.

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