giovedì 3 novembre 2011
Tra orsi e sogni di pancackes - pt.1
Diciamo che tenere il culo attaccato al sedile della macchina per una giornata quasi intera non genera granche’ di interessante da scrivere. Questo pero’ e’ quel che prevede la mia agenda odierna: macinare chilometri su chilometri. Ma tanti anche. Il piano che avevo studiato a tavolino, a casa, nella remota Padova, prevedeva di guidare da Las Vegas, NV, a Fresno, CA o alla peggio nei dintorni nord del parco di Sequoia, sempre in California. Per di piu’, durante questo tragitto, avrei dovuto trovare il tempo per portare la mia macchina nel bel mezzo della Death Valley, a Furnace Creek, a Zabriskie Point, e magari a Dante’s View. Non prima di esser passati a dare un occhio all’immensa Hoover Dam. Poi, ovviamente, una rapida esplorazione del parco di Sequoia, condita da un paio di brevi hikes di una mezzoretta cadauna. Dove voglio arrivare? Avevo redatto un piano del cazzo. Tutto qua. Volevo fare qualcosa come 6-700 chilometri in strade in cui non si superano mediamente gli 80-85 orari e, per giunta, trovare il tempo di fermarmi a camminare un’oretta qui e una li, in uno dei posti piu’ caldi del pianeta e in uno dei boschi piu’ magnifici del pianeta. Un po’ azzardato. A Vegas mi sveglio tardi, mi concedo il meritato, prolungato riposo che andavo cercando da parecchi giorni – forse dall’arrivo frenetico di giovedi’ scorso. La notte e’ trascorsa molto piacevolmente, le coperte ricamate del mio lettone matrimoniale mi hanno coccolato per tutto il sonno, e ho recuperato preziose energie. Nonostante dormirei volentieri qualche altra ora – chi mi conosce bene sa che non mi sarebbe difficile – mi faccio coraggio e dopo essermi vestito, lascio la mia regale camera e mi avvio giu’ per il regale corridoio, alla regale reception e restituisco le chiavi, ponendo di fatto fine alla mia regale esperienza e divenendo ora un normale turista come gli altri e non piu’ un cliente dell’hotel. Decido di fare una colazione un po’ piu’ sana quest’oggi, complice il fatto di non aver in programma grossi dispendi energetici che implichino grossi carichi di cibo. Mi fermo al baretto – uno dei tanti – davanti alla reception, dentro l’hotel (mi piace questa comodita’ cavolo!). Prendo una grossa pasta/brioche con crema al formaggio, un barattolo di frutta fresca mista di boh, mezzo chilo, uno yogurt alla pesca e un cappuccino medio. Mi appollaio su quelle alte sedie a trespolo, e, sentendomi un pappagallo, mischio lo yogurt alla frutta e azzanno il cibo acquistato. Non pensavo sarei caduto cosi’ in basso, ma dopo spanzate di fritto, formaggio, proteine carnose, non riesco a finire appena MEZZO CHILO di frutta e yogurt e una pasta. Cioe’, finisco la pasta, ma non tutta la frutta, scoppio. Disonorato, privato anche dell’ultima traccia d’onore, getto gli avanzi nel trash can e me ne vado. Fanculo. Mi riapproprio della mia macchina/campo profughi ambulante (perche’ cosi’ e’, lo dico ogni viaggio, continuo sempre a farlo, e sempre continuero’ a riportarlo). Ieri sera l’avevo lasciata in fretta e furia sotto una notevole pioggia. Ora sono di nuovo alla guida, verso il deserto, verso l’aridita’ che circonda quest’oasi di gioco e luci. E il colpo d’occhio lascia a bocca aperta. Mano a mano che la strip termina, che i sobborghi terminano, che la civilta’ fatta di casino, hotel, viali ornati di palme e fontane d’acqua, il deserto prende corpo. La strada si incunea in una piana arida, priva di vegetazione, di edifici, di altre strade. Si guida in un’enorme pianura con ai lati solo deserto, tanto deserto, e sullo sfondo, alte montagne. Da una parte le alture della Death Valley, dall’altra sconosciuti picchi che creano un contrasto quasi surreale con il colore dorato della sabbia e della polvere. E’ stupefacente, nonche’ incredibilmente suggestivo, guidare in un posto cosi’. Ricorda un po’ quelle pubblicita’ delle macchine superfighe, che vengono spinte al top in deserti come questo. Sembra di essere in the middle of nowhere, non fosse avere Vegas a poche miglia dietro di se’. Ogni tanto, per spezzare le fantasie di chi guida immerso qui dentro, a pensarsi con la macchina in panne sorvolato dagli avvoltoi, ecco piccole oasi fatte di un, solo, enorme hotel con il solito, annesso, enorme casino. Sembrano addirittura piu’ enormi di quelli della strip. Chiaramente hanno piu’ spazio attorno a loro, e, penso, per far fermare un turista li in mezzo al nulla dovranno avere qualcosa di speciale. Probabilmente le dimensioni, probabilmente le chance di vincere ai casino, o probabilmente chissa’ che diavolo andra’ in scena all’interno di quelle strutture. Mah. Per il resto, panorama a parte – cosa che anch’essa dopo un po’ scompare a causa della conformazione della strada – la giornata si fa tediosa. Guidare tanto dopo giorni e giorni puo’ risultare difficile, conosco a memoria le canzoni e il loro ordine nel mio Ipod, e le stazioni radio americane sono note per non essere la fine del mondo. Mi avvio ad un lungo silenzio. Potrei parlarvi, per coprire un buco di qualche ora, delle targhe delle macchine, della vegetazione del deserto, di come ho pisciato sotto un ponte in una highway correndo il rischio di esser tratto in arresto. Si insomma, poca roba. Una cosa invece da registrare e’ un adesivo che ho letto, attaccato al rimorchio di un camion. “Senza i camion, l’America si ferma”, cosi’ recitava. E c’e’ un notevole fondo di verita’. Credo che il rapporto tra camion e macchine in America sia di 1:8-10. Qui sara’ di quanto, 1:20-25-30??! Son calcoli difficili e di cui peraltro non mi interessa una mazza sapere il risultato, lo dico solo per rendervi un’idea e per passarvi un concetto: in America il traffico su camion e’ davvero pesante, il camion e’ quasi un’istituzione ed effettivamente, se si fermassero, rovinerebbero il paese. Piu’ avanti lungo la strada, quando realizzo che non riusciro’ mai a realizzare il piano che mi ero preposto, prendo una triste ma necessaria decisione, una di quelle decisioni che stringono il cuore ma che solo i saggi e forti riescono a prendere: saltero’ la Death Valley. Mi prenderebbe almeno un ora in piu’ di guida, senza contare eventuali ma sicuri stop. Arriverei a destinazione con i lupi alle calcagna, e se non arrivassi a destinazione, perderei tempo prezioso per i giorni futuri. La scelta, per quanto dura, e’ da prendersi. Ma, realizzo sempre fra me e me, dev’essere stato un bel posto. Mi riprometto di tornarci – e lo faro’ – perche’ dall’assaggio che ne ho avuto mi e’ piaciuta. Alte vette, non obiettivamente ma solo a confronto con la piattezza del deserto circostante, fanno da contorno e da centro ad una steppa arida che fa registrare il punto geografico piu’ basso del Nord America, 67 metri SOTTO il livello del mare. Dante’s View poi, leggevo, pare sia stata denominata cosi’ perche’ molto rassomigliante alla visione che Dante dipinse del suo inferno. Beh, anche se non si tratta del Paradiso, non dev’essere un posto da perdere. Mi dico che l’ho mancato di poco stavolta, ma la prossima volta non sbagliero’, e’ una promessa. Miglio dopo miglio, il paesaggio si appiattisce sempre piu’. Si sa che guidare lungo una highway americana spesso e’ sinonimo di noia mortale. QUESTO e’ un tratto di strada che rispecchia questa credenza. Da Bakersfield a Three Rivers, entrambi in California ovviamente, i posti fanno vomitare. L’ho detto raramente in merito ai miei amati U.S., ma non posso esimermi stavolta, non sarei obiettivo. Vi sconsiglio di passare di qui in vacanza, di soggiornarci e tantomeno viverci. E’ un susseguirsi di postacci: latifondi a fragole o chissa’ cos’altro, qualche ruinasso o insieme di industrie. In piu’, un persistente e schifosissimo strato di foschia che non ti fa vedere piu’ di una ventina di chilometri all’orizzonte. Bah. Uno dei motivi per cui odiare la California. Gli unici spunti divertenti sono alcune fattorie che producono frutta. Fragole, ad esempio. Tramite i soliti millecinquecento cartelli per metro quadro, invitano la gente a fermarsi, spendere del tempo a raccogliere per conto proprio la frutta necessaria per poi pagare a peso il raccolto e tornare a casa non solo con i prodotti della madre terra, ma anche con una bella esperienza agricola alle spalle. Bea roba. Immagino, per turisti che o non sanno un cazzo di tutto cio’ che il resto del paese ha da offrire, o che sono in giro da anni e hanno ormai provato e visto tutto il possibile immaginabile. Un’ultima spiaggia. Tiro avanti deciso, deciso a superare questi obbrobri e questa maledetta foschia. La quale non mi lascia respiro e visibilita’ che a 5 miglia dal parco di Sequoia. Vedo le montagne solo quando ne imbocco le strade ai piedi, ormai deluso e disilluso sui panorami da ammirarsi nella giornata. Mi ero rassegnato a vedere foschia e declivi brulli fino al tramonto. Finalmente, quando sto per perdere la pazienza, entro nel parco. Foschi presagi mi avvertono – potrei rischiare di trovarmi in un traffic jam anche se e’ sabato, e so bene quanto un traffic jam possa tenerti fermo, in un parco nazionale – quindi inizio a percorrere la strada verso nord con un po’ di apprensione. Inoltre, mi metto in clima orso. Di qui all’uscita del parco di Yosemite, prossima meta, le Sierras sono l’habitat principale dell’orso bruno americano, orso nero per intenderci. Non e’ paragonabile al grizzly, da cui perde mediamente una ventina di centimetri al garrese (o all’orsese?) e anche un paio di centinaia di chili di peso. Non ha le stesse, potentissime zampe e mascelle. Non ha la stessa aggressivita’. Ma come tutti gli orsi, ha parecchie cose in comune con il cugino piu’ grande. Primo, una potenza comunque notevolissima. Un umano non puo’ resistere, se non armato. Secondo, un fiuto incredibile, che gli consente di scoprire una mela dentro uno zaino chiuso in una macchina, per esempio. Terzo, il fatto che, se decide che ha fame e che vuole mangiare carne, e punta un essere umano, beh, non vedo bei momenti per quella persona. Ci sono molte testimonianze di attacchi anche di orsi neri ad esseri umani. Essi vengono fatti, a differenza dei grizzly che spesso attaccano per proteggere i cuccioli, quindi per difesa, per pura predazione. Un orso nero non attacca per difesa, piuttosto e’ propenso a scappare, magari arrampicandosi su un albero. Quando attacca, sprattutto i grossi maschi, lo fa per uccidere, per fame, per necessita’. E cosi’, capita che qualcuno perda le stracce anche per causa di un orso nero. Non sono solo gli enormi grizzly, quelli d’Alaska, che per difendere i cuccioli sbranano qualcuno e poi lo lasciano li mezzo morto. Sono animali che, a seconda dell’abbondanza di altri pasti (cacciagione, ma soprattutto bacche e frutti) possono puntare anche spuntini un po’ meno usuali: gli esseri umani. Per questi motivi, e perche’ essi mi sono ricordati da ogni benedetto cartello presente nel parco, attivo la modalita’ orso che prevede il sotterramento dei miei profumatissimi chewingum e di dentifricio e deodorante sotto qualche quintale di vestiti, dentro la valigia. Poi, attenzione al massimo. Pisciare nel primo cesso disponibile nel parco, diventa una specie di missione ad alto rischio per il Manu bear-mode. Patetico. Rientrato in macchina e disposte le misure di sicurezza temporanee, comunque realmente necessarie per evitare possibili brutte sorprese, riparto alla volta del mio obiettivo: i boschi di sequoie. Guido per un paesaggio che non sembra poi cosi’ diverso da brulli declivi visti poco prima. Inizio a spazientirmi, perche’ non vedo sequoie. Anzi, vedo macchine ferme in coda. Damn it! Un semaforo grande come un frigorifero tiene ferme quelle che per ora sono una decina di macchine, cosa che mi suggerisce che la lagna e’ appena iniziata. Spengo subito il motore, apro la portiera e mi preparo ad un’attesa di molteplici, indefiniti minuti (un cartello sotto il frigorifero, della grandezza di un paio di microonde, mi avvisa che i ritardi possono essere anche di mezzora!). Esploro con sguardo attento i dintorni, concentrato nella ricerca di una grossa macchia nera che si muove furtiva nella vegetazione. Il massimo che riesco a localizzare pero’, e’ il solito squirrel. Vedro’ tempi migliori, e piu’ emozionanti. Dopo 10 minuti ricevo il via libera e riprendo a guidare, su strade sotto manutenzione ma perlomeno con una vegetazione che muta. Piano piano la foresta si infittisce, si scurisce, e il paesaggio assume un aspetto piu’ gradevole, seppur un po’ piu’ tetro, spettrale. Gli alberi sono piu’ alti, fanno filtrare meno luce, e quella che passa crea strani giochi di luci ed ombre che fanno sembrare la foresta, un luogo incantato, magico. E cosi’, magicamente, vedo la mia prima sequoia. Devo premettere che non capisco una ceppa di botanica, ne’ so riconoscere un pioppo da un faggio o un castagno. Ma e’ impossibile non riconoscere una sequoia. Anzi, una sequoia gigante! Quelli che ho davanti sono gli alberi piu’ grossi del mondo – e uso la parola grossi non a caso. Non sono i piu’ alti, quelli si trovano nel parco di Redwood, sempre (guarda un po’) negli Stati Uniti e sempre in California, qualche centinaio di miglia a nord-ovest, sulla costa. Questi invece sono gli alberi che hanno la mole – tronco, rami, foglie – piu’ grossa del pianeta. Il parco, istituito nel 1890 (il primo parco, Yellowstone, veniva fondato grazie a Dio nel 1872) raccoglie tante enormi sequoie giganti del Nord America, i cui tronchi rossi, larghissimi, che sembrano quasi di plastica, sono inconfondibili anche per un caprone in quanto a botanica come lo scrivente. Inizialmente vedo solo qualche albero, uno dei quali in mezzo alla strada, bello, prorompente, a dividere le due corsie di marcia. Bell’idea! Poi, mano a mano che ci si inoltra nel fitto della foresta, percorrendo la General Highway, si arriva al clou.
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